“La mosca Verdolina di un Nobel” di Maria Nivea Zagarella

Scriveva Calvino nella introduzione alla sua raccolta di Fiabe italiane (1956) che le fiabe sono vere, perché spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti… un catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e una donna, soprattutto per la parte di vita che è appunto il farsi di un destino, la giovinezza… E Rodari, richiamandolo esplicitamente ne La grammatica della fantasia -e anche lui con le teorie e gli scritti di V. Propp alle spalle- rimarcava nel 1973 che le fiabe sono una iniziazione all’umanità, al mondo della storia perché ricco repertorio di caratteri e destini nel quale il bambino trova indizi della realtà che non conosce, del futuro che non sa ancora pensare, creandosi per tale via strutture mentali e immaginative (quali il rapporto “io e gli altri”, ”io e le cose”, ”cose vere e cose inventate”, distanze nello spazio e nel tempo), imparando pure a conoscersi e a misurarsi con la paura tramite la voce affabulante dell’adulto (madre soprattutto, papà…) che serve a dargli sicurezza e confermargli protezione.

Più di recente, circa l’importanza dell’educazione emotiva e sentimentale fin dalla primissima infanzia, Umberto Galimberti ha spesso ricordato che attraverso le fiabe mediate dalla voce materna il bimbo apprende già, per via più emotiva che mentale, la differenza fra il bene e il male, il giusto e l’ingiusto, il buono e il cattivo, acquisendo un regolatore emotivo che gli permette di “sentire” immediatamente quanto le sue azioni siano buone o cattive, giuste o ingiuste. Esperienza cruciale questa senza cui il soggetto resta allo stadio pulsionale, con possibili gravi conseguenze nelle successive fasce d’età, quali l’indifferenza emotiva e l’assenza di ogni senso di colpa, che in genere si riscontrano -sottolinea Galimberti - nelle azioni dei bulli o di quei giovanissimi autori di delitti efferati di cui è piena la cronaca nera, e che vengono superficialmente etichettati, fra orrore e stupore, come impensabili, inimmaginabili, inaspettati! Quanti adulti oggi indugiano a dialogare e raccontare fiabe vecchie e nuove ai loro piccoli figli e/o nipoti? Perciò la forza della testimonianza umana innanzitutto e dell’operazione, più che letteraria, affettiva, entrambe consegnate alle pagine del suo libro di fiabe, La mosca verdolina e altre storie per chi non vuol dormire, di Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica (2021), libro illustrato accortamente, vivacemente e con tratti assai moderni da Camilla Pintonato.

Racconta lo scienziato Parisi che, volendo i suoi due figli (un maschio e una femmina)  quando erano piccoli, ascoltare una fiaba prima di addormentarsi, lui leggeva loro a voce alta, seduto in corridoio fuori dalla stanza buia con i bimbi già a letto, una delle 200 fiabe del  su citato Calvino, finché non decise di inventarne tre nuove, cui ha successivamente aggiunto quelle per gli attuali tre nipotini. Cinque fiabe (La bimba, la strega e il mago Merlino; Tonino, la tartaruga e il rospo; L’erba voglio non cresce nemmeno nel giardino del re; La mosca verdolina; Vincere il premio Babalù) riporta il libro, costruite con elementi tratti dalla più nota tradizione fiabesca e rimescolati tra loro (bosco, lupo, maghi, strega cattiva, bacchette e pozioni magiche, la spada Excalibur, il bando/editto del re, il “divieto “e la ”punizione”, gli animali amici e la vecchina “aiutante”, le 7 paia di scarpe logorate nell’attraversare 7 montagne e 7 valli, i chicchi di mais sparsi come le pietruzze di Pollicino, gli immancabili e canonici tre 3 giorni e 3 notti di attesa o avventure, il drago dalle 7 teste, e cavalieri, metamorfosi, principesse…) con qualche inevitabile aggiornamento indotto dalla mentalità e costumi contemporanei e dalla personalità scientista dell’autore.

