Mario Inglese, "Dell'assenza e della meraviglia" (Ed. Thule) - di Guglielmo Peralta

      Fuori della casa è la vita da affrontare. Essa  è  “il male di stagione”, quella che non ‘ruota’ con la terra, ma che contribuiamo a costruirci nel tempo che ci è destinato. Ed è una scommessa tutta da giocare e una lotta da vincere, da superare, specie se per lungo tempo si è “costretti” a stare lontani dalla propria terra, dai propri cari, dai luoghi dell’infanzia che ci hanno visto crescere, sognare, amare. E tra gli affetti scopriamo che ci sono anche gli oggetti, custodi inanimati della casa, che  trasformiamo in «cose», e in questa nuova veste riempiono il silenzio con le loro “voci” divenendo la cassa di risonanza dei nostri pensieri e sentimenti, delle nostre meditazioni. Così acquistano importanza per il nostro Poeta “Il ronzio del frigo, / il respiro del freezer, / il rumore sordo / di pneumatici fuori sull’asfalto”. Così, a ogni distacco, “rinascono le cose”; la loro vita allora è anche una meditazione sulla morte, la quale  non può riguardare gli oggetti, che durano, ci sopravvivono. E mentre per noi “nulla è più lo stesso”, tutto muta, le cose, per metamorfosi divenute tali, sembrano, invece, conservare la loro natura; il loro essere resta immutabile, e mai la loro morte - ammesso che le tocchi morire – ha “davvero una fine”. Perché le resuscitiamo dall’assenza ricordandocene; le preserviamo e le salviamo dalla sparizione quando, sottratte all’oblio dell’uso quotidiano o della distanza, entriamo con loro in comunicazione e in comunione e ne conosciamo la vera, intima natura. Allora, dall’assenza delle cose nasce lo stupore, restiamo meravigliati ad ogni epifania. Comprendiamo che non abbiamo davanti un oggetto - Gegenstand - che ci si oppone, e su cui possiamo fare valere il nostro potere possedendolo, ma che ci viene incontro un’entità, qualcosa di altamente vitale, pregno di storia e di significati e che va oltre ogni possesso, perché da noi e per noi prende vita. E ci parla (res ipsa loquitur). Compito del poeta, sembra suggerire  Mario Inglese, è ascoltare per rompere, a sua volta, il silenzio con la parola, per rispondere all’assenza col «dire», che non è il semplice parlare, il nominare, ma il movimento che dalla sfera emotiva sale a contrastare, a opporsi alla durezza della realtà e gli consente di introiettare le cose, che così assumono, per simpatia, un volto familiare, un riflesso della sua interiorità. E non c’è assenza che non parli, non c’è corpo che possa restare inerte, che non si scrolli di dosso il “prisma di dolore” e abbandonandosi alla vitalità degli oggetti trasfigurati  non resti in attesa di una rivelazione. Ed ecco che un inaspettato accadimento, che sa di miracolo, si rappresenta al Nostro “sulla grande scena della piazza”: la visione di “un angelo / di lancinante bellezza / un portento di luce / nella quotidiana monotonia” e, a seguire, la sensazione di avere visto e “perso qualcosa / d’irraggiungibile”. Il fantasma della bellezza, colto nella pura apparizione di un angelo, è un’allucinazione che equi-vale al trionfo degli occhi quando li tocca la meraviglia e il processo attivo della creazione trasforma gli umili e i noiosi eventi della vita quotidiana in qualcosa d’inaudito, grandioso, spirituale che rigenera i perduti valori, fagocitati dalla routine e dal minotauro del consumismo e della tecnica. È allora che Inglese coltiva le illusioni, costruisce storie, s’inventa mondi infiniti nel cuore delle cose, della «cosa» e percorre vie labirintiche mosso dal sovrannaturale, dall’impromptu della poesia, la quale si prende cura degli oggetti, che si animano animando, a loro volta, l’intera realtà. La meraviglia, cui si lega la ricerca del bello, è l’antidoto contro la fragilità non solo personale ma della condizione umana; contro il male di vivere universale e la deriva di un mondo travolto dagli eventi infausti, anche scatenati dall’uomo, e avviato verso una china pericolosa e irreversibile. In questo tempo della povertà, sempre più profonda ed esiziale, non può venire meno la speranza della salvezza, e chi vive di poesia e di spirito creativo come Mario Inglese non può sottrarsi al forte sentimento di solidarietà che gli impone di sollecitare, d’implorare “Opere di misericordia spirituale”. Così recita il titolo del ‘poemetto in sette parti’, quanti sono i peccati capitali. Ma qui il Poeta elenca un ‘prossimo’ bisognoso d’aiuto, costituito da dubbiosi, afflitti, ignoranti, peccatori, offensori, molestatori, egoisti, cui vanno incontro, dichiarandosi disponibili ad operare per il bene di costoro, i falsi samaritani, i falsari della coscienza, per i quali vale l’esortazione di Gesù a essere indulgenti e comprensivi, dal momento che nessuno è senza peccato e, dunque, non può scagliare la prima pietra. Inglese, perciò, pure auspicando e sollecitando un comportamento morale nei confronti dei ‘bisognosi’, sa quanto sia difficile trovare uomini di buona volontà capaci di opere misericordiose quali: consigliare, consolare, insegnare, ammonire, perdonare, sopportare, pregare. Queste, pure in numero di sette, figurano, separatamente, nel primo verso dei testi che compongono il ‘poemetto’, ciascuna  riferita a una determinata categoria di quel vario campionario umano sopra citato.

