La poetica di Corrado Calabrò: l’agnizione dell’«Oltre» e dell’«Invisibile»* - di Carlo Di Lieto

<<Il primi verso è sempre un dono degli dei>>

Paul Valéry

 

<<Potessi almeno costringere/ in questo mio ritmo stento/ qualche poco del tuo vaneggiamento; / […] Ed il tuo rombo cresce, e si dilata/ azzurra l’ombra nuova.// M’abbandonano a prova i miei pensieri.// Sensi non ho; né senso. Non ho limite>>

(E.Montale, Mediterraneo).

 

1.Il recente volume, a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, L’attrazione dell’Oltre nella poesia di Corrado Calabrò, 2024, vol. I-II, è un articolato percorso sul tema dell’Oltre[1].

L’Oltre è un <<lemma ricorrente nella concezione esistenziale ed estetica del poeta>>, scrive sapientemente Lorenza Rocco.  La mirabile poesia di Corrado Calabrò, in questo testo, così ben articolato, ci fa comprendere la sottile frenesia dell’intuizione del pensiero poetante e i meccanismi del complicato formarsi del pensiero stesso, durante la gestazione della sua visionarietà creativa.

Nel saggio La filosofia della composizione, Edgar Allan Poe (1846) sostiene di non conoscere ancora qualche scrittore che abbia esposto in maniera esplicita la tecnica di composizione della creatività. Corrado Calabrò, ad ampio spettro, mette in luce nell’attrazione dell’Oltre lo stato di grazia della poesia e le scaturigini del dettato poetico e come <<il poeta vive una doppia vita, una reale e una non vita che è rivolta all’Oltre>>. <<Nell’intervista di Fabia Baldi c’è lo snodo di quanto Edgar Allan Poe andava cercando nella tecnica della composizione: <<Fu allora che il desiderio dell’Oltre  scrive il Poeta, divenne in me un sentimento irreprimibile, dominante,>> anche se è vero che il mare è stato il mio imprinting. Osserva Bergson che <<c’è nel profondo dell’animo della maggior parte degli uomini, qualcosa che, impercettibilmente, fa loro eco>>, come un altro da sé. L’energia irrefrenabile dell’ispirazione oltrepassa la visuale del dejà-vu e la poesia si configura come un “altrove”, inteso come una dimensione altra e apparentemente antinomica. Domenico Rea scrive: <<A sentirli i critici, i lettori saputi, i maîtres à penser, sembra che tutto si sia esaurito; che ogni parola abbia perduto il suo significato; che tutti i libri siano da buttare; che nessuno possa più condurre un itinerario della sua memoria e imbattersi in un’immagine nuova dell’universo. La poesia ha percorso per intero quest’inferno. È precipitata lungo tutti i dirupi. […] Risalire la cima e vedere rispuntare l’erba, l’acqua, gli sciupati sentimenti della meraviglia e dell’amore, è il tentativo a cui si sono accinti pochi illusi … partendo da una tabula rasa in cui, certo, permane una memoria d’un remotissimo passato, ma come un’eco, come uno stordimento. Da questa base parte e ha inizio il lavoro di Corrado Calabrò… Mantenendo come in sospeso il lavoro degli altri e il loro dramma impotente, trasferisce sulla pagina nient’altro che i disegni delle sue sensazioni dirette, inserite in un discorso che va avanti per gemmazione spontanea […] La sua poesia va ricercata nel suo tentativo di dare un senso, più che un significato, alle parole, ch’egli usa davvero come pegni … per ricominciare dai primi gesti,  dai primi significati… Da questo azzeramento parte Calabrò per la ricerca al massimo della sua stessa compagnia, dell’identità di una genesi compatibile con l’esistenza>>. Per Cimatti, <<la poesia di Calabrò non va verso il sud dei sentimenti primitivi, naïf, sanguigni, va verso il nord metafisico delle ricerche di assoluto, colte e sapienti sotto il palpito dei sentimenti>>.

L’autoscopia di questa confessione infinita è l’esistenza storica di un tempo acronico, inteso metafisicamente come perdita, devastazione, angoscia. Gli inneschi della poesia di Calabrò nascono per una sorta di magico stato di grazia e da una pulsione inconscia; si tratta di un dettato poetico che parte da un insondabile Oltre: <<Il bisogno della poesia nasce dalla scontentezza della banalità dell’espressione, dall’inadeguatezza della comunicazione>>. Il sospetto dell’insignificanza, dell’impossibilità di cogliere l’essenziale, in cui l’ideale e il reale, l’assoluto e la storia giungono ad identificarsi, scagiona la cultura dell’effimero, proiettandoci verso il superamento dell’agnizione dell’Oltre. La poesia contemporanea ha reagito alla “caverna del nostro subliminale”, rifugiandosi nell’astrusità, nel cerebralismo e nell’enfatizzazione della parola.

La poesia di Calabrò attinge all’inesplicabile voce dell’inconscio, per disvelare la suggestione dell’Essere e dell’altro da sé: <<È un tentativo di trait d’union tra l’esistere e l’essere>>; uno spazio interiore che anela all’agnizione dell’Invisibile, attraverso il trasalimento dell’anima, che amplia il suo campo visivo. Lo stupore della vita-non vita si sovrappone all’emozione, all’evocazione della potenza della memoria involontaria, nel vedere oltre il già visto. L’interrogazione avviene nel profondo, per tentare il salto oltre l’abisso  che ci si spalanca davanti, per cogliere la bellezza dell’invenzione e dell’ispirazione: <<una bellezza inquietante come tutto quello che proviene dall’inconscio>>, scrive Calabrò. È il limite ultimo che si protende al di là del nostro orizzonte mentale, per aprire campi sconfinati sull’asse scienza-poesia. Precludere la possibilità di un varco verso l’inconscio, devitalizza la funzione di un percorso  emozionale. Ogni contaminazione è inaccettabile; non si deve deflettere dal canone della musicalità intrinseca del dire in versi.

