Mario Inglese, "Scrivere la Sicilia" (Ed. Metauro) - di Guglielmo Peralta

Consolo, Bufalino, Camilleri, Agnello Hornby, Vasta, De Vita: sei scrittori diversi e tuttavia legati insieme dallo “sguardo multiplo sulla Sicilia”: titolo riferito a Consolo, ai molteplici punti di vista di cui consiste la sua narrazione e al plurilinguismo, ma trasferibile anche agli altri e che fa il paio col titolo generale del libro, Scrivere la Sicilia, di Mario Inglese, che r-accoglie complessivamente sette saggi sugli autori citati. Questo “sguardo” sull’Isola “rivela” subito, in apertura, il loro tema comune e ne motiva e “giustifica” la scrittura, anche di Mario Inglese, il quale non si limita solo a prendere in esame i suddetti scrittori, ma “indaga” sulla letteratura siciliana in generale e sul profondo legame che essi intrattengono con gli autori conterranei “maggiori”, per cui si realizza «l’interazione tra presente e passato». E non solo. A questa terra “magica”, caleidoscopica, hanno guardato con incantamento re e imperatori, pittori, poeti e viaggiatori stranieri che l’hanno elogiata e raccontata testimoniandone gli usi, i costumi, la cultura, la magnificenza dei luoghi firmando frasi memorabili, che riempiono di orgoglio chi sente di essere, visceralmente, figlio di questa “Madreterra di Uomini e Dei”, come recita l’inno ufficiale della Regione Siciliana composto da Vincenzo Spampinato. Fin dal primo capitolo, dedicato a Consolo, Inglese dichiara il legame tra la scrittura e lo sguardo, orientato, quest’ultimo, «sulla realtà, anche la più cruda e disarmante» e in connubio con «una fiducia incrollabile nei valori della cultura». Questo spirito “anfibio” anima le opere degli scrittori siciliani di tutti i tempi, di tutte le epoche storiche e letterarie, sostenitori, come affermava Leonardo Sciascia, di una Sicilia “fantastica” che sollecita l’“immaginazione”, senza la quale è difficile, o addirittura impossibile, “viverci” e, al tempo stesso, di un’isola reale che, per Edmonde Charles Roux, “nel bene e nel male è l’Italia al superlativo”.  E molto stretto è il rapporto tra la realtà e la letteratura, al punto che Antonio Di Grado ha potuto concepire un’“isola di carta” contrapponendola e relazionandola alla Sicilia autentica e terragna, che ispira e caratterizza la scrittura dei siciliani, sia pure con le inevitabili differenze dovute, ad esempio, all’uso della lingua, alla sua elaborazione, come in Consolo, la cui ricerca linguistica «costituisce una delle cifre più originali della sua produzione», dove la lingua si dispiega in molteplici e stratificati «piani d’indagine» ed è strumento di scavo archeo-antropologico che, con la complicità dello sguardo acuto, inquisitore, tende a scoprire, al di sotto della superficie reale, territoriale, i sedimenti di un paesaggio antropizzato, modificato dagli interventi dell’uomo, nonché «lo stretto rapporto tra le stratificazioni storico-culturali  e quelle  di natura più strettamente letteraria e testuale». Riguardo a tanta complessità Bufalino parla «dell’esistenza non di una Sicilia ma di tante Sicilie»[1]. Al di là delle differenze tra gli scrittori indagati da Inglese, tutti sono accomunati e investiti di mediterraneità: “divisa” che distingue «ogni siciliano […] ogni angolo del paesaggio e delle sue vestigia» e che è al centro della loro riflessione, come rileva l’autore anche dall’osservazione di scrittori e filosofi quali Lollini, Cacciari, Lévinas, i quali sottolineano l’importanza del Mediterraneo, teatro di guerre ma anche di miti e di viaggi costruttivi alla ricerca «del senso dell’umano». Consolo, fa osservare Mario Inglese, ridimensiona l’affermazione di Bufalino che divide la Sicilia in «due macro-aree: quella orientale e quella occidentale», distinguendo, rispettivamente, «due anime del popolo siciliano»: l’una, più lirica, passionale, mitica, in cui fa rientrare scrittori e poeti come Verga, De Roberto, Quasimodo; l’altra, incarnata da Pirandello, Sciascia, Tomasi di Lampedusa. Ovviamente, l’elenco degli scrittori potrebbe proseguire ed è molto lungo. E molto ancora ci sarebbe da riportare qui su Consolo, del quale Inglese dà un’ampia trattazione, come, del resto, degli altri autori, tutti sapientemente approfonditi nei loro vari aspetti, nei loro percorsi culturali, letterari, antropologici, esistenziali. Un viaggio dentro i loro libri e, attraverso questi, dentro la loro anima è questa raccolta di saggi, una navigazione che tocca tante “isole”, un “arcipelago” di spiriti illustri: figli di una Terra, dove hanno mantenuto salde le loro radici anche coloro che hanno dovuto lasciarla «facendo fronte al senso di isolamento», a quel sentimento nostalgico - vissuto spesso come un difficile se non impossibile ritorno - denominato efficacemente sicilitudine[2]: termine che possiamo considerare alternativo al nóstos e alla sehnsucht ma con una valenza negativa in più, esprimendo, oltre alla dolorosa nostalgia e alla brama del ritorno alla terra natìa, un’intensa e profonda solitudine. Certo, il termine ‘narra’ di un sentimento non universale, essendo riferito e limitato all’area regionale, ma non è dissimile per intensità e struggimento al termine greco e a quello tedesco, che include più significati, tra i quali: il costante anelito verso qualcosa o qualcuno e il concetto originario, teorizzato da Heidegger, di nostalgia come “il dolore della vicinanza del lontano”, nonché come ricerca inesausta dell’irraggiungibile e, dunque, come dipendenza dal desiderio, quale l’intendeva Novalis. C’è da aggiungere, per quanto riguarda il nóstos, che, come ad esempio in Consolo, il ritorno non sempre è un approdo felice che ripaga da tanta attesa, da tanta solitudine e nostalgia, perché, nel frattempo, l’isola, le sue città sono diventate «luoghi di distruzione e violenza». Tanto degrado alimenta il pessimismo di Consolo, che ritiene «sempre più difficile o del tutto impossibile un riscatto». La scrittura, allora, diventa per lui “una lotta non solo con la realtà, ma con me stesso. Ma scrivere è la mia vocazione, il mio mestiere”, sì che, osserva giustamente Inglese, «In Consolo la tensione etica della scrittura non è mai disgiunta da una forte coscienza estetica», e la prosa si fa, a tratti, poetica e perciò più ricca.

