La vita quotidiana a Ercolano prima del 79 d.c. – notizie storico-archeologiche sul ritrovamento del papiro Herculaneum 1067 – di Giovanni Teresi
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- Creato: 08 Giugno 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
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L’importante scoperta di assoluto valore è avvenuta alla Biblioteca nazionale di Napoli grazie al lungo ed appassionato lavoro di una ricercatrice dell’Università degli Studi di Napoli Federico II e nell’ambito di un rilevante progetto europeo. Il binomio tutela e ricerca porta oggi un risultato straordinario e restituisce al mondo un’opera della letteratura latina finora ritenuta perduta.
Il P. Herc. 1067 è uno dei più noti papiri latini della collezione di Ercolano, conosciuto come Oratio in Senatu habita ante principem, e finora si riteneva conservasse un discorso di tenore politico composto da Lucio Manlio Torquato e pronunciato in Senato al cospetto dell’imperatore [1].
L’attribuzione a Seneca il Vecchio, oltre a restituirci parte di un’opera finora ritenuta persa, conferma quanto la Villa dei Pisoni con la sua biblioteca fosse un vitale centro di studi fino a poco prima dell’eruzione del Vesuvio [2]. I papiri carbonizzati di Ercolano riservano così un’altra straordinaria scoperta, mostrando come nella villa dei Pisoni vi fosse l’opera di uno dei grandi assenti della letteratura latina.
L’attribuzione a Seneca il Vecchio, oltre a restituirci parte di un’opera finora ritenuta persa, conferma quanto la Villa dei Pisoni con la sua biblioteca fosse un vitale centro di studi fino a poco prima dell’eruzione del Vesuvio [2]. I papiri carbonizzati di Ercolano riservano così un’altra straordinaria scoperta, mostrando come nella villa dei Pisoni vi fosse l’opera di uno dei grandi assenti della letteratura latina.
Dopo un anno di studi, il papiro P. Herc. 1067 ha permesso con certezza l’attribuzione dei frammenti analizzati alla Historiae ab initio bellorum civilium di Lucio Anneo Seneca il Vecchio, conosciuto come “il Retore” e padre del filosofo Seneca, opera di cui finora non esisteva alcuna notizia diretta di tradizione manoscritta.
Valeria Piano, filologa e papirologa, ricercatrice dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, nell’ambito del progetto europeo Platinum, studiando con un lavoro certosino la ricomposizione dei sedici pezzi, tutti catalogati con lo stesso numero di inventario e dunque provenienti dallo stesso rotolo, sulla base del loro contenuto e sui calcoli cronologici, è giunta alla certa attribuzione all’autore di quest’opera di natura storico-politica, che interessa i primi decenni del principato di Augusto e Tiberio (27 a.C. – 37 d.C.). Grazie ai risultati conseguiti, il riconoscimento è stato accolto positivamente anche da altri studiosi e paleografi.
Per dare una esaustiva chiarezza sullo stato di conservazione del papiro, che assieme agli altri milleottocento papiri facevano parte della biblioteca della Villa dei Pisoni, immaginiamo come poteva essere Ercolano prima dell’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Su parte della città antica si trova attualmente Resina, 8 km a E di Napoli. L’antica città di Herculaneum era posta su un basso contrafforte del Vesuvio, tale da formare un promontorio eminente lungo l’arco del golfo fra Neapolis e Pompeii, delimitato da due profondi canaloni di carattere torrentizio che convogliavano le acque dal monte al mare: così ci è attestato da Sisenna (fr. 53-54) in un passo di chiara evidenza geografica: oppidum tumulo in excelso loco propter mare, parvis moenibus, inter duas fluvias infra Vesuvium collocatum. Strabone inoltre (v, 4, 8, p. 246) ne loda la salubrità dell’aria; Dionigi d’Alicarnasso (i, 42) la sicurezza dei porti.