Giuseppe Rando scrive: <<È, difatti, immediatamente percepibile la perfetta, esplicita,  ma personalissima caratura musicale dei componimenti poetici di Calabrò, insieme con il supporto di una poetica che s’avverte, d’acchito, assolutamente nuova>>. La ricerca dell’Oltre e dell’Invisibile è importane per la rivelazione di un qualcos’altro, di <<quel qualcosa che il cieco Omero vedeva e che noi usualmente non vediamo>>. Il poeta è guidato dall’istinto e dall’ispirazione, nel suo instancabile tentativo di reinvenzione  e di rigenerazione della parola; egli deve chiudere gli occhi per “vedersi” dentro senza guardarsi.

Edgar Allan Poe non condivide la “ripugnanza” di tanti scrittori nel mostrare la logica e la simmetria ordinatrice che sta dietro ad ogni racconto. Decide, pertanto, di rivelare tutto il percorso che lo ha portato al compimento della sua opera più conosciuta: Il corvo. L’intento di Calabrò come quello di Poe è quello di mostrare come  ogni opera d’arte è il frutto di un attento e scrupoloso studio e  di una sofferta meditazione, non priva di capogiri bi-logici.

<<È mia intenzione rendere evidente, scrive Poe, come ogni momento nella sua composizione sia rapportabile o a un incidente o a un’intuizione; che il lavoro è proceduto passo passo, fino al suo completamento, con la stessa precisione e la stessa consequenzialità di un teorema matematico>>. Il concetto di intuizione artistica si pone simmetricamente alla folgorante ispirazione come visione eidetica di un’attività metodica e analitica, non priva di spontaneità e di libertà inventiva. Poe rileva che <<quasi tutti gli scrittori preferiscono lasciar intendere di comporre in una sorta di sottile frenesia - un’intuizione estatica – e rabbrividirebbero all’idea che il pubblico spiasse dietro le quinte per cogliere il complicato e barcollante formarsi del pensiero; sia le vere intenzioni che trovano espressione solo all’ultimo momento, sia gli innumerevoli dettagli di un’idea non pervenuta ancora a piena maturità, sia le fantasie perfettamente delineate ma scartate con disperazione in quanto non addomesticabili, sia le selezioni e i rifiuti operati così timorosamente>>. <<Lo stesso autore>>, scrive, in modo illuminante, Fabia Baldi, <<ci spiega che la sua avventura poetica si configura come un’inchiesta che lo spinge sempre alla ricerca di qualcosa, come un novello Ulisse. […] È una ricerca della conoscenza, che si dirama in duplice direzione, la realtà esterna e quella interiore, due facce del medesimo mistero, che è quello della vita stessa, che avvicinano Calabrò all’Ulisse dantesco piuttosto che all’eroe omerico. […] Il viaggio di Calabrò è infinito, la spinta alla conoscenza è un sasso gettato in uno stagno che genera anelli concentrici in successione fino al suo definitivo sprofondamento>>. Il viaggio estraniante del poeta è fondamentalmente alla ricerca di se stesso; insegue un miraggio, che si slarga lungo un orizzonte indefinito di attesa. Questo percorso immaginario è orientato al di fuori della categoria spazio-tempo verso una “quinta dimensione”, in cui il passato, il presente e il futuro si annullano e si fondono in una percezione assoluta di tutto quello che si intuisce durante lo stato di grazia dell’ispirazione. La visionarietà creativa va oltre la forza espressiva della sintassi e dà vita alla prosa lirica del monologo interiore, rompendo gli argini delle regole codificate della grammatica. Nel dettato poetico di Calabrò si rimane turbati per il flusso emotivo dello scenario onirico che esonda senza alterare la misura metrica e il livello retorico e fonosimbolico. Il poeta padroneggia sogno e  visione, piegando lo strumento della lingua, in modo multiforme, all’efficacia della rappresentazione e dell’emozione: termini colti ed aulici, stile colloquiale, linguaggio scientifico-tecnico fino alla creazione di neologismi. La cifra vera dell’originalità della poesia di Calabrò risiede nel coagulo stesso della sua visionarietà creativa e della dimensione della scena onirica oltre i limiti umani e al di là della logica ordinaria. Nel riconoscersi “una docile fibra dell’universo”, il poeta monitora “gli stati d’animo” di questo vasto scenario fantasmatico, visto con la lente rifrangente dell’introspezione. Con l’analisi dell’inconscio, si colgono le esperienze reali del poeta e l’epifania dei ricordi, correlati alle tracce mnestiche e contrassegnati dall’anestetico oblio. La macerazione interiore viene potenziata da un pensiero divergente e dal fomite dell’ispirazione. Il trasalimento rompe la rete analogica del visibile, contenendo la realtà cosciente, in uno spazio completamente lontano dall’universo fenomenico, nell’indecifrabile mondo dell’inconscio. Questo percorso trasmigra verso un inconoscibile illimite, che, con un flusso incalzante di immagini, compone un variegato regesto compositivo. L’Oltre, per Calabrò, vortica, in una dimensione immaginaria: egli elabora un’ipotesi liberatoria, che oblitera “il principio di realtà” in un “principio di piacere”, associandolo, con il travestimento del ricordo. La forza dirompente della parola, nella direzione interpretativa dell’esegesi psicoanalitica, trova una plausibile spiegazione, per poter disvelare il rapporto diadico io-altro da sé e la seduzione dell’immaginario nella complessa interazione poesia-scienza. Su due piani paralleli, l’intelaiatura della vita cosciente si misura con la misteriosa realtà dell’infinito, nel flusso ininterrotto dell’io e della visionarietà del sottosuolo psichico, determinando l’incantesimo dell’altrove, che convive come tensione dell’Invisibile e dell’ignoto. Per comprendere, in modo radiale, la straordinaria e policentrica poesia di Calabrò, occorre perlustrare la cifra illuminante della sua Quinta dimensione, per suggerirci uno spiraglio di luce che ci protende oltre la condizione umana. Il messaggio consiste, come accade nella scena onirica, nella premonizione di un varco e di un’imminente rivelazione.