      In questa nostra epoca, in cui al grande progresso tecnologico non è seguito un adeguato sviluppo spirituale, e perciò caratterizzata dalla perdita dei valori tradizionali e dalla crescente corruzione e decadenza dei costumi (Rousseau docet!), mettere a confronto il corpo,  “prisma di dolore”,  e lo spirito, luogo privilegiato della felicità, può servire a constatare quanto essi siano separati. È giusto, allora, affermare  che “la felicità appartiene allo spirito”  e “ripudiare” il corpo, dal momento che il dolore è la calamita che fa pendere l’ago della bilancia dalla parte della ‘materia’? Sacrosanto è il dubbio che frena, sospende la risposta del nostro poeta, il quale subito dopo obietta che “nel mistero dell’incarnazione / non vi è separazione”. L’unione di spirito e materia, di anima e corpo è sancita nella comunione: il supremo atto sacramentale istituito da Gesù nel cenacolo, “nella vastità della mensa”, dove “di fluida luce trabocca / il bene”, che Mario Inglese coglie con occhio spirituale nel paesaggio, nel quartiere residenziale di West Point Grey, a Vancouver, in Canada. Perché il bene è anche il bello e perciò emana “l’assoluto splendore”.  Mangiare con gli occhi, allora, equivale a ricevere la comunione; è lasciare che il bene tracimi «dentro» con la bellezza che si concede al Poeta, «fuori», nella contemplazione. Ma il dolore non è solo corporale e appartiene allo spirito più della felicità. Nell’“Elegia per la madre”, esso ha la pesantezza dell’assenza, che è “l’arsura” di sentirla più vicina, più presente; la mancanza di rassegnazione alla sua perdita «per tutto il resto della vita» - come suggerisce il verso di S. Heaney in esergo ai sei testi che compongono l’Elegia. A rendere la presenza della madre nel modo più vivo ed evocativo sono gli oggetti che ella, “senza volerlo”, trasfigurava, personificava: - “anche i vetri della finestra / sono rigati di pianto”; ed era “un momento di allegria / mai lontano dalla malinconia”.

      Quanta bellezza, quanta dolcezza scaturisce dal dolore e dalla memoria, tanta ne troviamo versata in questo canto delicatissimo e accorato, che scioglie la “muta trenodia” che attanaglia il cuore del Nostro, gli rende meno amaro “il calice onnipresente / dell’universale fato” e lo aiuta a tollerare, fino all’accettazione, “l’indifferenza del mondo”. Riporto i seguenti versi, sufficienti ad emozionare il lettore, a immedesimarlo e meravigliarlo con l’intensità poetica del pathos di cui sono intrisi:

 

“ (…) sei perché sono / perché abiti / la filigrana dei miei pensieri / perché mi svegli ancora / di buon mattino / come facesti più e più volte / quand’ero bambino (…) fosti tutto quello  / che dovevi essere / sino in fondo / compiendo / la trama esatta / della tua opera / benedetto il tuo ventre / benedette le tue mani / madre”.

 

      Accanto ai ricordi e alle meditazioni, trasversali a tutta la silloge, non mancano i temi sociali e gli eventi del quotidiano vivere, anch’essi intessuti di considerazioni, di attenta osservazione. Il tema della morte da Covid 19 è appena sfiorato nella denuncia di certa indifferenza e degli assembramenti “sul bus”, in “Lezione di prossemica”, dove la distanza interpersonale (altrimenti detta sociale) necessariamente imposta, “ci separa veramente” perché ci priva della comunicazione, verbale e non verbale, della cui mancanza “ogni giorno” sono specchio quei “visi impassibili, / assonnati, assorti, attenti, / astratti, attratti da / suoni in astucci tascabili”, condizionati e sempre più dipendenti e ‘influenzati’ dalla pandemia tecnologica che li ‘costringe’ all’isolamento o, tutt’al più, a “chiacchiere minute, / small talk”, a scampoli, a “frattaglie della comunicazione”, a un intercalare fàtico, automatico e irriflesso. Ma l’esilio più grande, quello vero, afferma Inglese, “è questa vita” segnata, dominata dal “corso delle cose” che ci travolge inesorabilmente.

