“Le tematiche socio-politiche affrontate da Dante nel Purgatorio” di Giovanni Teresi

L’apostrofe all’Italia del sesto canto del Purgatorio della Divina Commedia è uno dei brani più celebri della seconda cantica, entrato alla memoria collettiva. Una delle più mirabili simmetrie testuali del poema dantesco è quella relativa ai sesti canti di ciascuna cantica, tutti e tre dedicati al tema politico, in una gradatio che va dalla Firenze di Ciacco (Inf. VI) all’Impero di Giustiniano (Pd VI) passando attraverso la lunga invettiva all’Italia pronunciata – nell’Antipurgatorio – dal poeta Sordello, conterraneo di Virgilio.

Dante Alighieri, l’esiliato per eccellenza, il nostalgico infuriato nei confronti della patria, un’anima insicura e combattuta durante gran parte della propria vita, non poté far altro che condividere i suoi pensieri. Travolto dalla guerra tra guelfi bianchi e guelfi neri, infatti, viene ingannato ed esiliato dalla sua amatissima Firenze, e questo gli provoca una ferita che non si rimarginerà mai, ferita tanto profonda che nelle tre cantiche il tema politico è costantemente affrontato.

 Per quanto riguarda il Purgatorio, Dante ci presenta il suo pensiero tramite i particolareggiati personaggi e le violente apostrofi, riferendoci spesso indirettamente ciò che riguarda la terra.

Come non cominciare dal canto VI del Purgatorio? Sordello, un’anima solitaria e disdegnosa che, non appena comprende l’origine mantovana di Virgilio, corre ad abbracciarlo, dimenticando qualsiasi disputa terrena del passato. Sembra quasi di ascoltare Dante dire: “Perché l’Italia non si comporta in questo modo?”. Ed è inevitabile il paragone con il canto VI dell’Inferno, il canto in cui Ciacco mette in luce l’estrema conflittualità tra fazioni che lacera l’Italia (in particolare Firenze) e la allontana dalla pace. Dante è estremamente deluso, il suo desiderio è ciò che più si allontana dalla realtà; “Molti son li animali a cui s'ammoglia e più saranno ancora, infin che 'l veltro verrà, che la farà morir con doglia”.
Il Veltro con cui Dante si presenta nella sua Commedia, il portatore dell’ordine, riformatore mandato da Dio, il distruttore della “lupa” cupidigia, resta un’utopia, non si manifesta e nel suo percorso Dante arriva a domandarsi se Dio stia effettivamente prestando attenzione all'Italia (sempre nel fondamentale canto VI). Per questo Dante apprezza ogni sprazzo di vitalità, ogni carattere positivo anche in soggetti poco vicini alla sua idea di uomo ideale, qualsiasi luce è un’enorme speranza per Dante, che vorrebbe riformare l’umanità intera. Basta guardare Catone, non solo pagano, ma repubblicano e addirittura suicida. Perché Dante avrebbe dovuto sceglierlo per un ruolo così importante come il guardiano del Purgatorio? Sicuramente per la sua severità e rigore morale e spirituale derivati dallo stoicismo, ma soprattutto per la sua estrema difesa della libertà personale.
Egli, essendo sfuggito a Cesare togliendosi la vita, rappresenta la libertà dal peccato che le anime del Purgatorio stanno cercando di raggiungere e la determinazione che ogni Italiano dovrebbe possedere. Dante è strabiliante in questo suo modo di oltrepassare le sue convinzioni, non solo senza eliminare un personaggio a prescindere, ma anche e soprattutto attribuendo loro delle posizioni fondamentali. Anche Manfredi, sebbene abbia commesso orribili peccati, nel canto III del Purgatorio viene esaltato da Dante per il suo pentimento. Tuttavia, la sua funzione più importante è quella di spostare l’attenzione sulla critica alla Chiesa: mentre essa pretende di rappresentare Dio in terra, è invece in una posizione molto più bassa, non solo in quanto terrena, ma anche in quanto incapace di perdonare. La Chiesa, infatti, non ha perdonato i peccati di Manfredi, mentre Dio l’ha fatto, mandandolo nel Purgatorio. Questi personaggi sono spesso affiancati a diverse apostrofi, invettive nei confronti dell’Italia che risultano violente e decise. Sicuramente notiamo una differenza tra Inferno e Purgatorio: nella prima cantica le invettive sono dirette principalmente a Firenze, con la quale Dante ha un contatto più profondo; nella seconda cantica, invece, sebbene Firenze sia ancora presente, le apostrofi sono dirette in generale all'Italia. Vediamo, per esempio, l’apostrofe del canto VI del Purgatorio: “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello!” (con quale veemenza di parole, inoltre, Dante si discosta dal suo solito poetare, per uno scopo che vuole raggiungere fortemente) messa in contrapposizione con, per esempio, l’apostrofe del canto XXVI dell’Inferno: “Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande che per mare e per terra batti l'ali, e per lo ’nferno tuo nome si spande!” (da notare l’ironia aspra con cui Dante rimprovera la sua patria dopo aver incontrato i “consiglieri fraudolenti” Ulisse e Diomede).