In uno scenario disincantato, tutto è calato nella levità di una limpidezza espressiva, che prosciuga la vertigine dell’ispirazione e coarta gli sconfinamenti dell’io, in una condizione psichica che va oltre la soglia della coscienza. Il linguaggio depone le pretese logico-razionali e sonda l’Essere in certi momenti privilegiati, mediante gli occasionali richiami che vengono dall’interiorità profonda. Il dettato poetico di Corrado Calabrò nasce da inconsce fonti affettive e comunica un piacere preliminare, che interagisce con la sua coscienza inquieta. Il poeta procede per associazioni d’immagini, che evocano le ragioni di questo disagio e rendono possibile la proiezione e la frammentazione, lo spostamento e la condensazione psicologica. La specularità-rifrazione della parola, ora scabra ed essenziale, ora salvifica e perigliosa, diventa estensione del o dell’altro da sé. Le risonanze dell’Oltre, nella complessa interazione del flusso ininterrotto dell’io e della visionarietà del sottosuolo psichico, convivono, con l’incantesimo della Quinta dimensione, la tensione dell’Invisibile e il mistero dell’ignoto. Il profluvio delle immagini scorre sul proscenio della mente, inglobando la categoria del tempo e dello spazio nel cono d’ombra della psiche del poeta. È  il bisogno dell’Oltre che abita  osmoticamente con il desiderio necessitante della fuga nell’altrove. La predisposizione ingenita alla ricerca dell’Illimite è connaturale in Calabrò, quasi magnetica, sul filo di un’estraniante inquietudine. Il rimosso è disseminato copiosamente in un verso alato e la riflessione è ai limiti della coscienza e la percezione del reale avviene nella progressione della scena onirico-visionaria, scandita da corrispondenze analogiche. L’arcana dimensione del reale diventa un ossimoro di un presente acronico sul versante di una fervida immaginazione. Il poeta, nella sua elaborata gestazione, insegue un’altra realtà, che è dentro di lui custodita gelosamente e che riesce a estrapolare attraverso lo stato di grazia dell’ispirazione. Nell’avvolgente specularità, il fantasma della poesia diventa intersezione tra il non-senso e la scienza e avvalora quanto scrive Jung ne La relazione fra l’ego e l’inconscio (1928): <<Più si diventa consapevoli di noi stessi attraverso l’autocoscienza, e si agisce di conseguenza, più diminuirà lo strato di inconscio personale sovrapposto all’inconscio collettivo. In questo modo sorge una coscienza che non è più imprigionata nel mondo insignificante,  sovrasensibile e personale degli interessi obiettivi. […] È, invece, una funzione di relazione con il mondo degli oggetti, che porta l’individuale nell’assoluto in comunione avvincente e indissolubile con il mondo intero>>.