    

       Nelle “Meditazioni sulla notte”, assistiamo a una sorta di rovesciamento. L’isolamento e l’esilio si convertono nella solitudine e nel silenzio, di cui è feconda custode la notte, quando, “prima che il sonno / obliteri la coscienza / (…) o negli squarci aperti / dell’insonnia”, le “annose questioni” che restano aperte durante il giorno e che “non esitiamo / a procrastinare” c’impongono una soluzione; quando, soprattutto, nella parentesi del mondo, “nel silenzio che ci sovrasta” ci abbandoniamo alla contemplazione, alla realtà tutta e solo interiore. Allora, abitiamo il nostro ‘io’ profondo e ci sentiamo a casa annullando la distanza, dimenticando l’assenza e, nonostante il dolore personale e la sofferenza umana che non possiamo obliterare, scopriamo di «esserci». In questo «Dasein» viviamo attimi di meraviglia, “annettendo alla coscienza / nuovi territori”. Allora l’isolamento e l’esilio, trasformati nella solitudine e “nel silenzio della stanza, / della casa, del giardino, / della campagna“, nella notte “palpitante di stelle” si mutano ancora, nella “ieratica quiete”.

      Nel componimento intitolato “L’assedio”, tornano numerosi gli oggetti, in collezione, che il Poeta ‘nomina’ con grande cura per non dimenticarne nessuno, perché testimoni tutti del tempo trascorso, che trascorre; perché “concrezioni”: “coaguli” di sangue, di vita; corpi che racchiudono storie, memorie. Essi si contendono lo spazio vitale nella “Wunderkammer”: la camera delle meraviglie, che li accoglie e si anima della loro presenza, la quale, a sua volta, rende accogliente l’intera dimora, dove il Nostro, “proprietario ignaro / non sembra turbarsi” di tanto “assedio” ma vi trova anzi conforto. Nella sacra quiete, gli oggetti sono il “severo memento”: preghiera e monito a ricordare. Perché col ricordo si desta la bella stagione e dall’assenza nasce la meraviglia.

      L’amore, che fin qui Inglese ha lasciato in sordina e che ha fatto solo da contrappunto silenzioso al dolore, nella penultima sezione (VIII) della silloge sorge dalla sfera soggettiva e si ‘manifesta’ in lampi danteschi e da Dolce Stilnovo nello sguardo della donna amata, e non ha bisogno, pertanto, di parole, perché parlano “gli occhi”, sia di lei che del suo e nostro Poeta. “Poche sillabe”, trattenute  sulle bocche tremanti e tanta dolcezza esprimono timidezza, pudore, mancanza di “coraggio”, “disagio, timore”: un nucleo di sentimenti e di emozioni, difficili da dire, ma non agli occhi che non sanno nasconderli.

      Tanta tristezza, tanta nostalgia chiudono questa silloge; sono sentimenti generati dalla delusione di “un’amicizia” dichiarata “eterna” e finita; dai canti che evocano la “mamma giovane / di mezza età, / misurata nei gesti, / persino timida”; dal ricordo delle persone care, di tanti conterranei, che “le luminarie del Natale” contribuiscono a suscitare rendendo al Poeta l’assenza meno pesante e regalandogli “un momento di meraviglia”, subito sostituito, soffocato, dalla grande mestizia per la pandemia in corso, che occupa il suo cuore e la sua mente. Nell’ultimo testo di questa sezione IX, il tempo del grande contagio, che la “clausura forzata”, paragonata a una “morte temporanea”, dilata rendendo “i giorni lenti, sempre più lenti”, fa da pendant al tempo fugace con cui scorre la nostra vita “fino a morirne”. È, questo, il tema del secondo componimento, non a caso intitolato “Body Art”, essendovi un esplicito riferimento a Valerio Magrelli, prefatore della presente silloge e che Inglese cita all’inizio del primo verso. Il riferimento è alle sue opere: “Nature e venature” e ”Condominio di carne”, dove il corpo è la presenza fondamentale e trasversale in entrambe le raccolte. In “Body Art”, a differenza di Magrelli, per il quale - come egli afferma nell’intervista rilasciata a Nicola Bonazzi[1] - il corpo è “difettoso”, ci è estraneo e lo abitiamo da “inquilini”, Inglese parla del corpo, sottoposto “a interventi tanto estremi”, al maquillage per coprire i difetti o gli effetti negativi dell’età. Così “riplasmato”  e ostentato, chi lo abita s’illude di possederlo, ne fa un vestito e una moda. Ma qui, la cura del soma, il rifarsi “un corpo nuovo” è il desiderio vano di eterna giovinezza, perché non si può frenare, rallentare la fuga del tempo. Questo è “il grande artefice” che scolpisce il nostro corpo; siamo “noi, carne ossa sangue,  / il suo docile materiale - / fino a morirne. Allora, solo un piacere magro, gramo, può darci un corpo rifatto, ringiovanito. Perché nessuno può sottrarsi al corso delle cose, quando queste prendono la china e, d’improvviso, s-travolgono la nostra vita con la minaccia di una “morte temporanea”. E perché il tempo, comunque e sempre, ci è fatale.

 

 

[1] In griseldaonline, il portale di letteratura

 

 

 

 

 

 

 

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