La poetica relazionale e trasformativa in “movimenti” di Emanuela Mannino – di Guglielmo Peralta

      Questa nuova raccolta poetica di Emanuela Mannino si presenta come un’intensa esplorazione interiore. Il titolo, “Movimenti” , è in stretta relazione con le cinque sezioni che la compongono. Inquietudini, Distanze, Luce, Incontri, Forza, sono le tappe di un cammino esistenziale e spirituale, che trova la sua via naturale di espressione nella poesia, essendo questa per la Mannino essenza vitale, fondamento di attese, di speranze e ricerca di spazi aperti, d’accoglienza, tra le crepe dell’indifferenza e dell’assenza, nonché slancio verso la rinascita, verso una solidale corrispondenza di sentimenti, di affetti, di «amorosi sensi». Le sezioni costituiscono, nell’insieme, un unico ‘movimento’ che si può trasporre su un piano musicale dal ritmo potente scandito da immagini evocative e struggenti: frammenti di un’esistenza densa di memorie, di stanze vuote, di solitudine, di delicate e profonde risonanze dell’anima che sollecitano riflessioni, dialoghi interiori, nuove prospettive ed esplorazioni del proprio vissuto per un percorso di ricerca dell’identità, di crescita personale, di consapevolezza e possibilità di cambiamento: il tutto si compone e si fonde in una sinfonia di suoni e di significati. È un viaggio delicato e profondo, che attraversa con grazia i luoghi del ricordo, i giorni della gioia, della perdita e del  dolore, sublimato, quest’ultimo, dalla parola poetica che sostiene e conforta il cuore e ne allevia le pene facendosi preghiera laica. La poesia, dunque, è amore e ‘r-esistenza’. Essa accompagna e guida la poetessa lungo sentieri scavati dalla memoria, dall’assenza e dal desiderio, in un continuo andare senza posa, dove pulsano, tra le perdite irreparabili e ciò che resta, il ricordo nostalgico del padre, la fragilità del presente, il bisogno e la ricerca di senso. La Mannino procede tra luce e ombra; i suoi versi si muovono tra la rimozione e il recupero, tra la decantazione e l’accoglienza del vuoto senza smettere di coltivare il “germoglio” della speranza, “che sempre spaura / la morte”. Un linguaggio carico di simboli e sensazioni racconta il corpo e l’anima nella loro fragilità e potenza. I Movimenti sono ‘momenti’ di vita, proiezioni dell’anima che si ‘riversano’ e si riflettono nella realtà concreta. Ogni poesia è un luogo, un passaggio, una tensione verso la luce, verso il cambiamento. Ogni sezione è un tessuto di emozioni, un moto incessante dell’essere, una stazione simbolica. E la poesia è il viatico, che consente il difficile passaggio dalla condizione esistenziale lacerante, di sradicamento, d’inquietudine, di solitudine, di difficoltà, di chiusura relazionale (sezioni I, II) allo stato luminoso di grazia - frutto dell’incontro con l’altro, della partecipazione comune, della condivisione delle emozioni, dei sentimenti - espresso e reso manifesto dai versi che sanno abitare il vuoto; che non cercano risposte, ma un luogo dove potere restare; da parole che sanno smuovere il silenzio e ne traggono il canto (sez. III, IV, V).

      La silloge si svolge come un flusso potente, tra memorie, esperienze interiori, visioni cosmiche e una ricerca spirituale che si rinnova a ogni verso. Il linguaggio è densamente evocativo, ricco di simboli naturali - terra, cielo, vento, mare, sole - di risonanza metafisica. La forma è frammentata; è attraversata come da un lungo respiro, fatta di enjambement e di armonici accordi che creano una musicalità sospesa, che annuncia e promette una più compiuta e perfetta trasformazione, la composizione del ritratto stratificato di un’anima in cerca di salvezza, di quella luce necessaria per abbracciare tutto l’essere e fugare le ombre, la sofferenza mitigata dal canto, ma che pervade l’intera raccolta. Di contro, l'Amore, come sentimento totalitario ed esaustivo, è sempre collegato a uno struggente desiderio di totale appartenenza e appagamento che, se non cancella il dolore, lo abbraccia trasformandolo in parole che toccano il cuore.