La leggenda, che ne fa una fondazione di Ercole al ritorno dal suo viaggio in Iberia, la ricollega alle altre città marittime della Campania, sacre anch’esse al culto d’Ercole, a Bauli e a Pompeü; ma la sua vera origine, per la necessità di difesa della strada litoranea del golfo: ϕρούριον è detta da Strabone (loc. cit.), oppidum da Sisenna (loc. cit.) e da Livio (x, 44, 11), πολίχνη da Dionigi d’Alicarnasso (loc. cit.).
Delle sue prime vicende storiche, attenendoci alle notizie tramandate da Strabone (loc. cit.) e cioè che fosse prima in signoria degli Osci, poi dei Tirreni-Pelasgi e infine dei Sanniti, possiamo ritenere che all’impianto primitivo degli Osci succedesse, come a Pompei, l’egemonia etrusca nel periodo fra il 600 e il 525 a. C. e che, con l’invasione sannitica del principio del V sec., cadesse anch’essa sotto il dominio dei Sanniti sinché, conclusa la guerra fra Roma e il Sannio, entrò a far parte della federazione romana dei socii italici.
La prima testimonianza della sua esistenza come città si ha nella guerra sociale, quando, ribelle a Roma, assalita ed espugnata da Tito Didio legato di Silla (89 a. C.), e perduta ogni autonomia politica, ebbe più tardi la costituzione di municipio e l’immissione, al pari di Pompei, di coloni romani. Nell’ultima età della Repubblica fu sede di ville del patriziato romano, al pari dei luoghi più belli del golfo di Napoli; una di queste ville sarebbe stata distrutta per ordine di Cesare per vendicare la madre sua che vi era stata relegata (Seneca, De ira, III, 21, 5); un’altra, alla quale è legata la celebrità di Ercolano, è la cosiddetta Villa dei Papiri (v. appresso).
Al pari di Pompei venne anch’essa sepolta, ma in modo diverso, dall’eruzione dell’a. 79 d. C. Mentre una pioggia di lapilli e di cenere portata dal vento di ponente si distendeva in strati di circa 6 m su Pompei, su Stabia e più oltre, Ercolano, posta a Ovest del cono eruttivo, venne risparmiata durante il parossisma; ma pochi giorni dopo, quando la città era già evacuata, le piogge torrenziali che s’accompagnano sempre alle grandi eruzioni, trascinarono a valle l’enorme quantità di materiali che s’erano accumulati intorno al cratere e sulle pendici del Vesuvio in forma di alluvione fangosa. Una massa semifluida di fango, discesa lungo la china del monte, investì le ville del sobborgo e la città riempiendo e sommergendo ogni edificio, sopraelevandosi con alluvioni successive fino all’altezza di 16 e più metri sul piano della città antica e sfociando a mare. Prosciugandosi e solidificandosi, quella massa fangosa ha assunto la durezza e compattezza d’un banco tufaceo entro il quale trovansi immorsate le strutture delle case, le opere d’arte, le suppellettili e si conservano, come in una torbiera, il legno delle coperture, delle porte, delle scale e gli oggetti più delicati di fibra vegetale, quali il tessuto d’una stoffa e il papiro. A questa eccezionale conservazione si deve la particolare struttura che le case avevano a Ercolano; case che erano integrate nelle loro strutture lignee e che portavano all’interno, grazie alle successive scoperte, documenti scritti (tabulae ceratae) e manoscritti letterari (papiri).
Sul terreno acclive del promontorio la città aveva distribuito gli edifici pubblici e le case in successivi terrazzamenti, cosicché spesso in un edificio pubblico e nelle maggiori abitazioni si notano dislivelli fra le varie parti dello stesso edificio. Il ciglio del promontorio terminava con un brusco salto di due successive terrazze e su di esse s’era impiantato il muro della fortificazione a forma di terrapieno ed erano sorti alcuni importanti edifici extramurali. Inoltre, nella prima età imperiale, le case delle insulae meridionali avevano finito per spingersi fino sull’estremo ciglio dei bastioni occupando con terrazze e verande panoramiche l’antico cammino di ronda, ricavando stanze e appartamenti di soggiorno nello spessore del bastione e ampliando l’abitazione sul terrapieno stesso della fortificazione.