Più che di vibrazioni fantastico-sentimentali, le fiabe di Giorgio Parisi, nel libro Nonno affabulante in dialogo con tre nipotini, si strutturano infatti di passione razionalistica e volontaristica, e puntano dritte e veloci verso la conclusione, con brevissimi indugi disinteressatamente descrittivi, come il bel mazzo di narcisi regalato alla bimba coraggiosa della prima fiaba dagli abitanti del villaggio, o l’aspetto della bellissima principessa ex rospo, con i capelli neri come l’inchiostro di china, le guance rosse come ciliegie e la pelle bianca come la neve della seconda, o ancora le corse sfrenate nella bella libertà del bosco dei due bambini della quarta fiaba in gara con l’amica mosca Verdolina (alcune volte vincevano loro, altre la mosca), i fiorellini gialli infine tanto carini della fiaba dell’erba-voglio. Lo stesso vale per le piccole occasioni di vita quotidiana che, fra meraviglia, curiosità, festevole vivacità, piccole trasgressioni/capricci dei tre ragazzini, fanno da antefatto o in-put alle cinque fiabe, occasioni che evidenziano il “fiabesco” inscritto anche nella varietà/bellezza della Natura. Si vedano le spiegazioni alle domande degli incuriositi nipotini del Nonno circa il complesso volo degli storni, la nuvola stranissima, enorme, fatta di tanti puntini neri, che cambiava continuamente forma, vista girare dai bimbi sugli alberi della stazione. Non è una bellissima fiaba in sé la consuetudine degli storni, un po’ più grossi dei passeri e un po’ più piccoli dei piccioni, che, freddolosi e solidali, hanno bisogno di alberi dalle foglie fitte per dormirvi di notte al calduccio, e perciò in autunno e inverno cercano quelli che non le perdono, e trovatili vi girano sopra segnalandoli agli altri del gruppo, che arrivano man mano ingrossando la nuvola, finché tutto lo stormo non si posa sui rami pronto per dormire?

Parimenti diventano piccole, attraenti, “narrazioni” le altre spiegazioni del Nonno sulla legge fisica che, se uno spinge verso il basso, proietta in senso opposto, mentre due nipotini saltano sui letti (guarda come volo, dice il più piccolo dei tre); o sull’aria calda che porta la mongolfiera a salire verso l’alto, mongolfiera cui fa da sfondo il cielo rosso di un bellissimo tramonto d’inizio estate; o sul volare delle mosche alla maniera degli elicotteri, mentre una mosca volando nella stanza si posa ora sul naso dell’uno, ora sulla guancia e sulla mano degli altri due bimbi, e mentre il Nonno viene precisando che le fotografie al microscopio degli insetti sono bellissime; o ancora, sull’alternanza giorno/notte per il lento girare della terra su stessa (Perché fa buio?, ha chiesto il nipote mezzano) e qui l’occasione è una magnifica serata con il cielo blu pieno di stelle e pianeti luccicanti. E non manca una osservazione del nonno, rivolta al nipotino più grande per il suo primo giorno di scuola, circa l’importanza della scuola, dove si imparano un sacco di cose.

