“Eleonora de Toledo: donna moderna nella Toscana del ‘500” di Maria Nivea Zagarella

Nel terzo libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione (1528) una singolare digressione sul rapporto fra la “sustanzia” e “l’essenzia” della donna rispetto a quelle dell’uomo si conclude in direzione “protofemminista” con l’affermazione che tutte le cose che possono intendere gli uomini, le medesime possono intendere ancor le donne.

E proprio dal Rinascimento arriva fino a noi l’ombra lunga di una donna straordinaria grazie alla ricercatrice e studiosa Francesca Rachel Valle che, nel libro Eleonora deToledo sposa amata di Cosimo I dei Medici (2018), scrosta le nebbie dell’oblio da una figura femminile lasciata per secoli in una zona di marginalità rispetto al consorte, Cosimo I dei Medici, dalla ricerca storica ritenuto uno dei più grandi principi italiani del ‘500. Una parte del fascino del Duca, della sua gloria, del suo trionfo si deve però all’opera della bella e sagace moglie, donna colta e indipendente, Eleonora Alvarez de Toledo y Osorio, da lui sposata nel 1539. Fu il solito matrimonio “politico”. Doveva consolidare l’alleanza del ducato di Toscana con l’imperatore spagnolo Carlo V d’Asburgo. Eleonora era la secondogenita di Don Pedro Alvarez de Toledo, uomo di fiducia di Carlo V e Viceré dal 1532 del Regno di Napoli. Ma fu un matrimonio “felice” per il legame di affetto che unì in profondità e in armoniosa comunione di interessi e di intenti la coppia ducale. A Firenze Eleonora, nata in Spagna nel 1522, ma vissuta in Italia dal 1534, portò lo sfarzo della corte napoletana e, come risulta dalla ricostruzione della Valle, vi mise a frutto i semi dei due modelli positivi della sua formazione adolescenziale: la madre, Donna Maria Osorio y Pimentel, già amante dell’arte, della cultura, della musica, mecenate a Napoli di artisti, poeti, intellettuali, e che aveva voluto una educazione alla pari per i figli (quattro donne e  tre maschi); la sua maestra e istitutrice Donna Benvenida Abravanel, una giudea colta, economicamente pragmatica e dal forte temperamento, moglie del tesoriere di governo di Don Pedro. A P. Bargellini che nella Storia di una grande famiglia, i Medici (1980) definisce Eleonora un temperamento affettivo, scarsamente intellettuale [i cui] criteri anche in campo dell’arte non furono estetici, ma morali, la Valle oppone sia il giudizio dell’inglese Sir G. F. Young (1935), che nel suo libro I Medici la descrive invece come una donna dal gusto raffinato e dalla tempra decisa, capace in molte situazioni di bilanciare il carattere irruento e poco diplomatico di Cosimo, sia l’elogio di Giorgio Vasari, l’artista contemporaneo e amico dei Duchi, che ne Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, architettori (1550/1568), parlando della decorazione della Cappella di Palazzo Vecchio, divenuto dal 1540 Palazzo Ducale, affidata ad Agnolo Bronzino, celebra la Duchessa come donna nel vero, fra quante furono mai, valorose, e per infiniti meriti, degna di eterna lode.