Le vie di comunicazione fra la città e il mare erano assai anguste e di carattere pedonale (quali almeno ci si presentano nelle tre porte finora scoperte). Ercolano aveva il carattere che hanno le piccole località marine del golfo e delle isole. Le vie dell’antica città, per un grande traffico marittimo, ed altre più comode e ampie, non si presentano dal lato di ponente, quindi dobbiamo pensare che la vita marittima si riducesse al piccolo cabotaggio e alla pesca. Né al traffico di terra erano adatti i due decumani finora scoperti, non avendo né l’uno né l’altro alcuno sbocco in una porta orientale della città. È certo pertanto ammettere che solo il terzo decumano superiore (al di sotto dell’abitato di Resina) raccogliesse il traffico che collegava Napoli al mezzogiorno della penisola. Lungo questa strada vennero infatti segnalati i primi sepolcri della necropoli ercolanese. Ma anche sulle strade messe in luce si colgono scarse tracce del traffico pesante: qualche solco scavato dalle ruote e qualche paracarro si notano sul decumano inferiore. Centro della città era il Foro, lungo il percorso del decumano medio; ma, in luogo di una grande piazza, sembra che non si avesse ad Ercolano altro che una grande via porticata chiusa al traffico pesante, su cui si affacciavano gli edifici principali del municipio ercolanese, la basilica e le curie, esplorate in passato per via di cunicoli e non ancora riscoperte, mentre manca tuttora il ritrovamento del tempio principale della città e del Foro.
Fino a che non si sia scoperta la basilica, l’edilizia pubblica ercolanese è rappresentata dal teatro (vecchi scavi), dalla terma del Foro, dalla terma suburbana e dalla palestra (nuovi scavi).
Come a Napoli, anche ad Ercolano il teatro è di schietta costruzione romana: la cavea, anziché essere addossata alla china del monte, era costruita e sostenuta da archi e pilastri a doppio ordine di 19 archi ciascuno, rivestiti di fine decorazione a stucco e pittura. La costruzione appare unitaria e organicamente articolata: particolari elementi dell’architettura teatrale del I sec. sono le due grandi sale ai lati della scena, la forma del proscenio, l’abside centrale della frons scenae, i tribunalia, la crypta e le scalette d’accesso alla summa cavea.
Racchiudeva il teatro una selva di statue: sculture in marmo sulla scena, tra cui, meritatamente celebri, le cosiddette grande e piccola Ercolanese, ora a Dresda, che dovevano forse raffigurare idealmente personaggi della famiglia imperiale, e sculture in bronzo lungo il portico esterno della cavea; due statue onorarie a patroni della città erano collocate ai due lati del proscenio: l’una al proconsole M. Nonio Balbo (v.), l’altra al console Appio Claudio Pulcro (consolato del 38 a. C.).
A Ercolano conosciamo due terme pubbliche: l’una al centro dell’abitato e in prossimità del Foro (terme del Foro); l’altra al di fuori d’una delle porte della città (terme suburbane). La prima, d’età giulio-claudia, ripete nell’impianto e nella divisione delle due sezioni, maschile e femminile, il tipo delle terme pompeiane, pur meno evolute nel sistema di riscaldamento; la seconda, della prima età fiavia, presenta invece per la sua stessa ubicazione sul primo terrazzamento sottoposto alle mura, per la decorazione a rilievo di alcune sue sale, per la presenza del laconicum e per l’uso di pareti concamerate a mattoni tubolari e, infine, per il geniale espediente dei pozzi di luce e d’aerazione dal sommo delle volte di copertura, un tipo di edificio termale di peculiari forme struttive e funzionali.
