Lorenzo Spurio “Pareidolia” (ed. The Writer)

di Dorothea Matranga

 

Il termine “Pareidolia”, dalla radice etimologica greca (eidolon = immagine con prefisso para = vicino) rappresenta l’illusione subcosciente a ricondurre a forme note, oggetti o profili dalla forma casuale. La tendenza istintiva e automatica a trovare strutture ordinate a forme familiari, in immagini disordinate.

È anche il titolo della silloge di Lorenzo Spurio, poeta-scrittore-critico letterario “Pareidolia”, ed. TheWriter, 2018. L’immagine di copertina, bella anticamera al volume, già concentra il pensiero dell’autore sul significato che connota la trama dei versi, un’introspezione dell’animo umano in generale, e del singolo, un proiettarsi nel mondo per interpretarlo, per conoscere le forme essenziali e distinguere le vere forme dalle illusioni, o forme apparentemente reali, che bene rimangono occultate dal substrato di false velature, che ci consegnano un mondo ovattato che deve essere spogliato dalle incrostazioni, conurbazioni volutamente indotte a coprire la vera essenza delle cose, e il cuore del problema che gira intorno all’essere umano, che va invece carpita, svelata, interpretata e studiata anche nel senso sociologico e antropologico. In copertina, sotto il titolo “Pareidolia”, l’immagine di una donna, dal volto serio e corrucciato, s’innesta con la natura, i rami, le foglie, in piena sintonia e mescolanza. Osmosi tra l’elemento umano e la natura, dove il respiro umano trapassa dal genere umano al vegetale e dal vegetale all’umano, in una corrispondenza biunivoca, senza interruzioni, dove l’elemento natura diventa personificazione, e l’elemento umano subisce una trasformazione panica, per consegnarci un mondo in cui ciò che appare forse non è, e ciò che non appare invece è. Ecco che i rami e le foglie diventano ciglia, sopracciglia, pupille, che osservano il mondo. Un ramo è la linea di demarcazione delle labbra della donna. Una natura quasi spoglia, che secondo la nostra interpretazione, vuole rappresentare la vacuità di una natura che muore. Una natura, che nel suo tessuto cellulare ha assorbito il veleno umano, che soffre per il dolore del mondo, che assorbe e risente del malessere generale e universale. Un colore di sfondo tendente all’incarnato conferma la nostra ipotesi, della preannunciata e conclamata commistione dei due elementi uomo-natura, che si concatenano e vivono le stesse emozioni e sensazioni.

Il volume è articolato secondo quattro sezioni dai titoli: affossamenti, ecchimosi, dedicatio, pareidolia. La silloge costituisce per noi il prosieguo del pensiero già espresso nel volume Tra gli aranci e la menta. Recitativo per l’assenza di Federico García Lorca (PoetiKanten, Sesto Fiorentino, 2016), dove l’elemento natura, ci era stato offerto dall’autore Spurio nella stessa veste di natura che osserva, sugge la linfa dall’elemento umano e consola, ed è partecipe alle sofferenze umane, a volte più degli stessi uomini.

Come già è accaduto per la nostra analisi critica al volume Tra gli aranci e la menta anche questo volume di versi dell’autore ci sorprende, e riesce a lasciarci col fiato sospeso, ci coinvolge emotivamente, ci mette quasi con le spalle al muro. In modo prorompente e con un linguaggio marcatamente lugubre, ricco di figure retoriche sofferte e colorite, ci mostra in poesia ciò che poetico non è, il dolore del mondo in tutta la sua cruenza e orrenda manifestazione, ricca di particolari agghiaccianti e ridondanti di messaggi tonanti, che echeggiano per clamore ed effetti, che somigliano tantissimo a scene da film horror.