      Nella I sezione, il movimento è dal dentro al fuori, oscillante tra lacerazioni (perdita del padre, figura fondativa e mancante; sogni spezzati) e ricerca d’identità, di ‘rigenerazione’, di ‘rinascita’. In Preghiera, la metafora del cuore come “bara bianca” richiama un dolore precoce, non spento, placato dalla speranza, dall’attesa fiduciosa del "germoglio": metafora di vita nuova e simbolo di bellezza che la poesia può costruire, realizzare in virtù del suo potere trasformativo. Per essa gli attimi fugaci di quiete e di gioia possono avere uno sviluppo duraturo; essa può  assicurare la crescita personale e trasportare l’anima verso quei luoghi più sicuri, che solo il cuore può raggiungere. In virtù della poesia, Emanuela non si rassegna all’assenza del padre, ‘presente’ nei “suoi versi incastonati nel cielo”, che le “mancano” e perciò radicati nel cuore, indelebili, ricorrenti, custodi e messaggeri di bene e di luce, di stabilità in mezzo allo smarrimento: Padre mio, / il cielo qui / è ancora al suo posto / ed io viaggio - ancora / tra gli spazi delle dita / intrecciate alle tue. È una poesia, questa, di struggente bellezza, di conferma, di resilienza, di ‘r-esistenza’, di recupero della dolce figura del genitore e di quei ‘momenti’ dell’infanzia che tornano a scorrere con i “suoi versi”. In Manoscritti, c’è un senso di vuoto condiviso, ed esso è per la scrittura sempre incompleta per l’assenza di quel “raggio” di luce, ineffabile, “disperso nei meandri dell’azzurro”. La visione è cosmica e vertiginosa, ma anche ostinatamente vitale: “Nel buio tentacolo / osiamo ancora/ la spina dorsale/ dei sogni”. E qui c’è  una dichiarazione di poetica e un linguaggio densamente simbolico che caratterizza la silloge: gli oggetti quotidiani (un posacenere, le chiavi di casa, un portone, un tavolo, una tazza...) diventano carichi di significato esistenziale. Nella poesia Bugia, la luce stessa è definita una “immensa bugia”, e rivela un conflitto interno fra ciò che illumina e ciò che inganna, tra ciò che si mostra e ciò che si cela, tra il visibile e l’invisibile, tra l’essere e l’apparire. Questo dualismo pervade tutta la silloge: luce/ombra, silenzio/voce, presenza/assenza. Il linguaggio a volte si fa liquido, come la natura mutevole delle relazioni umane, dei legami affettivi, privi di solidità, incostanti, instabili, tipici della società contemporanea, esplorata da Bauman e che la Mannino denuncia fortemente provandone pena, profonda inquietudine. In Addio, il tempo è frantumato nel suo scorrere incerto, scivola, ed è “un attimo” invocato “per il favo miele degli abbracci”: immagine dolcissima che cozza con la realtà “del cuore disabitato”. Mentre E non sapere è un grido muto verso l’infinito, un anelito a un altrove che resta indistinto.