L’edificio che meglio esprime il particolare carattere di Ercolano e ne è l’espressione più monumentale, è la palestra-ginnasio, un grande isolato nel settore orientale della città, a due piani; in quello inferiore è l’area rettangolare della palestra (m 77 × 47) circondata da portico su tre lati e da criptoportico sul quarto; nel piano superiore è un lungo loggiato sovrapposto al criptoportico, con sale e stanze più o meno vaste e lussuose.
La palestra, occupata al centro da una piscina cruciforme e ombreggiata da piante, era destinata agli esercizi sportivi della iuventus ercolanese, una grande sala absidata, al centro del portico occidentale, era riservata alle riunioni e alle cerimonie che accompagnavano le manifestazioni ginniche. La piscina, usata anche per natatio, aveva al centro dell’inserzione dei bracci una fontana monumentale in bronzo formata da un drago-serpente che, avvolgendosi a spire intorno al fusto di un albero, sprizzava da 5 teste altrettanti getti d’acqua.
Più che nell’edilizia pubblica la fisionomia d’Ercolano si coglie nell’edilizia privata.
L’angustia dell’abitato, le condizioni sociali ed economiche poco favorevoli ad un livellamento degli strati sociali, la diretta influenza della vicinanza a Napoli e, infine, il maggior allettamento che offriva il suburbio per l’installazione di ville signorili, furono tutte circostanze che influirono sul particolare sviluppo della casa ercolanese.
Benché non si abbiano la stessa ricca esemplificazione e lo stesso ampio sviluppo cronologico che offre l’abitato di Pompei, tuttavia Ercolano presenta un singolare interesse nella sua edilizia privata, dovuto non solo all’eccezionale conservazione delle strutture lignee che integrano il quadro, pur così completo, della casa pompeiana, ma anche ad un maggiore distacco dagli schemi tradizionali e ad un più rapido processo di trasformazione della domus italica nelle nuove forme imposte dallo sviluppo urbanistico, dall’accrescimento della verticalità e dalla necessità della coabitazione.
Nei quartieri meridionali, invece, dove la casa ha potuto ampliarsi sui bastioni della città, le abitazioni, orientandosi con i loro appartamenti di soggiorno verso la veduta della marina e del golfo, vengono a partecipare della casa di città e della villa marittima, dando al quartiere dell’atrio la funzione più modesta di vestibolo è sviluppando il quartiere del peristilio con criptoportici, giardini, sale di ricevimento, verande di belvedere e diaetae di siesta e di riposo; sono le grandi dimore signorili della Casa dell’Atrio a mosaico e della Casa dei Cervi, con i loro criptoportici che mutano il portico ellenistico in corridoio fenestrato di disimpegno e di più comoda e igienica deambulazione; e inoltre la Casa della Gemma, la Casa del Rilievo di Telefo e, nei vecchi scavi, la Casa dell’Albergo, la Casa d’Aristide e la Casa d’Argo, tutte più o meno scenograficamente disposte lungo il ciglio della fortificazione, quasi a corona del promontorio su cui sorgeva la città.
Particolare interesse hanno quelle case minori che, allontanandosi dallo schema tradizionale, sostituiscono un cortile all’atrio, creando le vere forme di trapasso dalla casa ad atrio alla casa-cortile; tali la Casa del gran Portale, la Casa del bel Cortile, che svolge per la prima volta stabilmente una scala in muratura nell’atrio-cortile e, infine, la casa di coabitazione per due famiglie, con due ingressi e due appartamenti separati, qual’è la Casa a Graticcio così denominata per la sua particolare struttura in opus craticium.
La vita commerciale si rispecchia non solo nelle case ricche con annessa taberna (Casa di Nettuno e anfitrite, Casa di Galba), ma soprattutto nelle case del ceto mercantile con officine (Casa del Telaio) e con tabernae corredate di retrobottega e a volte anche di hospitium.