Una grande abilità dell’autore di trasportare il lettore nel suo mondo, e darci i propri occhi e il proprio modo di sentire. Lo stesso processo osmotico che si attua tra uomo e natura, l’autore Spurio lo attua con il lettore, in uno svolgimento del tipo uomo-autore /lettore-natura. L’autore, quasi si spoglia della propria identità, e veste i panni del lettore, per farlo assistere alle atrocità di cui è capace l’umanità, per educarlo a non commettere più gli stessi errori, a rivestirlo della responsabilità del mondo, come se quel mondo lui lo caricasse sulle spalle al lettore in modo da poter dire: Vedi di cosa sono capaci gli uomini? Egli stesso, l’autore, se ne meraviglia, inorridisce e prende distanza da simili azioni obbrobriose, ma non può fare a meno di mostrarle al lettore in tutta la loro tragicità ed efferatezza.

Una missione civilizzatrice che Spurio svolge con grande padronanza, grazie a un lessico che esonda di termini e paragoni, di immagini con flashback, in un viaggio poetico che utilizza il climax ascendente con una tragica musicalità che cresce di toni e frastuoni, di intensità, oscillando tra momenti presenti e passati, ricordi e richiami. Un andirivieni tempo-spaziale che gli consente di procedere in avanti fino a sfogliare completamente l’illusione, e mostrare la verità nuda e cruda del mondo, al mondo.

Nella prima sezione “affossamenti” frequente è l’immagine dell’acqua o del mare che si tinge di rosso, per il sangue versato dagli uomini uccisi o giustiziati. Come nella lirica “In ventuno di nero” ispirata all’esecuzione sommaria di 21 egiziani copti da parte dell’Isis: “un boia per ciascuno /in ventuno alla battigia genuflessi / oggi il mare si è tinto di rosso / …ed emana un olezzo”. L’acqua non ha un significato positivo e vitale, bensì di morte: “Nell’acqua avete chiesto aiuto / ma lì nel mare-canaglia il peso era insostenibile / per osmosi contro natura / gli intestini sono diventati vasi comunicanti / l’acqua è in voi / vi circonda e vi reclama ancor di più / l’acqua siete voi / la vostra vita dimora in ogni molecola del mare / … nella morte respira la vita” (poesia “Sacchi neri-Carme lento”). Nella lirica “Riemergevano cadaveri” l’autore utilizza il termine “soaltifera” derivato dal neologismo “soaltà” coniato dal poeta-filosofo di grande levatura Guglielmo Peralta, secondo cui la Soaltà è l’unione tra sogno e realtà: “i venerei anfratti / stagnavano di puzza e putridità /in un’irrituale primavera soaltifera”. Nella lirica “Queiq River (L’acqua rossa di Aleppo)” l’autore, nell’affrontare il tema della guerra, così scrive: “anche i fiumi muoiono / non quando l’acqua si prosciuga / ma quando è sopraffatta dal sangue / mi fa schifo pensare all’argine stuprato / e spiare la battigia ora deflorata”.

