“La rivoluzione del merito” di Domenico Bonvegna

In un precedente intervento avevo promesso di continuare la riflessione sul professore Luca Ricolfi, sociologo e politico, editorialista, presidente e responsabile scientifico della Fondazione David Hume. Ricolfi si dichiara da sempre di sinistra, anzi sessantottino, eppure l'attuale Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, pare che lo abbia consultato per elaborare una proposta economica che riguarda l'occupazione. Il professore torinese è autore di diversi saggi, l'ultimo libro, “La Rivoluzione del merito”, (Rizzoli, 2023) è stato in polemica anche con la propria generazione, a cui oggi imputa parte della responsabilità di aver contribuito alla distruzione del merito. “Credevo che per fare la rivoluzione fosse necessario studiare. Non puoi cambiare il mondo, dicevo, se prima non fai lo sforzo di conoscerlo a fondo. La mia generazione tendeva invece a credere che anche l’istruzione fosse uno strumento del dominio di classe. Di qui l’idea degli esami collettivi e del voto politico. Che detestavo non perché i miei compagni, senza studiare, prendessero gli stessi voti che prendevamo noi, studiando. No. Quello che odiavo davvero è che poi non sapessero nulla neanche di Marx, di cui si riempivano in continuazione la bocca”.

Ma “il corpo a corpo più drammatico del libro lo ingaggia con Don Lorenzo Milani”, scrive Nicola Mirenzi nell'intervista al professore sul sito della Fondazionehume (11.9.2023). Eroe del suo tempo e ancora oggi icona del progressismo. “In ‘Lettera a una professoressa’ è evidente il suo disprezzo per la cultura alta, in particolare quella umanistica, vissuta semplicemente come uno strumento di oppressione borghese. Ma in Don Milani c’era ancora un elemento che poi nei suoi epigoni è sparito del tutto. Il valore dello studio, e del tempo pieno per i ragazzi in difficoltà. Nella scuola di Barbiana non c’erano vacanze. Si stava in classe tutto il giorno. Anche nel fine settimana. Per questo ritengo necessario distinguere Don Milani dal ‘donmilanismo’. Nel primo, c’è parecchio da rifiutare ma anche qualcosa da custodire. Nel secondo, c’è solo la rinuncia a trasmettere la cultura alta ai figli delle classi basse.”. Sono riflessioni che ha scritto anche Alessandro Mazzerelli, in Parole eterne del mio amico don Lorenzo Milani. Profeta di Barbiana”, edito da Il Cerchio (2010). Per il sociologo abbassare il livello di istruzione e i criteri di valutazione per non far sentire indietro nessuno, come è avvenuto in questi anni, non è stata una scelta vincente. "Il 99,4% degli studenti viene promosso agli esami di maturità. Non si è capito - afferma - che questo rimedio aveva qualche piccolo inconveniente. Prima di tutto lasciava indietro i ceti bassi. Si può dimostrare con strumenti scientifici che l'abbassamento della qualità dell'istruzione danneggia tutti ma di più i ceti popolari e quindi aumenta la disuguaglianza".

E invece Meloni sarebbe una rivoluzionaria autentica? “A suo modo, - risponde Ricolfi - credo sia una donna radicale. Anche in politica economica. Il suo chiodo fisso è l’occupazione. L’idea della flat tax non la entusiasma. Credo che, finché potrà, eviterà di applicarla nelle sue versioni iper-liberiste. Per una ragione semplice: in fondo, lei è una vera keynesiana”. Ma è davvero rivoluzionario essere keynesiani, in Italia? “No, se si commette l’errore di confondere l’intervento pubblico con l’assistenzialismo, che è quello che in Italia è sempre andato di moda. Ma il fine delle politiche keynesiane, si dimentica spesso, non è la spesa pubblica in sé: è l’investimento pubblico per raggiungere la piena occupazione, creare lavoro. E su questo sono in piena sintonia con Meloni: nessun aumento salariale, nessun reddito di cittadinanza, nessun sussidio, potrà mai avere, dentro una famiglia, l’impatto che ha uno stipendio in più”. Non si può dire che il professore non abbia le idee chiare.

Dalla parola radicale, sente di potersi allontanare solo quando parla dei valori culturali. “In questo non nascondo di essere un conservatore”. La società opulenta e permissiva ha creato ben poco di buono, secondo Ricolfi. “Per esempio, è stato un errore – in nome di una falsa inclusività – sbarazzarsi della trasmissione del sapere, che la scuola aveva garantito in passato. Come è stato sbagliato, in nome della sovranità assoluta dell’io, liberarsi completamente del senso del pudore. Forse non ce ne rendiamo nemmeno conto. Ma attraverso i social è stata abolita l’intimità. Oggi è quasi vietato starsene per i fatti propri. La timidezza e l’introversione sono state bandite dal modo di essere uomini e donne”. Ma anche nell’educazione sentimentale sono stati fatti danni. “Abbiamo fatto molto male a demonizzare le nostre tradizioni culturali. C’era in esse un patrimonio di gesti, di codici di comportamento, di approcci tra uomo e donna senza i quali, oggi, in assenza di qualsiasi altro codice, più facilmente si riprecipita nella violenza e nella prevaricazione. Fino ad arrivare all’estremo dello stupro di gruppo. Com’è accaduto nel recente caso di Palermo”. Non si tratta di ritornare all'antico, bisogna andare avanti,“ma custodendo il buono che c’è – anzi che c’era – nel mondo che abbiamo ereditato da chi ci ha preceduto. Ad esempio: la trasmissione della cultura, la capacità di differire la gratificazione, il rispetto dei ruoli, l’esercizio dell’autorità nell’educazione dei figli. Più in generale, l’accettazione del limite, che è il vero nucleo della visione conservatrice del mondo, da Edmund Burke a Roger Scruton, da Raymond Aron a Simone Weil.

Sui conservatori in Italia il professore Ricolfi è molto critico, pensa che la Destra non sappia affrontare le battaglie di civiltà, si limita a reagire, a rintuzzare gli eccessi. “Passando spesso per reazionaria, oscurantista, appunto perché non oppone a un’idea di mondo un’altra idea di mondo, ma si limita a reagire all’unica idea in campo”, che sarebbe quella progressista. La destra non ha un’idea di mondo alternativa a quello progressista. Eppure ci sarebbe molto da imparare dal mondo conservatore senza passare per retrogradi.

 

 

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