Tra gli ambienti industriali, mentre è modestamente rappresentata la fullonica, così importante a Pompei, si riscontrano una taberna vasaria, una taberna vinaria, alcune tintorie, due pastifici (pistrina), una tessitoria, una bottega di marmista o di toreuta (arte di lavorare il metallo con decorazioni a rilievo), un venditore di tessuti e infine un pannivendolo con il suo torchio in legno per la premitura e la stiratura delle stoffe. Oltre alle botteghe distribuite lungo le vie principali e nei quadrivî (alcune di esse ci danno la preziosa documentazione del loro arredamento in legno), una serie ininterrotta di botteghe si ha lungo il fronte occidentale della palestra e una serie non meno numerosa è da attendersi dalla prosecuzione dello scavo lungo la via del Foro.
La villa ercolanese dei papiri
Se l’autore del “De rerum natura” era un proprietario agricolo della città di Pompei, discepolo di Filodemo (filosofo epicureo greco), amico di Cicerone, nonché di Memmio (governatore militare della colonia ivi dedotta dal cognato P. Cornelio Sulla), se Lucrezio era un italico romanizzato da pochi lustri che odiava Pompeo (capo del partito centralista-senatorio, conservatore, bigotto, ambizioso di trono reale) e simpatizzava verso Cesare (capo della democrazia illuminista), acquista maggiore verosimiglianza l’ipotesi che proprietario della villa fosse il ricchissimo e potente epicureo L. Calpurnio Pisone Cesonio, suocero di Giulio Cesare e ligio al partito democratico.
Nella villa ercolanese, oltre alle ricchezze di opere d’arte, alla abbondanza di papiri filosofici epicurei ed alla presenza dei busti dei principali pensatori, ci sorprendono la grandiosità e la pianta alquanto bizzarra. L’intero fronte della villa misura 253 metri; il grande peristilio aveva poco meno di 100 metri di lunghezza per 37 di larghezza, con 25 colonne sui lati maggiori e 10 sui lati minori; la piscina al centro, di più di 66 metri di lunghezza per 7 di larghezza. Una sola villa del golfo di Napoli può essere paragonata per grandiosità alla villa ercolanese dei papiri, ed è il “Pausilypon” (costruito dal Dittatore L. Cornelius Sulla) dove Sirone, ospite di un ignoto patrizio romano, impartiva le sue lezioni di filosofia epicurea a Virgilio e ad altri vati augustei.
La villa è stata costruita su un terreno vergine da Lucio Calpurnio Pisone Gesonio espressamente ad uso di scuola superiore di filosofia epicurea, sul modello dell’originario Kepos ateniese, o magari del Mouseion alessandrino.
Dopo l’eruzione del Vesuvio, è probabile che siano rimasti sotterra molti papiri greci. Difatti, dopo attente ricerche archeologiche, prevalgono di gran lunga le opere greche su quelle latine. Il possessore dei 1800 volumi era senza dubbio un appassionato di filosofia; eppure mancano completamente i capolavori del pensiero ellenico. Platone Aristotele, gli Eleati, i Pitagorici, Empledoche, Anassagora, etc., sono ignorati. Ad eccezione di un’opera di Crispino sulla Provvidenza divina e sul finalismo. Tutti gli altri papiri svolti anche quelli non decifrati trattano di filosofia epicurea. De rerum natura è l’unico libro di Epicuro che la biblioteca ercolanese possedesse con assoluta certezza. Le altre opere contenute nella biblioteca ercolanese (i libri di Metrodoro, Colote, Demetrio e dello stesso Filodemo [3] non erano altro che trattatelli istituzionali.
È inverosimile che di Epicuro la biblioteca possedesse soltanto il trattato di Fisica e nulla della sua ricca produzione di Filosofia morale, che costituiva la vera essenza del sistema. Da ciò emerge la possibilità che molti altri papiri epicurei e filodemei si trovino ancora sotterra nei locali inesplorati della grande villa.
La villa ercolanese conteneva anche papiri latini che però sono arrivati a no in stato assai peggiore di conservazione come il poemetto “De bello actiaco” e indecifrabile riguardo l’autore.