La seconda sezione è intitolata “ecchimosi”. Qui è un colloquiare tra il poeta e la terra, un ricordare per non dimenticare. Un cercare di capire le azioni insensate per porvi rimedio, un prendere coscienza e consapevolezza degli orrori del mondo, senza mai arrendersi o abdicare al male, senza perdere la speranza che l’uomo possa rinascere riconoscendo i propri errori. Il modo sensibile particolare del poeta di mostrare il suo amore per la natura e l’umanità, senza lasciare la presa, o girare il volto dall’altro lato. Guardare in faccia la realtà per fare capire quanto il mondo e gli uomini possono essere perversi e cattivi con gli stessi uomini, uomini che combattono contro altri uomini, che compiono azioni efferate e malvagie, che non possono essere dimenticate, ma osservate con la lente d’ingrandimento per coglierne l’essenza crudele, in modo da non commettere più gli stessi errori. Nella lirica “Colloquio” l’autore scrive: “m’inginocchiai a baciare la terra chiedendole scusa / una pioggia acuminata m’infilzò dappertutto e mi rigenerò”. Un colloquio a tu per tu, in prima persona dove la serie verbale comprende quasi sempre un pronome personale a monte del verbo, simile al riflessivo, ma più connotativo, nel vivere sulla sua pelle la condizione umana. L’autore soffre per il dolore della natura, e per il dolore che gli uomini causano ad altri uomini senza una vera ragione, una cattiveria dall’uomo all’uomo senza senso. In questa sezione, intitolata “ecchimosi”, avviene, nello svolgimento della trama poetica, nell’avvicendarsi e scorrere delle liriche, un fluire poetico dove l’autore ci guida e accompagna quasi prendendoci per mano, verso una serie di tragici accadimenti naturali, o causati dall’inettitudine dell’uomo, o perpetrati per crudeltà e cattiveria. Nella lirica “Primavera a Prypiat, il canto delle betulle”, a trent’anni da disastro di Chernobyl, il poeta scrive: “le betulle campano ancora / fissate in humus tossico / tra bivi cancerosi e un cane stanco / mi accaloro sul lutto del colore / quando la luna si approssima / vacilla e trema di un’eterna paura”. Ecco che torna la luna, che partecipa del dolore della natura e degli uomini, come già aveva fatto nel volume precedente l’autore Lorenzo Spurio. Una luna che a volte sparisce dal cielo, perché non vuole assistere allo scempio di un’umanità sofferente. In “Le tamerici danzano” il poeta mette in luce la simbiosi tra onda e sasso: “la fisionomia dell’onda / è un foglio che si apre e accartoccia / simbiotico è il legame col sasso”. Ancora dolore in “Quel lenzuolo di polvere”, ai terremotati del centro Italia: “mai si può credere di poter ritrovare / i cumuli di sensazioni nelle nebulose / ora che dagli attimi dilaniati / … si è alzata una fitta polvere” Una lirica assai coinvolgente e tragica è quella dedicata a Reyhaneh Jabarri, ventiseienne impiccata con l’accusa di tentato omicidio nei confronti del suo stupratore nell’ottobre del 2014. Il titolo è “Sezione 98 del cimitero Behesht-e Zahra”: “un cappio giallo di dolore e / l’oblio indotto dell’ossigeno / han decretato la tua fine / … ma tu dormi sicura”. Per il poeta la morte non esiste, anzi la vita dopo la morte è la consolazione a un mondo che non ha saputo essere giusto. Nell’oltre la riparazione al torto subito in vita: “una condanna alla pena / d’essere donna nel mondo”. Nuovamente ritorna uno dei temi cari al poeta, la vicinanza alla condizione femminile che in altre regioni non trova equiparazione di genere con gli uomini. Anche questo, insieme alla difesa degli ultimi, dei poveri, dei derelitti e diseredati, è un tema ricorrente nella poetica di Lorenzo Spurio. La serie dei crimini perpetrati dall’uomo prosegue senza sosta nella silloge, dove si fa strada la Pareidolia già nella lirica “Humus negato”: “dell’indolenza che cresce / non chiedere l’evidenza /… se la sera non traspare”. Ci sono riferimenti a Federico García Lorca nella lirica “L’urlo più alto è tagliente (Adela)”. La poesia è ispirata al personaggio di Adela in La casa di Bernarda Alba di Lorca: “giungeranno mille villici, ubriachi e sbandati / a pretendere le verdi carni delle due figlie, caste / e vergognose-imeni ispessiti dagli anni”.

Nella terza sezione della silloge dal titolo “dedicatio” (dal termine latino che tradotto vuol dire dedica) sono presenti latinismi come nel titolo della poesia “Ausculti il tempo che precede”: “quando il giorno è tinto di notte / la campana assiste / agli accadimenti più crudeli”. Una lirica di questa sezione è dedicata a Federico García Lorca nel 79º anniversario della morte. È intitolata “Nella magnolia”. Qui una serie di “non e ma” intercala le strofe, riferendo con acume e forte senso di accoratezza, la discrepanza tra il cuore indurito e crudele dell’uomo nemico dell’uomo, e il cuore dolce, accogliente e solidale, partecipe del dolore della terra, amica, benigna, materna e consolatrice: “non il lezzo pesto dell’asfissia / ma dell’acerbo nettare / neppure l’oltraggio del trascinio / ma le carezze ricambiate dai nardi”. Nello svolgimento delle liriche, nel loro avvicendarsi, l’autore nella trama dei versi adagia alcune dediche come “La nutria non sa”, ad Antonia Pozzi; “Radici immense”, a Gian Mario Maulo; “Saturazione”, ad Alfonsina Stormi; “Cactus e carioca”, a Julio Monteiro Martins. Ecco il motivo del titolo di questa sezione “dedicatio”. Una dedica per ognuno, nel ricordo della loro sosta su questa terra, della loro permanenza dolorosa, ma proficua.