      Nella II sezione, il linguaggio si fa più astratto, i simboli naturali (vento, luce, buio, pioggia, mare, luna, stagioni ...) si intensificano, e il dolore, insopportabile per l’ulteriore discesa nell’abisso della perdita e della pena, è, a tratti, sublimato dal sogno, dal ‘sentimento’ della bellezza, nato e alimentato con/dalla poesia, e diventa tensione verso la trasformazione, forma di conoscenza. Temi ricorrenti e dominanti sono il distacco e l’assenza, subito presenti nel primo verso della poesia Poi, che apre la sezione: “Poi non ti vedrò” è una frattura netta, che diviene insanabile perché voluta dall’uomo (“è questo ciò che voglio”) e che si fa abisso di dolore per chi subisce la fine dell’amore, che ‘ancora’ profuma di "piccole rose /ancora sulla bocca". In Girovaghi, “il buio l’orizzonte / il vuoto / nessuno /nessuno” sono correlativi oggettivi dell’assenza, la rendono ‘palese’; sono dati sensibili interiorizzati che esprimono, ‘concretizzandola’, l’afflizione della poetessa per la condizione di vita ‘vagabonda’, propria e degli uomini; di ‘erranza’ del pensiero nel buio dell’ignoto, sempre alla ricerca di percorsi di senso, di “stagioni” da rammendare “sul telaio dei sogni”. Essere “sarti di luce” si può, perché la poesia è un atto di ricostruzione esistenziale. Il viaggio, il vagare, l’errare, sono processi necessari alla scrittura e hanno una ‘ricaduta’ positiva sul cammino esistenziale; essere “girovaghi d’intelletto”, per la Mannino, significa attivare, esercitare l’immaginazione, potenziare la capacità di sognare, di sentire poeticamente per vivere in/di bellezza, per fare della vita, attraverso la scrittura autobiografico-poetica, un’eperienza estetica trasformativa, un processo di crescita e di relazione, di ‘cor-rispondenza’, di connessione tra mondo interiore ed esteriore. L’errare “d’intelletto” è il centro di questa silloge, giustificato dall’interesse della nostra poetessa per i rapporti sociali, dall’esigenza di entrare in contatto con l’Altro e averne cura, respingendo e congedando chi di lei non si cura abbastanza, prende le distanze e “sparisce” all’improvviso, senza spiegazione alcuna (Non ho cura); chi, ancora, si mostra indifferente, non le volge lo sguardo escludendo la possibilità di un prossimo incontro (Indifferenza). Tuttavia, mai viene meno il bisogno di coltivare ciò che ancora “resta” e “si salva” dell’uomo, perché grande è la fiducia che la Mannino ripone nella poesia, nel suo potere trasformativo-relazionale, che è il fondamento e la caratteristica della sua poetica. Anche quando si sente “in difetto” con sé stessa, “con la vita”, incapace di abbracciare il mondo, di eliminare le “distanze”, ogni pensiero di ‘fuga’, di resa, di isolamento, cede all’amore come possibilità di rinascita: L’amore mi porterà con sé. / E ogni cosa avrà /  la sua radice / nel vento. Per essermi - finalmente/ accanto” (“Finalmente”).

Questi versi hanno un tono lirico e profondamente evocativo. L’amore è personificato come una forza attiva, in grado di dare stabilità attraverso il ‘movimento’, l’impermanenza e, dunque, può dare senso a ciò che è effimero o incerto. È questo sentimento, fortemente e costantemente presente, che consente alla poetessa di riconciliarsi con sé stessa, di ritrovare la propria identità. Ma la stabilità non è una conquista permanente; la costanza appartiene solo al moto uniforme, e qui non c’è un solo, unico movimento ‘cor-rispondente’ al concetto fondamentale della fisica, ma ben cinque movimenti: condizioni esistenziali che mutano e segnano un cammino senza meta definitiva, che procede con continui sviamenti, come irriducibile erranza, seguendo percorsi diversi ugualmente necessari, utili; che costringe a vagare lungo sentieri impervi e interrotti, come gli Holzwege* nella foresta buia e intricata, dove l’Essere è sempre differito e ineffabile. Qui, saltuariamente, essi consentono di approdare a un diradamento, a una «radura» (Lichtung), a una visione più ampia della quale solo l’interiorità può beneficiare. Strada ferita è una potente metafora che esprime il doloroso cammino di un amore che si spezza e si trasforma in un percorso segnato da assenze e silenzi. Il vuoto che resta è, in parte, alleviato, ‘bilanciato’ dall’equilibrio precario tra sogno e realtà, tra speranza e accettazione ed è ‘tradotto’ nel bellissimo verso: “Io so come si vola con la terra tra le mani”.