Non è da escludere però l’ipotesi che la biblioteca della scuola superiore epicurea di Ercolano contenesse, insieme con i trattati dei maestri greci di tale indirizzo, da Epicuro a Filodemo, anche il magnifico poema “De rerum natura”.
[1] Storici dell’età giulio-claudia
Nell’età giulio-claudia, la storiografia – genere “nobile” della prosa latina – perviene a una varietà di indirizzi che si riflette nella complessa articolazione dei suoi generi collaterali. Il vero e proprio genere-padre, quello storiografico di impianto annalistico (rappresentato nelle età precedenti da Sallustio e da Livio, e sempre affiancato dalla specifica forma della monografia, di cui è stato illustre esempio ancora Sallustio), è accompagnato dalla storiografia erudita e antiquaria (Fenestella), dal «commentario» autobiografico (Tiberio, Claudio, Agrippina, Corbulone) e dalla biografia.
Storiografia di opposizione
Dal punto di vista ideologico, una parte degli scrittori di storia si pone su posizioni filosenatorie e antiimperiali.
Seneca Retore, padre di Seneca, compose in tarda età, parallelamente alle Oratorum et rhetorum sententiae, opera che ci è pervenuta, le Historiae ab initio bellorum civilium, che prendevano le mosse dai Gracchi per arrivare fino ai tempi di Tiberio, immediatamente precedenti la propria morte. Nostalgico ammiratore della repubblica ed erede in qualche modo della storiografia senatoria (pur non essendo un senatore), Seneca Retore volle che la pubblicazione dell’opera avvenisse soltanto dopo la sua morte, evidentemente per potersi esprimere liberamente e senza timori. Inquadrando l’intero percorso storico di Roma, egli forniva di esso una concezione biologica, paragonando la storia romana al ciclo dell’organismo umano: i tempi di Romolo erano l’infanzia, l’età dei re la puerizia, la prima repubblica l’adolescenza, la repubblica imperiale la maturità, mentre dalle guerre civili al principato si era entrati nella vecchiaia ed anche l’oratoria era decaduta. Lo stesso principato era inteso come un indispensabile appoggio di cui la repubblica ormai vecchia aveva bisogno: una concezione non certo trionfalistica, anzi, di dissenso appena dissimulato.
Il vero storico-senatore “d’altri tempi” è A. Cremuzio Cordo, autore degli Annales che narravano fra l’altro l’età di Cesare secondo una impostazione ideologica filorepubblicana tipica della storiografia senatoria. Un passo di questa opera, in cui Cremuzio esaltava i cesaricidi Bruto e Cassio, fu preso a pretesto per muovergli l’accusa di lesa maestà, che Seiano, prefetto del pretorio di Tiberio, fece sollevare nel 25 servendosi di due servizievoli clienti. Cremuzio tenne una memorabile orazione di autodifesa in senato (rielaborata da Tacito nel IV libro degli Annales), nella quale, ricordando l’atteggiamento tollerante mantenuto da Augusto verso gli scrittori repubblicani del suo tempo, evidenziava l’intolleranza del regime di Tiberio (non si deve comunque dimenticare il precedente del senatore Tito Labieno che, ancora vivo Augusto, vide condannare al rogo i suoi libri di storia, e decise di perire con loro). Cremuzio Cordo, anticipando la condanna, si lasciò morire di fame; i suoi libri furono bruciati, ma la figlia Marcia ne conservò segretamente una copia, cosicché essi poterono tornare a circolare quando Caligola, appena salito al trono, riabilitò Cremuzio insieme con Labieno e Cassio Severo, nel quadro di una riconciliazione fra principato e libertas che, peraltro, si sarebbe rivelata presto illusoria.
Storiografia filoimperiale
Un’altra parte degli scrittori di storia si mostra più attratta da un approccio “disinteressato”, non legato alla visione ideologica (Valerio Massimo, Curzio Rufo), oppure sceglie una posizione esplicitamente filoimperiale e apologetica (Velleio Patercolo, Cluvio Rufo).
