Maria Nivea Zagarella recensisce "Oltre il sopravvivere" di Tommaso Romano (CulturelitEdizioni)
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- Category: Scritture
- Creato: 30 Maggio 2020
- Scritto da Redazione Culturelite
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Il romanzo breve di Tommaso Romano Oltre il sopravvivere (2019), pregevole per raffinatezza di forma e equilibrio di stile, ricostruisce, quanto al contenuto, una storia d’amore “incompiuta” entro lo spaccato di una contemporaneità sfiorata ma significante. Voce narrante Alessandro, amico del protagonista Marco, burocrate di successo, del quale tassello dopo tassello, a suicidio avvenuto, Alessandro interroga personalità, pensieri, scelte, ricordi, eredità (poesie, lettera-testamento spirituale) in una sorta di bilancio di esperienza che, nonostante la lunga e vecchia amicizia sin dagli anni universitari, lo vede non meno colpevole degli altri verso lo sfortunato amico-fratello. Confesserà infatti alla fine la sua fatale tragica sottovalutazione del travaglio di Marco, di cui aveva compreso poco o nulla. In realtà Marco e Alessandro sono assai vicini per curiosità intellettuale (vedi le molte citazioni letterarie e specialistiche) e speculari l’uno all’altro, con un più di ragionevolezza e senso pratico Alessandro, un più (anzi un eccesso) di cultura, sensibilità, tormento esistenziale, “aristocratico” individualismo siglato di ironia Marco. Quest’ultimo ha alle spalle un matrimonio fallito per i disturbi nevrotici e compulsivi della moglie dalla quale è separato, ma che continua a trattare come un’amica-sorella. Mostra inoltre una complessità di vita interiore che lo fa essere onesto, zelante, quasi geniale nel suo lavoro di alto funzionario dell’amministrazione regionale e in quello di consulente finanziario privato, ma anche onnivoro di libri e autori fondamentali, e di esperienze spirituali diverse, oltre che esperto collezionista d’arte e cultore di musica (la passione fra l’altro per Pessoa cantato da Deidda), e con un bagaglio di storie sentimentali e sessuali di diversa caratura (Melania, Claudia, Maria Giovanna, Anna Maria), prima del fatale incontro/scossa con Maria Selene, che ne evidenziano la fragilità intima, l’indecisione costituzionale, il bisogno di comprensione e di amore, la dipendenza esistenziale dal mito della donna come bellezza, idealità, felicità, erotismo. Mito quale si intravede nel flash che illumina di passaggio la figura della misteriosa amica svizzera Irene con cui “conversava” a distanza e che magnificava come donna unica, irripetibile e irraggiungibile, e quale si incarnerà poi distruttivamente per lui, dopo l’iniziale forte spinta di energia nuova, nella scoperta/rivelazione dell’“altra”, insospettata, Maria Selene. Una personalità scissa quella di Marco, fra sussiegoso orgoglio/limiti del lavoro burocratico/finanziario e i vasti interessi culturali; fra peso dei ricordi privati e fastidio delle incombenze pubbliche (inaugurazioni, manifestazioni ufficiali) subite -sottolinea il narratore- come maschera del dovere e di cui Marco (alla pari dell’amico Alessandro) conosce tutte le ipocrisie, i convenevoli formali e l’interessato affollarsi di pseudo potenti, impotenti, questuanti; fra bisogno di autenticità e umana condivisione e piccole invece e insufficienti soddisfazioni del gruppetto di amici, la comunità conviviale, ripetitiva nei rituali di cene, aperitivi, raduni in casa, sabati culturalmondani e culinariamente ricercati e goderecci. Gruppo di amici di cui fa parte pure Maria Selene, sebbene saltuariamente presente agli incontri e sempre alquanto defilata, e collega da anni di Marco (e Alessandro) perché dirigente generale dell’assessorato Sanità, e da anni giudicata da Marco una stronza snob e indigeribile nei rapporti e nelle riunioni di lavoro. Ma tutto questo fino a un fatidico aperitivo di un mezzogiorno di febbraio in occasione di una fiera campionaria internazionale, aperitivo nel corso del quale, chiacchierando per poco più di un’ora e gustando prosecco, Maria Selene si rivela improvvisamente a Marco come un’inedita e straordinaria donna, anzi una perla, una bella persona (sic!) con tante affinità, interessi, letture in comune con lui. E come fulminato sulla via di Damasco il protagonista ne decanterà all’amico Alessandro in una cena-confessione, in un monologo assediante e simile a un fiume in piena, tutta la splendida magnificenza, la bellezza, il fascino, l’erotismo. Singolari le somiglianze, fra valenza simbolica e premonizione, riscontrabili tra l’aspetto fisico di Maria Selene (che è divorziata e con un figlio ventenne) dal corpo molto femminile ma diafano, dalla pelle bianchissima, labbra morbide e sensuali, capelli con morbide mèches sempre curatissimi, occhi neri, grandi, velati da una sorta di ferma malinconia stizzita e, tuttavia, bellissimi, e la descrizione che Marco farà nella lettera-testamento lasciata ad Alessandro tramite il notaio Anna Maria (ex amante e amica del