Nonostante i problemi respiratori di cui soffriva e che la portarono alla morte ad appena quaranta anni nel 1562 per il sovrapporsi della malaria alla tubercolosi cronica, Eleonora esercitò e gestì (sic!) il potere insieme al marito, che le delegava -scrive l’autrice- lasciandole piena libertà d’azione, l’acquisto di terreni, la riscossione di denari, i contratti commerciali con eventuali investitori. Il nativo spirito competitivo/imprenditoriale e il ricco patrimonio personale di cui disponeva, e a cui spesso fece ricorso lo stesso Cosimo per prestiti finanziari, permettevano ad Eleonora di trattare gli affari con la stessa facilità con cui sapeva organizzare gli sfarzosi banchetti di corte. La Duchessa comprava terre e latifondi per convertili in terreni agricoli e per l’allevamento del bestiame, ma alcuni li acquistò anche per dare vita, scegliendo i migliori architetti di giardino del tempo, all’attuale giardino di Boboli che si snoda da Palazzo Pitti fino alla Fortezza del cavaliere, coniugando insieme bellezza e salubrità dell’aria. Convinse anche il marito ad avviare, nell’Isola del Giglio, lo sfruttamento delle miniere di ferro per accrescere le entrate dello Stato e potere disporre di materia prima per le imprese di guerra, e lo spinse a creare, a Firenze, una Arazzeria medicea, che all’inizio si servì degli stessi tessitori fiamminghi in fuga dalle persecuzioni religiose nelle Fiandre (Nicolas Karcher, Jan van der Roost), e che restò attiva fino ai primi anni del ‘700. I disegni dei soggetti degli arazzi li preparavano gli artisti che ruotavano attorno alla coppia ducale: Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo, Francesco Salviati, Bachicca, e fra i personaggi raffigurati erano talora presenti, oltre ai duchi, anche letterati contemporanei, come Giambattista Gelli e Pier Francesco Giambullari. Per non parlare della folla di esperti artigiani e legnaioli e altri artisti, architetti e scultori che, accanto al Vasari e a Giovanni Stradano, furono occupati, dal 1540 al 1574 circa, nella ristrutturazione/ampliamento e decorazione di Palazzo Vecchio trasformato in dimora “regale” dei Duchi. Nel quartiere delle stanze private di Eleonora c’era una “Sala di Udienza” in cui la Duchessa, dopo la funzione religiosa mattutina nella Cappella, seduta su una ricchissima poltrona addossata a un baldacchino di teletta dorata e velluto, riceveva funzionari, cittadini, dignitari, per discutere di questioni ufficiali specie quando governava in sostituzione di Cosimo assente per malattia o per incontri politici fuori Firenze o per impegni di guerra. Sulla volta della sala -sottolinea la Valle- figuravano le insegne dei Medici e dei Toledo a conferma dell’unità della coppia, e negli affreschi a grottesche, fra la varietà di uccelli anche esotici ispirati al nuovo mondo da poco scoperto, non mancavano i pappagallini molto amati da Eleonora. Anzi, illuminando indirettamente qualcosa dell’originaria forse indole gioiosa di Eleonora (gagliarda et allegrata -la descrive lo stesso Cosimo in una lettera del 1540) la quale, quando era in salute, si divertiva con il marito in battute di caccia e di pesca, la Valle aggiunge un particolare: pare -precisa- che uno di questi [pappagallini], dal piumaggio color verde smeraldo, volasse libero nelle sue stanze per suo diletto.

La poliedricità della personalità della Duchessa la vede libera “protagonista” in ogni circostanza della sua vita, pubblica e privata. Austeramente regale ma anche amorevolmente tenera, come trapela dalle fonti documentali e dai raffinati ritratti del Bronzino: Donna Real l’appellava nei suoi versi Tullia D’Aragona, e Felicissima donna… degna reina dell’Arno superbo e della bell’Arbia, la esaltava l’urbinate Laura Battiferri, sposata in seconde nozze con lo scultore e architetto Bartolomeo Ammannati. Eleonora appare in quegli anni del Rinascimento maturo, non solo modello ideale di perfezione muliebre, organicamente in linea con le teorizzazioni del Cortegiano per il personale, concreto, contributo di sapere, intelligenza politica, mondana eleganza portato al vivere civile e al mondo della Corte, non disgiunto dalle virtù di madre e di moglie, ma anche antesignana di una più avanzata rivendicazione, rispetto ai tempi, di un ruolo autonomo della donna in una società dominata dai maschi per l’attenzione da lei rivolta pure ai ceti più bassi della società. Se le sue origini regali e la sua femminilità la portavano a compiacersi di oggetti preziosi, vezzi di oreficeria e di perle, tessuti pregiati e costosi, quale quello fissato nella tela del Bronzino che la ritrae con il figlio piccolo Giovanni, Eleonora volle e seppe pure prendersi cura personalmente, e premurosamente, dei suoi undici figli, anche se la morte gliene portò via molti provandola nello spirito e debilitandola nel corpo. Alcuni ancora in fasce (Piero, Antonio, Anna), altri giovanissimi, morti di malaria (diciassettenne la primogenita Maria, diciannovenne Giovanni, quindicenne Garzia) o misteriosamente (la sedicenne Lucrezia non si sa se di tubercolosi o avvelenata dal marito). Ma, cosa notevole, è che la sua attenzione, tutta “femminile” e “materna”, nel Testamento da lei dettato il giorno prima di morire (16 dicembre 1562), le fece assegnare -come osserva la Valle- alla sua schiava Ana mille scudi per il riscatto di quella a vita libera, le fece chiedere di mettere in monastero, per proteggerle, le “schiave piccole”, finché il Duca non avesse trovato per loro un nuovo ricapito, e le fece lasciare una rendita annuale alle Abbandonate di Fiorenza, cioè le donne che, non potendo sostentarsi da sole (sic!), finivano miseramente serve o prostitute.