Il poeta affronta il lato oscuro dell’inconscio e del doppio, veicolando il suo teatro interiore e i sotterranei della sua mente, che tornano alla luce ogni qual volta il simbolo e le immagini diventano parole, per sfuggire alla disarmonia della realtà. Nell’acuto respiro di questi alati versi, il sentimento di immedesimazione proviene dalla specula dell’infinità dei mondi e dalla consapevolezza dell’ “arido vero”. L’inappartenenza dell’uomo si coniuga con il mistero dell’Infinito e dell’Oltre, attivando una ricerca spasmodica del varco, in perfetta sintonia con la dimensione indistinta e indecifrabile dell’inconscio, da cui si può evadere inconsapevolmente con lo stato di grazia della scrittura poetica. La logica incongrua del caso catalizza il disincanto della non-vita tra passione e ragione, “scena onirica” e “principio di realtà”. Nell’area sconfinata dell’Invisibile, solamente il sentimento empatico ci consente di vivere una pulsione viatoria dell’infinitizzazione, che diventa coesistenza di un mondo e di una realtà fittizia. Questa progressione  verso l’Oltre viene svilita dall’idea unitaria dell’io, che comprova la rete associativa di un complesso diorama psichico. L’energia fluttuante del rimosso propizia l’attraversamento verso l’Oltre, che è al di là del dolore umano e del “vago immaginar”. Per Platone <<senza una passione che lo  sorregga, il pensiero umano non può essere se non un pensiero debole>>. <<Con una combinazione di parole che ha del magico, la poesia allude, evoca, trasmuta, accosta ossimoricamente termini per dare un palpito nuovo>> alla grigia realtà del transeunte. La poesia, nella sua scansione interiore, ha una sua proprietà transitiva, che produce una fluttuazione che ci fa vedere un  barlume di luce, che gravitava oscuramente nel nostro preconscio: <<un’onda emozionale-intellettiva si rapprende in un’immagine>> e ci predispone a un’improvvisa sovradeterminazione. Il trasalimento interiore è il segno dell’oltrepassamento della soglia della percezione; l’ispirazione poetica, come la conoscenza, è il demone ispiratore, che trasmette il concetto metafisico del furore divino. Per cercare il baricentro della nostra vicenda esistenziale, l’io, espropriato della propria soggettività, è trascinato oltre dall’altro da sé, nell’empito della seduzione. La ricerca della propria identità consiste nel superare la soglia del limite, oltrepassare l’illimite dell’espansione del e, al tempo stesso, della fusione io-altro da sé. È la tensione verso l’Essere, la cui <<congiunzione avviene in sogno,/ dove il tempo non è una dimensione:/ accade che speciali saldature/ riescano solo in assenza dell’aria>> (“Intermittenze”). <<La poesia>> , per Calabrò, <<attraversa il vissuto e ne porta i segni e le cicatrici. […] Ma tende ad andare oltre, medianicamente, come nell’evocazione di presenze inafferrabili e che pure ci parlano>>. L’amore e il dolore ci portano alla comprensione più profonda dell’Essere, a un senso ulteriore dell’irrazionale. In modo evocativo, ipertestuale, la comunicazione poetica travolge ed annienta inconsciamente il nucleo dell’ispirazione: non si può applicare un criterio raziocinante a un fenomeno essenzialmente dionisiaco. L’agnizione rivelatrice dell’Oltre diventa una folgorazione misterica, nell’avvertire un senso ulteriore e un diverso livello di comunicazione. Il poeta intravede quel quid pluris insondabile e sfuggente, che la risonanza dell’Illimite gli ha fatto cogliere solamente in parte, e lo traduce in uno stato d’animo, nel momento in cui la poesia nasce, dopo tanta attesa, da una compenetrazione con l’occhio interiore, come in trance. La poesia è <<la presenza rimandata di un’assenza>>, secondo Calabrò; il suo valore medianico non sta tanto in quello che si dice, ma in quello che evoca attraverso la sua magica seduzione. La parola poetica deve suggerire l’incompiuto, la sua indeterminatezza, l’inizio  di un infinito percorso emozionale, talvolta, indecifrabile e misterioso. <<L’incompiuto è spesso più efficace della compiutezza. L’incompiuto è spesso più efficace della compiutezza. L’incompiuto come mezzo di seduzione artistica è un attimo determinante della suggestione poetica, di propedeutica epistéme e non di “intellezione intuitiva”. È la rivelazione di un qualcosa di ignoto, la cui scoperta ci porta direttamente allo stato di grazia di una rivelazione larvale, preconscia, che oltrepassa la soglia del dicibile. La poesia, secondo Calabrò, deve dissimulare <<il valore in sé dalla rivelazione e la creatività (cioè la massima espressione di libertà, di liberazione) sembra stranamente (straniatamente) soggiacere a una sua interiore anànche>>. Calabrò illustra, in modo egregio, alla maniera de La filosofia della composizione di Edgar Allan Poe, il modus operandi dell’attività scrittoria. La poesia obbedisce ad una suprema necessità di sospensione psicologica per quell’eco interiore, ricca di risonanze che è tra il rappresentato e l’intravisto. È la magnificenza dell’indicibile, che segna lo spartiacque dell’Illimite e lo svelarsi di ciò che è nascosto sotto le mentite spoglie della metafora dell’esserci,   a cui da sempre è affidata la funzione evocativa del dettato poetico. La realtà ha un ultrasenso, se affidata ad un’autorivelazione indotta e ad un sostrato subliminale o interrogando il caso per una scoperta inattesa e che prescinde dai presupposti teorici dai quali essa muove (Serendipity). Quel “tremendo senso di sospensione” nasce da un presente anteriore,  un rapporto acronico che afferisce al magma dell’inconscio. Non c’è alcun totem di salvazione che possa esorcizzare “il patimento del tempo”, per ridisegnare la mappa del reale, dopo la riemersione dei suoi barlumi di luce e dopo aver intravisto un varco  d’uscita dalla mefitica palude del mondo.  La grazia e la delicatezza del verso di Calabrò ha una presa diretta con il pensiero emozionale e il registro poetico ha un intento essenziale, quello di vivere una forte tensione di una vita non surrogata, ma con/vissuta in perfetta sintonia con la propria solitudine essenziale, dove la traccia mnestica perimetra un io sublimato, che tenta l’approdo verso l’altro. La vertigine dell’ispirazione avverte gli sconfinamenti dell’io, in una condizione desiderante, che va oltre la soglia della coscienza, per cogliere la sintesi magica delle immagini poetiche.

Dal flusso rigenerante dell’ispirazione erompe il flusso di coscienza, contrapponendo il contenuto manifesto a quello latente, nell’elaborare con “la coazione a ripetere”, il vuoto dell’assenza. Lungo il crinale dei ricordi e delle associazioni mentali, l’io è in fuga da se stesso; fluisce sul piano inclinato di un vorticoso sentire e fagocita la purificazione dell’inquieto sentimento dell’Essere. Nelle febbrili note dello Zibaldone del 4 Ottobre 1821, Leopardi così scrive: <<Chi non ha mai avuto immaginazione, sentimento, capacità di entusiasmo, di eroismo, d’illusioni vive e grandi, di forti e varie passioni, chi non conosce l’immenso sistema del bello […] non conoscerà mai il vero, si persuaderà e proverà colla possibile evidenza cose falsissime […] La ragione ha bisogno dell’immaginazione e delle illusioni ch’ella distrugge; il vero del falso…>>. Il potere evocativo della poesia di Calabrò amplifica lo spazio semantico delle parole e il potere di significazione è consegnato alla testura essenziale della vena poetica. Il fantasma eidetico metabolizza la travolgente tensione del pensiero emozionale, correlandosi al vulnus esistenziale e alle dilacerate tracce mnestiche del “principio di realtà”; nella dissolvenza delle immagini, viene riproposta una sorta di confessione autoanalitica. “L’uscir di pena” elabora i resti diurni, nel tessuto aureo dell’Invisibile. Calabrò, sul fondale delle pulsioni di vita, inanella dolci immagini, e, con una raffinata delicatezza, affida ad un onnivoro dettato poetico i grandi  temi della poesia di tutti i tempi, cari al canone del Novecento e non solo: amore e morte, lutto e melanconia, attesa e assenza, memoria e Tempo, illusione e speranza, per evadere dalla disappartenenza e per intraprendere il viaggio à rebours della mente verso l’Oltre e l’Invisibile. Il fantasma della poesia ha una diretta corrispondenza con la scena onirica, in attesa  di un evento epifanico. L’effort lirico soggiace a formazioni di compromesso tra autoanalisi e attesa per un necessario contrappeso ad un sentimento di perdita e di assenza. Per riappropriarsi del proprio Sé, il poeta tenta un’evasione fantastica. È il segreto di una vertigine che fa seguito all’incantamento, sul cui testo viene descritta l’avventura della vita in un isolamento narcisistico, con approdi salvifici di liberazione. È il volo libero di un airone, che punta verso l’infinito, veicolando una sorta di transfert delle “ragioni del cuore”. La logica del pensiero inconscio non sempre è completamente dominata dal controllo cosciente, che sovente entra in conflitto con se stesso, quando il materiale rimosso riaffiora e il poeta ci restituisce un malessere sfuggente di un universo psichico in espansione, la cui immagine viene trasfigurata dai ricordi e dal sortilegio  di un’intensa attività onirica, che esorcizza la minaccia del presente.