      Nella terza sezione, il desiderio di rinascita è fortemente sostenuto dalla fede nella parola poetica che scaturisce come scintilla interiore, generando nella poetessa, accanto allo smarrimento, all’ “invincibile gelo”, lo stupore necessario alla ‘guarigione’. C’è in questa sezione un movimento trasversale che include e squaderna più movimenti. È la presa di coscienza, frutto dell’immersione nell’io e nel mondo, da cui emerge in maniera più netta il ‘dettato’ autobiografico, dove la voce poetica  ‘canta’ in prima persona e i versi risplendono di un dolore contenuto, di una spiritualità intima e, a tratti, interrogativa. Ogni poesia è un ‘mo(vi)mento’, un passo, una tappa del cammino verso la  “Luce”, verso un “Altrove”. In Movimenti, tre sono i gesti che esprimono, nella loro dinamicità, quella consapevolezza non disgiunta dalla speranza: “Mi sposto / mi tolgo / (…) Rientro”. Ad essi fanno da contraltare: “Luce / Altrove / pace / una voce”. Qui la poesia si fa nido, rifugio e specchio, riflesso della verità: voce che chiama, che canta. Qui, scrivere è ‘r-esistere’ con grazia, è la conquista di uno spazio di senso, luminoso, nel silenzio e nel buio del quotidiano, dove prende quota la vita contro la paura della morte:  “(…) E la vita, la mia fame è la mia vita, (…) Oggi sono viva / sono viva tante volte / con la mia paura viva. / Luce testarda / che muore il buio” (Oggi).

      La quarta sezione è più corale; anche qui sono presenti i temi principali: l’amore problematico, come fonte di dolore e come forza attiva e mezzo di riconciliazione interiore, la poesia trasformativa, la ricerca dell’identità, la spiritualità e la fede laica, l’abbandono fiducioso alla quotidianità nell’attesa del cambiamento. Ritornano i legami di sangue e d’anima, carichi di affetto e nostalgia. La madre, alla quale la Mannino dedica due testi, è una figura inquieta, è assenza e fondamento di vita,  “germoglio dell’Eterno Amore”, che resiste oltre la perdita e determina un senso di circolarità – “senza madre in madre” – come se la maternità fosse un’eredità spirituale e non solo biologica. Il canto del dolore e della sofferenza si traduce nel secondo testo in versi delicati, nostalgici e luminosi. La madre è “bianco gelsomino” e sopravvive nella voce orante della poetessa, che le offre i suoi “versi sparsi” offrendosi , essa stessa, come frammento, come seme di memoria.  Ella unisce lirismo puro a metafore dense di spiritualità. E qui, il movimento è verso la speranza, la rigenerazione, la continuità, la semina: “(…) Madre, / io non ho che questi versi sparsi / di te dopo di te - questo me / e tutto semina/ e tutto canta”. In Fede, la poesia della Nostra ‘evolve’ verso una dimensione cosmica, trascendente, in cui l’umano tende a fondersi con gli elementi dell’universo e con l’Eterno, per un ritorno al Tutto, senza, tuttavia, che venga meno il contatto con la terra, con i suoi “umori”, che suggeriscono il processo organico di decomposizione, fertilità, trasformazione, che possiamo mettere in relazione con la poetica trasformativa della Mannino, caratterizzata anch’essa da un processo ciclico, organico, espressione di una ‘biopoesia’: una poesia della/per la vita. Esistenziale. ‘Umorale’.