Va infine ricordato il suo “programmatico” mecenatismo, a proposito del quale piace qui citare una sua lettera, dove si legge che I soggetti che hanno merito e virtù debbono essere impiegati, e il buon principe non deve aspettare che gli domandano l’impiego, ma deve lui stesso ricercargli… Un mecenatismo che vestì della specifica impronta culturale e di gusto di Eleonora le decorazioni delle sue stanze e della Cappella, e che la spinse a riaprire lo Studio di Pisa, ad avviare l’Accademia degli Elevati, che doveva diffondere le arti e la poesia, e ad accogliere a Corte un cenacolo di cultura in cui si incontravano e confrontavano intellettualmente umanisti, artisti, poeti, poetesse, filosofi, alchimisti, fra i quali Alberto Flavio Lollio, Paolo Giovio, Annibal Caro (traduttore fra l’altro dell’Eneide), Benvenuto Cellini, Benedetto Varchi, Bernardo Tasso, le due poetesse prima citate, e altri. Tullia D’Aragona, “cortigiana onesta” che grazie all’intervento della Duchessa presso Cosimo, ottenne di non indossare il velo giallo che per disposizione papale e ducale doveva distinguere le meretrici dalle nobildonne, dedicò al Duca il suo Dialogo dell’Infinità d’amore (1547) e a Eleonora il suo canzoniere, Rime della signora Tullia d’Aragona e di diversi a lei (1547), uscito anch’esso a Venezia presso il famoso editore Giolito. Pure Laura Battiferri le dedicò nel 1560 la sua raccolta di versi, Il primo libro delle opere toscane, ammirati dal Varchi e da Michelangelo. Al suggerimento pare di Paolo Giovio, letterato e vescovo, si deve il motto scelto dalla Duchessa come contrassegno della sua personalità, Cum pudore laeta foecunditas, e presente nello stemma nobiliare immaginato per lei da Giovio, come risulta dal suo Dialogo delle imprese militari e amorose, scritto nel 1551, ma uscito postumo nel 1555. Nel Dialogo Giovio dice di avere pensato come rovescio di medaglia per Eleonora -e tale la vediamo in una medaglia di Domenico Poggini- una pavona, in faccia, la quale con l’ali alquanto alzate cuopre i suoi pavoncini, tre alla destra, e tre alla sinistra. Era un augurio di fecondità, che trovò realizzazione, come già visto, nelle vicende biografiche di Eleonora, ma la Valle avverte che l’impresa (alias lo stemma), nasconde un significato iconologico più profondo coerentemente con la simbologia alchemica, attestata nella tradizione familiare dei Medici secondo gli studi di Paola Maresca (Alchimia e segreti di Cosimo I in Palazzo Vecchio a Firenze, 2017). Il numero dei pavoni nello stemma -osserva la Valle- è sette, e nella Kabbalah il sette corrisponde alla lettera “zain” allusiva alla lotta interiore per la ricerca di elevazione spirituale. Sette sono anche i corpi celesti e il pavone era sacro a Giunone, la madre astrale feconda e sapiente… dea protettrice della famiglia [e] madre celeste nella mitologia greca, al cui livello veniva dunque implicitamente innalzata Eleonora, in una commistione di umano e divino, di cielo e terra, di mondanità e sacralità, fra “rappresentazione”/legittimazione del potere e visione spirituale/religiosa dell’esistenza nei suoi cicli cosmici. Una simbologia alchemica secondo Maresca/Valle va rintracciata anche in due imprese di Cosimo, quella che con il motto augusteo Festina lente ha come motivo iconografico una tartaruga con la vela spiegata, e quella che con il motto Semper duabus  rappresenta due àncore incrociate. La prima nel linguaggio alchemico significa il magistero perfetto che si raggiunge mediante una crescita in cui rapidità e fermezza si sviluppano di pari passo; la seconda rimanda alla massima alchemica ex duabus aquis unam fecit, ovvero all’unione del principio maschile con il femminile che da vita all’androgino ermetico. Le due imprese di Cosimo nel fregio superiore della stanza/sala da pranzo di Eleonora, detta Sala di Ester per il soffitto decorato con la storia di Ester che salva il suo popolo e il re Assuero dal progetto cospiratorio di Amàn, si intrecciano in un gioco di puttini con le lettere che indicano titolo e nome della Signora di Firenze (Eleonora di Toledo Signora e Duchessa seconda di Firenze e Siena) ribadendo il profondo nodo d’amore della coppia e la piena sintonia nella loro “missione” per così dire etico-politica: Cosimo/Assuero e Eleonora/Ester salvano il loro popolo, divenuti l’uno e l’altra una cosa sola per una causa più elevata, come segnalerebbe nel dipinto di Ester realizzato dal Vasari e dallo Stradano anche il vaso sigillato retto da due angeli, “vaso” che è il luogo segreto della celebrazione delle nozze spirituali. Significati simili nasconderebbe pure il famoso dipinto del Bronzino prima citato, dove risalta la sfarzosa veste di finissimo raso bianco trapuntato di decorazioni a melagrana in broccato d’oro bouclé e velluto nero con una grande melagrana al centro del corpetto, veste con la quale secondo lo Young Eleonora sarebbe stata sepolta. La melagrana è simbolo a un tempo di opulenza politica e di fertilità. Ancora una volta si va oltre la semplice biografia, e pungolo necessitato di discendenza dinastica, o mitologia del potere. I chicchi di melagrana simboleggiano la proliferazione della vita, e il pallore dell’incarnato di Eleonora sullo sfondo blu del quadro vuole evocare il pallore della luna: Eleonora è Selene, la risplendente sorella di Helios, ed è l’amante del suo Sole/Cosimo, in una commistione di “amore” umano e cosmico, e il dipinto è un “Talismano” che allude e “custodisce” il miracolo della vita.