 L’apostrofe all’Italia si apre con un’esclamazione di dolore, sentimento che pervade l’intero canto. Storicamente, il concetto di Italia risale al tempo della Roma classica e il poeta lamenta il ruolo decaduto del proprio paese che – mentre al tempo dell’impero romano dominava tutti i popoli del mediterraneo e dell’Europa continentale – ora è ridotta a serva di dominatori stranieri, governata al suo interno da tiranni ignobili e insanguinata da una ininterrotta guerra fratricida (in un verso del canto ventiduesimo del Paradiso, l’autore definirà il nostro pianeta come «l’aiuola che ci fa tanto feroci».).

Insomma, sicuramente il Purgatorio e l’Inferno sono diversi nella loro grande somiglianza. Sebbene in modo differente rispetto all'Inferno, nel Purgatorio Dante mostra chiaramente il suo pensiero politico, utilizzando con intelligenza ed inerenza i personaggi politici principali del suo tempo.

L’ideale supremo di Dante era la concordia: l’unica soluzione politica risiedeva – secondo lui – nella ricostituzione, in chiave cristiana, dell’antico dominio romano sotto l’egida dell’imperatore di Germania. L’Italia era infatti priva di una guida politica legittima, per cui il paese appariva ai suoi occhi come una nave senza nocchiero in una grande tempesta. Tutte le sue speranza, Dante le ripose nell’imperatore Arrigo VII, al quale preparò – mentre era ancora vivo – un seggio in Paradiso!

Secondo un modulo di personificazione destinato a grande fortuna nei secoli successivi (da Petrarca a Leopardi), Dante raffigura l’Italia come una donna sventurata, decaduta dal ruolo regale di signora delle nazioni a quello di squallida prostituta: è l’emblema di un paese che ha perduto la sua dignità ed è diventata luogo di prostituzione, in quanto le cariche politiche ed ecclesiastiche si vendono come in un bordello (v. 78). Il problema è la mancanza di un’autorità politica che intervenga a sanare la situazione e inglobi in un disegno più vasto i tanti particolarismi localistici che intendono arrogarsi quote di potere sempre maggiore.

A partire dal verso 97, l’invettiva si rivolge direttamente all’imperatore, che nell’anno in cui è ambientato il poema era Alberto I d’Austria, eletto nel 1298 e ucciso a tradimento nel 1308.

 A lui Dante addebita la colpa di non interessarsi all’Italia, lasciandola così abbandonata a sé stessa (vv. 112 – 114):

Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m’accompagne?»

 

Questo planctus dantesco intorno alle sventure dell’Italia è destinato a una immensa fortuna nei secoli successivi. Francesco Petrarca raccoglierà questa eredità dantesca nel Canzoniere, sopratutto nella grande canzone Italia mia, benché il parlar sia indarno, che piacerà moltissimo a Niccolò Machiavelli, il quale la citerà alla fine del Principe.

All’inizio dell’Ottocento, il giovane Leopardi riprenderà questa corda patriottica nella canzone All’Italia, nella quale sin dai primi versi si affaccia la deprecatio per il presente squallido e antieroico («O patria mia / vedo le mura e gli archi / e le colonne e i simulacri e l’erme / torri degli avi nostri / ma la gloria non vedo / non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi / i nostri padri antichi»).

 

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