protagonista) della divinità greco-romana Selene: la titanide, la risplendente, una bella donna con il viso pallido, bianche vesti fluide o argentate (sic!), così innamorata del mortale Endimione da sottrarlo alla morte fisico-corporale grazie a un sonno eterno che permetteva a lei di andarlo a trovare ogni notte e a lui, che dormiva con gli occhi aperti, di rivederla. Un mito in cui -come si vede- la spasmodica tensione vitale e ideale e il bisogno d’amore incontrano la morte come liberazione dalle strettoie dei limiti umani. Perciò l’amore respinto di Marco, il negarsi di Maria Selene, la relazione fra loro mai veramente iniziata, perché tale non possono dirsi i pochi e indimenticabili abbandoni di lei abbracciati nel vento, la testa sconsolata [di lei] sul petto [di lui]… le mani che hanno stretto [le mani] come in un amplesso, prima della fuga definitiva dell’amata, che non faceva che rimandare incontri e inviti senza però mai chiudere lo strano rapporto, fanno inesorabilmente maturare per delusione e stanchezza il suicidio. Scriveva Pavese (autore con il quale Marco si identifica) ne Il mestiere di vivere (1946) che tutto il problema di vivere è questo: come rompere la solitudine, come comunicare con gli altri, e altrove si chiedeva: vale la pena essere solo, per essere sempre più solo? Un difetto/assenza di vera comunicazione fra gli individui, nel diffuso vuoto sociale e pena di vivere e piattezza comportamentale precedentemente rilevati, pare essere la costante di fondo del romanzo e delle poche, ma emblematiche vicende evocate dal narratore. Difetto/assenza di “comunicazione” con il gruppetto abitudinario di amici, se Alessandro, riflettendo su tutta l’infelice storia di Marco, e soprattutto sugli ultimi due lunghissimi e brevissimi anni (messaggi persi nell’oceano del web, il più delle volte monologhi amari, senza risposte), conclude che Marco era morto per la dissipazione dell’amicizia in ripetitivi schemi preordinati, e che erano tutti responsabili della sua morte, perché consapevoli che aveva voluto lasciare questo mondo che detestava per mancanza di profondità e amore gratuito, pienamente cosciente di ciò che poteva essere, e forse mai era stato l’abbandono di sé all’altra, l’unione di intenti, il condividere passioni, interessi, nutrire reciproca compassione (sic!). Con l’unico amico di sempre Alessandro, che tuttavia, come tutti gli altri, non ha mai saputo delle poesie scritte in segreto da Marco (unico documento -le definisce il protagonista nella lettera-testamento- al quale ho creduto e credo, l’unica fonte perenne del mio essere e del mio confortarmi). Un Alessandro che dopo avere con realistica (presuntuosa) logica consigliato a Marco di smettere di baloccarsi, sognare, “sfinirsi” come un adolescente appresso alla renitente Maria Selene, si è lasciato facilmente deviare da tutte le bugie dell’amico circa la sua guarigione dalla voglia di conquistare l’amata, e il suo conseguente appagarsi di avventurette sessuali (la volgare, complice allusione al “consumare arancine”), finendo col trascurare e lasciare in balia di se stesso e dei tranquillanti Marco che veniva invece lucidamente e meditativamente covando il suicidio per liberazione delle tirannie del mondo e dell’amore che non aveva saputo comunicare a Maria Selene e che (con sempre più sottile distinguo psicologico) lei stessa non aveva potuto o soprattutto voluto concedergli come realizzazione, condivisione e sfida alle convenzioni. Con le varie donne amate e perdute, anche per loro confessato errore (Maria Giovanna, Anna Maria), e con la stessa Maria Selene che pur infiammata in silenzio di passione, come l’innamorato Marco aveva giustamente intuito, non ha voluto cedergli, perché -come spiegherà la donna ad Alessandro- non aveva sentito in Marco un “coinvolgimento definitivo”: lei voleva un compagno, non un uomo diviso fra dovere e piacere. Tutti un po’ naufraghi dunque i personaggi maggiori e minori di questo intenso romanzo di Tommaso Romano, tutti più o meno delusi del loro “stanco“ sopravvivere, dal quale invece con la morte consapevolmente assunta Marco si è riscattato, quasi ad aprire una strada. Quella di una intimità/dialogo fra i singoli più alta, attraverso le sue poesie (e perciò la Poesia), sacro deposito fra le pietre vive dei libri che pure solitari ci e si parlano; attraverso il ricordo/dolore/espiazione di Maria Selene (Marco mi ha dato in pegno la sua vita… Non so se saprò esserne degna, all’altezza); attraverso l’implicito messaggio consegnato all’”amico” Alessandro, testimone un po’ distratto, di non farsi più per gli altri padre putativo giudicante, ma fratello elettivo, con un uso appunto, nelle relazioni interpersonali, più fraterno e aperto del libero arbitrio umano. La forma asseconda con fluida, naturale, eleganza il memoriale continuato di Alessandro, quasi sussurrato a se stesso, e anche gli interventi conclusivi di Anna Maria e di Maria Selene, centellinati dal cuore, hanno il sapore di un dialogo in extremis riscoperto.