Il candore del verso connota l’io lirico, in una perfetta simmetria di essenzialità stilistica e di una “commozione lirica” di grande efficacia espressiva. Le vistose condizioni della scena onirica e dell’esame di realtà diventano una propaggine dei moti pulsionali: <<Per ciascuno di noi il mondo esiste>>, scrive Calabrò, <<solo in quanto entra nell’orizzonte della propria mente. La poesia realizza un superamento di significato. Ecco perché sembra che magicamente crei per noi un nuovo spicchio di realtà, perché ce la fa scoprire>>. Roaming, questo poemetto straordinario, materiato di una poesia visionaria, struggente, è uno studio attento e meticoloso sulla poetica dell’Oltre e dell’altrove: <<avevo scritto […] un poema di 602 versi sull’astrofisica in uno stato di semicoscienza, quasi di sonnambulismo. Il filo conduttore della mia ispirazione è stata una frase di Senofonte: <<Ora siamo trasportati come i naviganti che, per quanto solchino il mare, non possiedono il tratto che lasciano dietro di sé più di quanto non possiedono il tratto che devono ancora solcare>>.

2.La visione della realtà è un miraggio; la prospettiva olografica ci propone la tridimensionalità con la sua speciale funzione evocativo-fantastica. In questo regesto di tracce mnestiche, il poeta annulla il limen della distanza tra le cose finite e quelle infinite, inseguendo un varco sul piano della carica emozionale con una rappresentazione fantasmatica, ad ampio spettro, senza uscire, però, dal cono d’ombra della sua immagine speculare. Si delinea una sorta di memoria difensiva, legata ai meccanismi di proiezione, per disoccultare il magma inconscio di una fervida fantasia. La fluttuazione del senso è affidata alla ricerca inesausta dell’Essere, per auscultare le misteriose latebre dell’inconscio. Il sortilegio dell’immaginazione è determinato dal vulnus dell’analogia, nel decodificare “il lato oscuro della sorte” e la diade io/altro da sé. Il poeta vuole cogliere quell’oscuro profondo o, per lo meno, intravedere, in questo complesso scenario, quel milieu inconoscibile e introvabile, che è il mistero degli esseri viventi. Invade i meandri della coscienza, per approdare ad una levigatezza espressiva, disarmante e trasparente, che va “oltre la coltre del silenzio”. L’addentellato esistenziale non manca di rinvii autoanalitici, per esperire con l’esercizio del dettato poetico, un itinerarium mentis, nel turbolento magma dell’interiorità. L’io è sedotto da un audace travestimento, la cui vis espressiva insidia la labilità dell’io e la dissonante discrasia dei tumultuosi stati d’animo. Il tessuto aureo di questi versi alati surroga l’impianto lirico-narrativo con il riverbero di una comune radice di alterità negli ascosi significati di un’erratica insolvenza, sull’asse verticale di una ricerca inesausta, implodendo nell’immedesimazione la visione di un mondo in frantumi, umanizzando il fantasma di una rappresentazione mentale, che viene trasfigurata dalla magia del verso e dalla proiezione dell’io del poeta verso un immancabile interlocutore. È un pensiero emozionale in divenire, quello di Calabrò, consegnato al recupero di spazi concettuali di pensiero, che emergono dal sottosuolo della memoria e dalla visione interiore dell’occhio della mente. Attraverso un grumo di concrezioni, viene depurato l’inessenziale da questa “poesia onesta”. La scena onirica vince la realtà, nel ristagno di una luce su un orizzonte collegato da un comune denominatore di spleen liberatorio e di una tanta agognata metamorfosi. Nel tentativo di una “via di fuga” impossibile e sul discrimine di una soggettività ferita, irrompe sulla scena l’autocoscienza di un tempo pretèrito, che indulge alla deriva, spezzando il magico cerchio dei sogni. Il materiale onirico interagisce con l’attività creativa; il dominio del sogno, correlato ai “resti diurni”, è, com’è noto, nelle lacune della memoria cosciente, che è all’origine degli interessanti sogni ipermnestici di questo straordinario dettato lirico. Alla base di questo materiale immaginativo-rappresentativo c’è uno scenario onirico-visionario di alta valenza poietica. James Sully così scrive, a proposito del significato recondito dei sogni : <<Nel sonno ritorniamo ai nostri antichi modi di guardare alle cose e ai nostri antichi sentimenti verso di esse, ritorniamo a impulsi e attività che ci hanno a lungo dominato>>. Il metodo dell’interpretazione del sogno, con il suo linguaggio cifrato, è consegnato all’attento studio di Freud, che ne dà una lettura simbolica: <<La maggior parte dei sogni sono creati artificialmente dai poeti, in quanto ne  esprimono l’idea in un travestimento ritenuto adatto ai caratteri, […] dei nostri sogni>>. Freud scoprirà per caso, in una novella scritta da W.Jensen, Gradiva, alcuni sogni creati ad arte, che sono perfettamente costruiti e possono essere interpretati come se fossero stati sognati da persone reali e non inventati. A tal proposito, Freud scriverà Il delirio e i sogni nella “Gradiva” di W.Jensen, per dimostrare la validità della sua scoperta sul sogno. Pur interdetto, il flusso di coscienza, senza posa, irrompe, travalicando gli argini della censura, nel dettato poetico di Corrado Calabrò. La deformazione onirica è evidente nei versi di Corrado Calabrò e l’affermazione che il sogno è l’appagamento del desiderio, nella lezione freudiana, appare ancora più chiaramente con quanto scrive Eduard von Hartmann nella Filosofia dell’inconscio: <<Per venire al sogno, troviamo penetrante nello stato di sonno tutte le noie dello stato di veglia, ma non vi ritroviamo l’unica cosa che possa in qualche modo riconciliare con la vita l’uomo colto: il godimento scientifico e artistico…>> Il sentimento del disincanto parte dall’inconscio e viene inibito dal preconscio, serve alla condensazione della scena onirica, come punto nodale di molteplici rappresentazioni. In questo repertorio illimitato di immagini, ogni mascheramento propende per lo spostamento del significato nell’area inconscia mediante l’allusione indiretta. L’immagine, nello scenario poetico di Calabrò, nasce, per autoctisi, da un’elaborazione secondaria del materiale onirico; la frequente comparsa di “fantasie diurne”, coscienti, ci facilita la conoscenza di queste formazioni: esistono, in queste liriche, anche fantasie inconsce, che rimangono tali, a causa del loro contenuto e della loro derivazione dal materiale rimosso. Il viaggio mentale di questa poesia sancisce “il crepuscolo dell’io” e la fluttuazione del senso ci rende compartecipi della realtà con la stessa empatia con cui il poeta si sente aderire alla vita dei suoi soggetti lirici, per decodificare “il lato oscuro dell’io”, che “rasenta il vuoto” dell’esserci.  La teatralità dell’io, su diversi  piani psichici, investe l’alterità, facendo pensare ad una rappresentazione scenica e ad una naturale disposizione al dialogo mentale di un inconscio matteblanchiano: <<I processi inconsci e consapevoli appaiono fra loro contaminati in ogni atto mentale, sì che ogni nostra conoscenza del mondo è in ultimo termine una conoscenza di relazioni alle quali ciò che noi chiamiamo mondo si uniforma… La vera realtà, il noumeno del mondo, ci è sconosciuto. Un fatto è perciò… una relazione tra due avvenimenti; e un avvenimento è esso stesso un’altra relazione, cosicché in ultimo termine le sole cose che scopriamo sono relazioni … Un fatto è qualcosa di sempre definito rispetto ad una cornice di riferimento e questa cornice è un sistema di relazioni. La stessa “realtà” sottostante può essere descritta in rapporto a differenti cornici o sistemi di relazioni…>> (I.Matte Blanco, L’inconscio come insiemi infiniti, 1981, p.8). Il discorso poetico di Calabrò procede come autorivelazione; nella contaminazione dei processi inconsci e di quelli consci, attraverso la linea ermeneutica matteblanchiana, per fare chiarezza sulle contraddizioni e sulle antinomie fondamentali degli atti mentali, il poeta offre al lettore una visione realistica della grigia quotidianità. Nel campionario illimitato d’immagini poetiche crea procedimenti retorico-stilistici di indubbia eleganza e raffinatezza, mediante l’acuto sondaggio del “principio di realtà” . Lo scenario creativo di Calabrò si rifrange nel gioco sottile del rovescio, determinando uno stile con/fusivo della realtà, nel segno dell’alterità inconscia. Superando le inibizioni interiori e le difficoltà delle circostanze esterne, si attiva la liberazione di tutto ciò che è rimosso.