E siamo giunti, così procedendo nel nostro cammino critico, all’ultima sezione della silloge intitolata “pareidolia”, indossando il lutto della compartecipe considerazione all’amara condizione umana, che investe la natura dell’uomo nella sua duplice versione di vittima e carnefice, e la natura della natura, che sembra un gioco di parole, ma non lo è affatto, natura che per Spurio si distacca alquanto dalla visione leopardiana di natura matrigna, almeno dal secondo Leopardi. Per Lorenzo Spurio la natura comprende l’uomo e la sua stessa natura, lo contiene in quanto madre, ed è pronta ad accoglierlo e consolarlo, ma anche a riconoscere gli errori di alcuni suoi figli. La sezione dal titolo “Pareidolia” s’apre con un versetto biblico che parla di Gesù (Giovanni 21,4) che, fatto giorno, si presenta ai suoi discepoli ed essi non lo riconobbero. E anche con una massima di Fedro «non sempre le cose sono come sembrano, il loro primo aspetto inganna molti». Una delle liriche di questa sezione, dall’omonimo titolo del libro, è anche il titolo di questa sezione intitolata “Pareidolia”, succo del pensiero sagace e di qualità alquanto brillante del nostro poeta, che a nostro personale giudizio, si distingue nel panorama poetico per grande umanità, e sensibilissimo modus di sentire l’intorno del mondo, e l’interno dell’uomo. Una super coscienza e anima nobilissima, che soltanto alcuni a questo mondo possiedono, e sanno utilizzare per la crescita non solo particolareggiata e singola, ma anche per la crescita verso gli altri uomini in spiritualità a livello interiore: “io cercavo di afferrare / una forma, creare una geometria / con angoli flosci e rette svanite / ma il bonario abete che danza / ora veleggia in un mare afflitto”. La “pareidolia” compare nelle liriche come “Circonvoluzioni che non vedi”: “esiste pure la terra che non sai / se ti affacci e scalzi la polvere”; “Sembianze del poeta”: “il poeta è un incauto inclemente / perché spazia tra scaglie di vita / inzuppato da velleità arrugginite dalle ore”; “Punte”: “c’era del vero nella spuma / che ritrae e inargenta la battigia / in un oscuro giorno d’ottobre”: “Devi dirmi”: “devi dirmi, quando parli alle nuvole, se loro ti hanno mai risposto”; “E tuttavia”: “mi raccomando al vento / ipocrita serra l’angoscia / e imperla di bronzo l’aria”; “Nel traffico di oggi” in questa lirica c’è una citazione di Joyce Lussu che vale la pena ricordare “La poesia è una bugia che sembra più vera del vero”: “anche nel traffico insolente / d’una giornata d’aria crudele / che ha vinto l’idea di sperare”. E concludiamo la bella silloge con la lirica “Tu cresci troppo” dedicata a un fico settembrino, nel terzo anno di età: “Tu cresci troppo / nel vento che fende / ti rialzi gaudioso / tu hai la saggezza / di chi vede tutto e tace / tu lo sai che muori per finta / e risorgi nella gemma”.

La silloge vuole chiaramente essere un messaggio dell’uomo per l’uomo. Un messaggio di speranza tra le brutture del mondo, la consapevolezza che alcuni uomini hanno dentro di sé la radice del male, figli della Terra nati malati e cresciuti senza cuore, che per malignità innata, o per cattiveria assorbita dal dolore vissuto, si accaniscono verso i fratelli con efferatezza, senza un briciolo di pietà e amore. L’autore lancia un grido dall’Io singolo, dal proprio Io, al mondo per farlo rinsavire e salvare se stesso e la natura, per ritrovare la bellezza dentro di sé e nel mondo. Riconoscere e crescere dai propri orrori ed errori.

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