Un intreccio di significati meno complessi, ma che mescola ugualmente elementi biografici, tradizione religiosa cattolica dei due coniugi e cultura classica, ragioni politiche e motivi morali, risulta dalle decorazioni della Cappella e delle altre stanze di Eleonora, dette la Sala delle Sabine, la Sala di Penelope, la Sala di Gualdrada dalle pitture del soffitto che ribadiscono la perfetta comunione spirituale della coppia nella sfera pubblica e in quella privata, oltre che le virtù femminili di Eleonora. Nella Cappella i Santi delle vele della volta significano: San Michele Arcangelo, che scaccia il demonio, Cosimo che difende il suo regno dalle influenze maligne; San Girolamo e San Giovanni evangelista, la parola avvolgente di Dio; San Francesco che riceve le stimmate, la particolare devozione al Santo della madre di Eleonora, donna Maria Osorio, e della stessa Eleonora per la grazia ricevuta del figlio maschio dopo la primogenita femmina, e l’avvicinamento di Cosimo ai francescani, per ottenere il loro sostegno nel governo della città, data l’ostilità dei domenicani del convento di San Marco rimasti legati all’esperienza della repubblica savonaroliana. Le tre storie di Mosè desunte dall’Esodo e raffigurate sulle pareti -un “Mosè” che salva il suo popolo- replicano il ruolo di Cosimo novello salvatore dei fiorentini, e specificamente la figura femminile gravida in vesti purpuree del “Passaggio del mar Rosso” allude a Eleonora pregna del figlio Francesco, futuro erede politico, relazionato al Giosuè dello stesso dipinto futuro “successore” di Mosè. Le Sabine, che dopo il ratto scongiurarono la guerra fra Romani e Sabini favorendo la fusione dei due popoli in uno solo, sono una chiara allegoria dell’abilità di mediazione che sapeva mettere in atto presso il consorte la Duchessa nei momenti cruciali del loro governo, cosi come Penelope e Gualdrada risultano uno “specchio” della sua fedeltà coniugale e rigore morale, ma anche della sapienza con cui Eleonora tesseva giorno dopo giorno i fili del viaggio/sorte del regno di Cosimo.      