      La quinta sezione è la più intensa, esistenziale. Il cammino è doloroso; è un sentiero solitario, sull’orlo dell’abisso, attraversato, a tratti, da una luce, che si fa canto per non arrendersi alla morte: “canta alla morte luce /per non dire alla morte/lo sbriciolare d’ogni respiro”. Qui, il cambiamento richiede coraggio, volontà, lucida consapevolezza contro la disperazione e l’imperfezione del vivere, sì che ogni testo, ogni verso risplende di senso esistenziale. Le immagini evocano mondi interiori in bilico tra rinuncia e resistenza. Si parte, si cade, si tenta la fioritura nonostante tutto. Si tocca il fondo del buio, ma con un filo di desiderio ancora acceso e c’è un appello ricorrente alla trasformazione: “Pòsati nel precipizio in fondo / alla tua primavera / osati / e spera” (Posa); ”Osare un cieco orizzonte (…) La mia carne / è un fiore”. (Partire). Nei componimenti: La quiete ti guarda e Resta, che chiude la raccolta, la Mannino usa la seconda persona rivolgendosi a sé stessa con tono esortativo, e con questa presa di volontà l'io poetico si apre a nuove illuminazioni, ed ella non cede alla disperazione e muove verso l’accettazione radicale di sé, pur nella consapevolezza che la quiete è solo apparente e riguarda le “quiete ombre”, alle quali può solo involarsi. In Resta, l’esortazione è un procedere incerto, tra la resa e la resistenza, tra la dissoluzione dell’identità e la sua ricerca. Ed è un gesto di volontà, un tendere ostinato e affannoso verso “sentieri” che invitano a riconoscersi, a rimanere presente a sé stessa, quando tutto sembra vacillare, spezzarsi, e si “alza la polvere / gronda la tempesta”. Restare, allora, è ‘esserci’ nonostante tutto; è sporgersi sullo “strapiombo di mistero” e accettare l’ignoto come parte essenziale dell’esistenza. Umilmente, poeticamente, umanamente. È riconoscersi nella frattura, nella tensione mai risolta fra disgregazione e desiderio, ed è l’amara consolazione, prodotta dalla cognizione dell’universalità del dolore e dell’imperfezione. Perché “Nessuno si salva mai / intero”. Quest’ultimo verso che chiude la silloge, rimanda al verso di Majakovskij: "Che senso ha se tu solo ti salvi"? Il verso della Mannino è una dichiarazione sull’integrità ferita dell’essere umano: anche quando ci si salva, si porta dentro la frantumazione, lo smarrimento, le cicatrici. C’è in esso quell’accettazione radicale della vulnerabilità come condizione universale, sopra enunciata. In Majakovskij, la salvezza individuale è vista come vuota se non è condivisa. È la denuncia dell’egoismo come fallimento spirituale. Entrambi, dunque, rifiutano l’illusione del singolo, immune dal dolore collettivo. La poesia, qui, diventa un atto di consapevolezza solidale: esistere, soffrire, restare - non da soli, mai del tutto.

     Movimenti è un titolo perfetto per un cammino esistenziale, in cui si avanza, si arretra, si cade e ci si rialza: un’alternanza bene ‘raf-figurata’ da termini e concetti che costituiscono un climax ascendente e discendente. Ogni sezione, pure restando nella sua autonomia, partecipa a un gesto poetico unitario tracciando un movimento ampio, come un respiro che si contrae e si espande. Il tono e lo stile ricordano la poesia contemporanea di ispirazione esistenziale e spirituale, simile a quella di autori come Hermann Hesse, Chandra Livia Candiani. Il movimento è il centro della silloge: movimento dell’anima, del pensiero, del corpo, della storia personale. La poesia stessa è atto di movimento: un viaggio di consapevolezza e trasformazione, un gesto di resistenza e di rifioritura.

 

* Titolo di un saggio di M. Heidegger; in it.: Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze

 

Pin It

Potrebbero interessarti

Articoli più letti

Questo sito utilizza Cookies necesari per il corretto funzionamento. Continuando la navigazione viene consentito il loro utilizzo.