La carica energetica trova nell’investimento del lavoro onirico la trasformazione, in una capacità di rappresentazione, di condensazione e di spostamento: un pensiero preconscio viene abbandonato, per un attimo, all’elaborazione inconscia e ciò che ne consegue viene colto immediatamente dalla percezione cosciente. “Il rimosso ritorna”, quando l’immaginazione vortica alla ricerca di una liberazione; le acrobazie prospettiche sono da capogiri bi-logici e anestetizzano le ragioni del cuore, dal momento che il prelogico diventa pervasivo e convincente. Fagocitato dalla dipendenza dell’altro da sé, la varietà degli spunti inventivi è retta da un demiurgo impietoso, che, con la parola, esorcizza la tragicità del “principio di realtà” e trasfigura l’infelice sorte della condizione umana con il “pirandelliano sentimento del contrario”. Questi ripiegamenti introspettivi rifuggono da ogni scuola di pensiero e sono lontani da ogni etichetta classificatoria, nelle spire della pulsione di vita. La cifra è nello smarrimento  interiore e il realismo “surreale” agisce da meccanismo di difesa. Il pensiero emozionale, pur vissuto simbioticamente, ha una sua intonazione perspicua, quando il poeta prende coscienza della derelizione dello scenario umano, nel microcosmo di  una psiche inquieta. Il fluttuante avvicendamento del disinganno sembra coagularsi nel côté dell’immaginario; talvolta, l’atmosfera di estrema rarefazione ed evanescenza ha uno scatto di surreale inversione di rotta, in un “Oltre” sconosciuto; è il rapporto negativo con il mistero della realtà, sospesa tra il probabile e l’assurdo. L’implosiva tensione dell’io porta inevitabilmente all’autoanalisi. Come su una scena onirica, l’irradiazione del non-luogo è quasi un’entità metafisica di un lungo sogno, accompagnato da una visionarietà creativa straordinaria e coinvolgente. È un universo fantastico oblomoviano, pago di sé, in un’immersione inconscia, che riconcilia il poeta con i suoi fantasmi interiori.

La cifra di questa scrittura è nel “ritorno del rimosso”; allontanato il fantasma dalla coscienza, viene riproposta nell’inconscio la rappresentazione di questi fantasmi, lungo il vischioso crinale del profondo.