Quanto alle cinque fiabe, le prime due ribaltano i ruoli maschile/femminile, rendendo protagoniste la prima, la bimba che, pur essendo più piccola dei cavalieri e per giunta femmina, riesce lei sola a estrarre la spada Excalibur dalla roccia (I cavalieri si stupirono e tutti pensarono in cuor loro: certo che quella bambina deve essere fatata…) e a uccidere la strega cattiva (incurante delle minacce, la bambina si lanciò agitando la spada magica) liberando il fratellino; la seconda, la principessa ingegnosa in cui si è trasformato il rospo baciato da Tonino, la quale vince grazie alla sua astuzia e determinazione (Dobbiamo rubare il mais del mago… Niente ma… Presto andiamo a preparare la trappola…) il mago cattivo che trasformava le sue vittime in animali. Quella dell’Erba-voglio corregge l’ostinazione/arroganza di chi non sa dire “per favore”, evidenziando la resistenza/opposizione dell’erba, trapiantata dal bosco sotto la finestra del Re, e dei suoi fiorellini gialli (che non volevano saperne di spuntare) alle pretese del Re, che sapeva solo egoisticamente minacciare e “strillare”: Voglio i fiorellini gialli, li voglio, li voglio, li voglio. La fiaba bene s’attaglia oggi ai violentatori della Natura, a cui si rivolge indirettamente (ma chiaramente) come monito l’invocazione finale del Re all’erba, suggeritagli dal saggio mago Magillo (Non appena l’erba sente “voglio” smette di crescere, anche se sta nel giardino del re). E il Re alla fine, fattosi gentile, “pregherà”: Erba, erbuccia mia, vuoi fare per favore (sic!) quei fiorellini gialli che a me piacciono tanto?... e la mattina dopo, quando si affacciò alla finestra, vide che sull’erba erano spuntati dei bellissimi fiorellini gialli. Non avrebbe bisogno l’homo oeconomicus e ipertecnologico di oggi di altrettanta umiltà e gentilezza verso la Natura?

La fiaba della mosca Verdolina, che prende spunto da una foto vista dal nipotino più grande (una mosca fotografata da vicinissimo con occhi enormi e un corpo verdolino), riabilita un insetto sempre da tutti scacciato e ammazzato, inserendolo nella bella catena di solidarietà (mosche-api-contadino che si rimandano il merito dall’uno alle altre) che salva i due bimbi dal lupo accovacciatosi ai piedi dell’albero su cui i piccoli hanno trovato riparo. Quella infine del premio Babalù (con evidente allusione al premio Nobel, perché creato dal mago cattivo Babalù che divenuto buono, ha usato tutti i suoi averi per creare un premio destinato ai cavalieri più coraggiosi), scalza ogni pretenzioso “familismo”, piaga purtroppo corrente nella nostra società ai più vari livelli di Istituzioni e pubblici uffici o incarichi. Il familismo di chi ritiene ereditari “bravura” e “premi”, come scorrettamente pensano e pretendono i due fratelli maggiori di Giovannino: Noi siamo i nipoti di un grande cavaliere che ha addirittura vinto il premio Babalù… Noi abbiamo di sicuro ereditato la sua bravura: non è necessario perdere tempo ad allenarsi e a studiare. Perciò la fiaba, costruita come le altre con inevitabili, e formulari, iterazioni come quelle della vecchina (Gentile cavaliere potresti aiutarmi a portare questo secchio fino a casa?), contrappone la sconfitta dei fratelli superbi ed egoisti, che restano intrappolati dentro il castello trasformati in statue di sale, alla vittoria sul mago del piccolo Giovannino allenatosi invece coscienziosamente per anni, come aveva raccomandato il nonno (Non sono cose facili: bisogna impegnarsi e faticare), per diventare appunto un bravo cavaliere alla pari con il nonno che aveva ucciso un feroce drago, e vinto perciò il premio Babalù. Giovannino, facendo esercizi tutti i giorni e allenandosi, non pretendeva di vincere tanti tornei, voleva solo fare del “suo meglio”, realizzarsi cioè in pienezza: L’importante non è vincere, -dice- ma partecipare (alias mettere in gioco, esercitandola, la propria umanità/dignità): uno solo vince, e sono tanti quelli che perdono. Perciò a differenza dei fratelli, che hanno respinto in malo modo sia l’uno che l’altro la vecchina (Non posso aiutarti: non ho tempo da perdere con te), per “correre” burbanzosamente a sconfiggere il mago e liberare la principessa, risponderà anche, e generosamente e rispettosamente (Certo, cara nonnina…), alla richiesta d’aiuto di quella, gravata dal pesante secchio d’acqua. E viene spontaneo chiedersi e chiedere quanti oggi come Giovannino siano disposti quotidianamente non solo ad “allenarsi” a impegnarsi e faticare, ma a trovare anche tempo da perdere per accorgersi e rispondere alle fatiche/dolore altrui.

 

 

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