E alla biografia per così dire “quotidiana” entro la cornice complessa e mondana della vita di Corte ci riportano alcuni sonetti encomiastici dedicati ad Eleonora da Tullia d’Aragona e Laura Battiferri in anni in cui proliferava in Italia e aveva successo di pubblico la lirica femminile, diffusa attraverso raccolte personali delle singole autrici (vedi Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Veronica Franco, Chiara Matraini, Gaspara Stampa ..) o attraverso antologie, come le due compilate dall’umanista Lodovico Domenichi. L’una, Rime diverse di molti eccellenti autori nuovamente raccolti, che conteneva testi di cinque autrici (Francesca Baffo, Laodamia Forteguerri, Laura Terracina, la Gambara, la Colonna),  l’altra, di sole donne: Rime diverse d’alcune nobilissime et virtuosissime donne, pubblicata a Lucca nel 1559 che ospitava ben cinquantatré autrici, fra le quali l’infelice Isabella de Morra, presente anche in una silloge mista edita anni prima a Venezia dal titolo Rime di diversi signori napoletani. La società cortigiana teorizzata dal Castiglione, come sopra anticipato, prevedeva e pretendeva, quale figura complementare del cortigiano, la presenza femminile, e il “diritto di parola” così acquisito dalla “donna”, e favorito sia dal clima di “cultura media” creato dal fenomeno letterario e espressivo del petrarchismo, sia dal più facile accesso delle donne alla cultura in generale grazie allo sviluppo della stampa, produrrà nel ‘500 frutti diversi secondo la personalità delle varie rimatrici e i loro differenti stili di vita. Esiti dissimili riscontrabili, pur se in scala molto ridotta, anche nei sonetti encomiastici alla “Duchessa di Toscana” riportati dalla Valle, come la seguente terzina dal tono “ufficiale” di Tullia, che in queste “prove” per la Duchessa appare tuttavia più autonoma rispetto alla stretta osservanza del modello petrarchesco verificabile in altri suoi componimenti. Non più la Spagna -scrive nella terzina- omai gioisca tanto,/ che s’ella ha ‘l Tago con l’aurate sponde/ Leonora avrem noi [a Firenze] con maggior vanto. Poesia occasionale come si vede, ma non sempre freddamente cerimoniosa, se la poetessa sa paragonare in un altro testo, con gentilezza di immagine, il favore della Duchessa nei suoi confronti alla luce che viene al dì dalla stella di Lucifero che surge in oriente innanzi al sole, e se partecipa altrove con slancio sincero alla nascita del principino Garzia che veniva a riparare a meno di un mese di distanza la morte del piccolo Piero (Pedricco). L’alto Creatore -dice- ora per acquetar vostri lamenti/ vi rende il cambio di quell’alma chiara,/ che di voi nata tutto ’l ciel rischiara donde l’invito gioioso che risuona nella luminosa terzina finale: Arno alzi l’acque al ciel, le rive infiori,/ suonino i tempii, e fumino gli altari,/  che ‘l nuovo parto a festeggiar n’invita. Su un registro invece di più solenne rispetto reverenziale imposta il suo sincero encomio Laura Battiferri, così simile nella tempra morale e religiosa e apertura intellettuale alla Duchessa, da rilevarne, nel suo devoto riverir e cantar, opportunamente le doti di reina “ordinatrice“ e “legislatrice”, in un incontro davvero di anime.

 

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