3.In un’ottica pluriprospettica di un “diverso universo”, in cui “l’oblio presuppone la memoria”, l’implosione è la metafora del reale e la capacità di scorgere l’Oltre è nella quinta dimensione, che fonde la memoria storica e mitografica del passato e il pensiero emozionale dell’io del poeta. Oltrepassare il varco di montaliana memoria è in questo percorso di conoscenza, in questo smarrirsi inquieto come tra le onde del mare. La frenesia ardente dell’Eros , il desiderio inesausto di conoscenza antica e di ricerca dell’Invisibile sono all’interno del sotterraneo spazio dell’inconscio. Il “pensiero poetante” di Calabrò affida all’immaginazione gli oscuri moti della psiche. Ad esempio la seduzione della luna, per il poeta, immersa in un’aura di trasfigurazione, diventa un vettore emozionale di una levità musicale di particolare efficacia. Nell’interrotto muto colloquio selenico, egli dispiega un innocente sdoppiamento con l’altro da sé, in un amplesso appassionato. Non cede il passo all’astrofisico e ogni moto del cuore viene trasfigurato simpateticamente dalla presenza della luna, alla quale dedica versi di straordinaria bellezza. Il suo sereno distacco è nell’imperturbabilità della saggezza di Lucrezio: <<Suave, mari magno turbantibus aequora ventis/ e terra magnum alterius spectore laborem;/ non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,/ sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest>> (De rerum natura). Anche la scelta del registro amoroso ha quasi sempre in Calabrò una forte caratura esistenziale, perché questo sentimento consente a ogni uomo una maturazione profonda dell’io e della pulsione di vita.

Nella Quinta dimensione di Calabrò, il racconto in versi dell’errabonda terra nell’universo compendia la disarmonia/ armonia della condizione esistenziale. Renato Minore, su  <<Il Messaggero>> del 16 dicembre 2018, scrive: <<È uno stato ipnotico quasi di trance: le parole stesse diventano allucinatorie, ripetono e bloccano la litania d’amore sulla scena della natura che, come il soffio del vento, resta del tutto e da sempre indifferente>>. Il cromatismo mutevole e il profluvio delle immagini scorrono sul proscenio della mente, inglobando la categoria del tempo e dello spazio nel cono d’ombra della psiche del poeta. <<È una sfida all’insignificanza di tanta poesia dell’afasico frammentismo neoavanguardistico>>, secondo Giuseppe Rando, che in Roaming e ne Il vento di Myconos rivela <<due capolavori assoluti della lirica novecentesca>>, nella duplice diatesi dell’arte di Calabrò. “Il bisogno dell’illimite” apre alle conquiste della moderna astrofisica, da Einstein a Hawking. La predisposizione sorgiva alla ricerca dell’Illimite è connaturale in Calabrò, quasi magmatica, sul filo di un’estraniante inquietudine, talvolta scarnificante, contro le mistificazioni e le certezze di comodo. La sua insopprimibile tensione creativa produce sciami sismici di annichilamento di tanta poesia contemporanea, ispirata al non senso o alla scrittura sperimentale del Novecento: la sua genetica indocilità all’aulico, al curiale o all’accademico si coagula nella poiesis e nel segno più tangibile di un’autentica creatività e di un candore innocente da poeta-puer.

Nell’avvolgente specularità, il fantasma della poesia diventa intersezione della stessa realtà e la scrittura, per Calabrò, è un atto irreversibile contro l’effimero della quotidianità, un’energia, che fende la grigia monotonia dell’abitudine, per attingere alla freschezza del fiat lux. La forte idealizzazione dell’io poetante  è legata all’inconscio come spazio vitale dell’Essere; la correlazione dei contenuti è trasfigurata dal binomio eros/thanatos e dell’endiadi libido/pulsione di vita. L’interazione profonda con “il sentimento del contrario” supera il dualismo soggetto/oggetto, per spaziare con gli stati-limiti della coscienza, verso un universo in espansione. Il prosciugamento della realtà è visto, in controluce, come corrispondenza dell’implosione interiore del dettato poetico dell’amore. L’itinerario del poeta, entro spazi sconfinati, accompagnati da un concerto polifonico di voci e da un reticolo sotterraneo dai vasti orizzonti, sottende scenari evocativi che danno un significato al tempo e allo spazio, approcciati da un fervido immaginario e da un sottofondo sempre luminoso, sotto il segno della luce del firmamento. Il suo inconscio si nutre di parole e di moduli linguistici e grammaticali che si guardano allo specchio senza riconoscersi, la cui identità/disidentità è nel crogiuolo dell’omphalòs della poesia, legata al filo doppio dell’impersonalità del poeta e alla sua solarità. I nuclei fondativi della poesia di Calabrò sono gli stessi dell’archetipo di Jung: la personificazione, per la discesa nel mondo inconscio, è data dall’incontro con l’Ombra per le raffigurazioni simboliche di individuazione e dalla fusione delle polarità pulsionali. La trasformazione individuale dell’io del poeta è focalizzata nel processo di individuazione, che si dilata attraverso le relazioni con il doppio o con l’altro da sé.

Il sentimento di immedesimazione proviene dalla visione dell’infinità dei mondi e dalla consapevolezza dell’ “arido vero”, dettato da una straordinaria ispirazione creativa, nell’acuto respiro di questa poesia che spazia in una visione cosmica, interstellare. È una pulsione viatoria, che attraversa la sfera celeste, nel bagliore tenue delle costellazioni zodiacali. In questo itinerarium mentis, il poeta propizia un viaggio celeste che ci consente di ripercorrere la storia sentimentale della sua vita, attraverso un tragitto immaginario, lungo i sentieri di luce dell’universo e delle sue costellazioni, cercando di coniugare l’inappartenenza dell’uomo con il mistero dell’Infinito e dell’Illimite.