Per quanto riguarda la biografia, oltre all’opera di Curzio Rufo su Alessandro Magno, abbiamo notizia della vita di Catone Uticense (βίος idealmente trasfigurato), scritta da Trasea Peto, esponente dell’opposizione stoica e senatoria, che riprende la Laus Catonis di Cicerone, inaugurando il particolare genere biografico degli exitus illustrium virorum, che esaltava i martiri della libertà sotto la tirannide.
[2] L’eruzione del Vesuvio
L’eruzione del Vesuvio è durata oltre 24 ore e, secondo uno studio stratigrafico del 1982, basato sull’analisi degli strati di cenere, si è svolta in due fasi: la prima, quella che seppellì Pompei durò 20 ore. La seconda dopo circa 12 ore: cambiò la direzione dei venti e furono investiti Ercolano e i paesi a nor-ovest del vulcano. I centri abitati erano distribuiti lungo le pendici e vicino al Vesuvio, fino a pochi anni prima considerato una montagna qualunque (i primi eventi di quella tragedia iniziarono nel 62 d.C.). In effetti il vulcano era inattivo da otto secoli. Il 24 agosto (o il 24 ottobre, a seconda delle fonti) del 79 d.C. il Vesuvio diede origine a un’eruzione esplosiva, seppellendo sotto uno strato di ceneri e detriti incandescenti, alto diversi metri, le città attorno.
La colonna di ceneri (la nube piroclastica) si alzò in cielo intorno all’una del pomeriggio dopo un potente boato: doveva essere alta quasi 26 chilometri e quando collassò si abbatté sul territorio circostante alla velocità di oltre 100 chilometri orari, seppellendo tutto.
A Pompei ed Ercolano vivevano circa 16-20.000 persone: nelle ceneri pietrificate sono stati rinvenuti i resti di circa 1.500 persone, ma il numero totale delle vittime è ignoto.
L’eruzione è stata definita di tipo pliniano perché a osservarla fu lo scrittore e senatore romano Plinio il Giovane (61-114 d.C.) che la descrisse dettagliatamente in una lettera inviata all’amico e storico Publio Cornelio Tacito, 30 anni dopo. Oggi definiamo pliniane le eruzioni esplosive prodotte dai vulcani come il Vesuvio.
A lungo si è pensato che l’eruzione del Vesuvio sia avvenuta il 24 agosto del 79 d.C., data dedotta dalla lettera citata di Plinio a Tacito, che fa riferimento a nonum kal. Septembres, ossia nove giorni prima delle calende di settembre, data che corrisponde al 24 agosto.
Recentemente alcuni archeologi però hanno rivisto questa ipotesi. A far pensare che l’eruzione possa essere avvenuta successivamente è stato il ritrovamento nel sito archeologico di Pomei di una moneta che fa riferimento alla quindicesima acclamazione di Tito a imperatore, avvenuta dopo l’8 settembre del 79, oltre che di frutta secca e braceri usati per riscaldare gli ambienti. Ciò potrebbe far pensare che l’eruzione sia avvenuta due mesi dopo, forse il 24 ottobre del 79 d.C.
[3] Filodemo di Gadara è stato un filosofo epicureo greco antico. Nato a Gadara, in Giordania, fu allievo di Zenone di Sidone ad Atene. Giunto in Italia verso l’anno 75, fu ospite a Ercolano, nella villa oggi detta dei Papiri, di Lucio Calpurnio Pisone suocero di Cesare. Filodemo divenne intimo di Pisone e venne definito da Cicerone, nella sua orazione In Pisonem, come un “greco lascivo, suo compagno di bagordi”, probabilmente per i suoi Epigrammi di contenuto anche erotico.
Giovanni Teresi
Bibliografia:
- Comparati e De Petra, La villa ercolanese dei Pisoni, Torino, 1883
- Rostagni, Arte poetica di Orazio, 1930, ed. magg. P. XXVI sgg.
- Maiuri, Ercolano (visioni italiche), Novara, De Agostini