Leopardi nello Zibaldone scrive: <<Il fantastico sottende al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario>>. L’influenza degli astri è correlata alla realtà misteriosa dell’universo o degli universi infiniti, che sono in perfetta sintonia con la dimensione indistinta e indecifrabile dell’inconscio, da cui si può uscire inconsapevolmente con lo stato di grazia della scrittura poetica. L’universo è il luogo della pulsionalità originaria: le costellazioni sono i segni manifesti del “rimosso che ritorna” e, affidato alla poesia, “squaderna” e disvela le sue potenzialità. Più che una disposizione a uno scenario onirico, viene colta una ricerca dell’informe, che fa affiorare alla superficie le tracce e i sedimenti del profondo e che guarirà l’immedicabile malattia dell’Essere. Il processo di cristallizzazione, lungo il quale l’infinito diventa gradualmente un finito speculare dell’altro da sé è, per Calabrò, un percorso esoterico di iniziazione, per l’attraversamento e il disvelamento dell’io. In versi di lirica suggestione, nel tessere legami associativi e rinvii di forte rilevanza stilistica, il poeta, in un universo infinito e senza confini, catalizza il disincanto della non-vita, con l’avvicendarsi degli eventi storici con la loro provvisorietà. Il poeta parte dal cielo stellato, per verificare lo scontro ineludibile tra il bene e il male; la sua ispirazione, densa di immagini, tra passione e ragione, “scena onirica” e “principio di realtà” tocca l’Invisibile, quando la poesia condivide gli spazi dell’inconscio, nelle aree sconfinate, a perdita d’occhio, di una realtà infinita. Nella dimensione dell’Oltre, il sentimento empatico ci consente di vivere le vicende del cosmo e l’esperienza onirica dell’infinitizzazione della logica inconscia matteblanchiana, come proiezione di una parte negata del , la cui espansione perimetra la realtà e l’immaginazione, nell’alterità, che diventa coesistenza di un mondo fittizio. Nella Quinta dimensione, l’infinito, nella visione di Corrado Calabrò, non è un infinito reale, ma un orizzonte di attesa, un milieu eidetico, visto in una prospettiva metafisico-surreale. Nella levità dell’inafferrabile e del visionario, l’immaginario del poeta, nel “pensiero”, “si finge” spazi senza confini, còlto dalla quiete interiore dell’estasi e dalla pace liberatoria dei sensi. Le immagini sono <<lo specchio interiore in cui il pensiero si rimira>> e la musicalità e il ritmo del verso, con alcune significative parole tematiche, fanno trasparire, in modo manifesto, l’idea dell’immensità, correlata all’infinito. La compenetrazione di questa specularità attiva una “frenesia bimodale” e il pensiero emozionale diventa “struttura bi-logica”, producendo una faglia di un io centrifugo. Il disvelarsi del principio di simmetria si radica nell’inconscio del dettato poetico di Calabrò come “realtà misteriosa e inconoscibile”. La centralità problematica di questo snodo critico è quella di pensare la realtà psichica dell’inconscio del poeta, secondo processi emozionali e cognitivi di estatico incantamento, in una percezione, prima visiva, e poi uditiva, dell’Illimite. Il “principio di simmetria”, proprio perché costituisce il rovescio del principio di non contraddizione agisce con un’energia logica non analizzante, che può avviare alla conoscenza della realtà in sé, di quel noumeno, la cui struttura mentale è caratterizzata dalla logica simmetrica. Lungo questa pista ermeneutica, tracciata da Ignacio Matte Blanco, rinveniamo “i modi di essere nel mondo” e i “due modi di essere” della poesia di Corrado Calabrò. L’insieme infinito  è l’Illimite; è l’Oltre e l’Invisibile di Calabrò, espresso mediante i due misteriosi archetipi della realtà visibile. Attraverso questa specola, egli osserva il mondo; l’Aleph di Borges è per lui la presenza della donna, con la sua seduzione; il mare, che, al di là della metafora, è l’essere infinito di una “mirabile visione”, che “nel pensiero si finge”.

Il poeta, come se fosse spossato dal suo dèmone, avverte la paura dell’assenza della persona amata e dell’orizzonte infinito del mare. Questo bisogno permanente dell’altro da sé , per quanto possa corrispondere ad un desiderio inconscio, è, per Calabrò, il desiderio della completezza; la mancanza di questo bisogno assedia il poeta come “pensiero dominante”. Il bisogno di dar vita a delle immagini crea la necessità di vivere in un mondo fantastico, un Oltre, che propizia l’ontologia della negatività. Il varco si apre per modellare l’animo del Poeta alla ricerca dell’inconnu; egli vive l’esperienza dell’Oltre e dell’Invisibile, come unica e irrepetibile, non assimilabile a nessun’altra esperienza, se non a quella dell’afflato della Poesia.

 

*Questo saggio è stato letto, in parte, a Ravello, Venerdì 23 Agosto 2024 nella Chiesa di S.Giovanni del Toro: Incontro con la Poesia: l’attrazione dell’Oltre nella poesia di Corrado Calabrò. Sono intervenuti: Corrado Calabrò, Antonio Brando, Giovanni Camelia, Ulisse Di Palma, Giuseppe Gargano, Carlo Di Lieto, Donato Sarno, Piero Rocco,  e a Roma l’8 ottobre 2024 al Maxxi, Museo nazionale delle arti del XXI secolo. Sono intervenuti: Corrado Calabrò, Angelo Piero Cappello, Fabia Baldi, Raffaella Docimo, Gianni Mirizzi, Simonetta Bartolini, Giuseppe Manica, Carlo Di Lieto.

 

[1] AA.VV. L’attrazione dell’oltre nella poesia di Corrado Calabrò,  a cura di Tommaso Romano e Giovanni Azzaretto, Voll I-II, Palermo, Thule Spiritualità e Letteratura, 2024.

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