 

Il concetto di sicilitudine è presente in Bufalino ed è strettamente legato a un altro sguardo, quello della memoria, del tempo trascorso, che si traduce in una narrazione autobiografica, iniziata nella tarda età, la quale «si tinge di un alone di ricostruzione memoriale dove le rievocazioni di luoghi e momenti storici della terra di origine si fondono in una dimensione di sogno che assume i valori del simbolo e della metafora». Ed è in questa dimensione “onirico-simbolica” che la scrittura di Bufalino si fa autofinzionale. L’indagine di Inglese si focalizza su questo aspetto fondamentale che attraversa l’intero corpus delle opere dell’autore comisano, dove la commistione di realtà e finzione è così marcata da non lasciare distinguere facilmente tra memoria autobiografica e invenzione, tra verità e menzogna, tra identità e differenza. In questo universo autofinzionale, l’autore sembra manipolare la propria identità creando degli alter ego e, dunque, apparendo egli stesso come il protagonista delle vicende narrate: un’apparizione che è gioco tra sogno e realtà, il cui esito è una parvenza di vita, sì che - sottolinea Inglese - «Per Bufalino il racconto di una vita, a metà strada tra vicenda autobiografica e finzione romanzesca, appare triste e miracoloso allo stesso tempo». Il miracolo è la scrittura, alla quale Bufalino si affida riconoscendole il potere di recuperare il tempo perduto, ma anche di rivelare a sé stesso e al lettore quanto d’inconscio c’è nel racconto autobiografico. Perché scrivere di sé, della propria vita, ammantandola del sogno, è lasciarsi parlare dal linguaggio. Tuttavia, osserva ancora Mario Inglese, «il senso profondo» della scrittura di Bufalino va cercato nell’intreccio tra autofinzione e sicilitudine che, a sua volta, trova giustificazione nel legame tra l’autobiografia e la Sicilia, terra di metafore e metafora essa stessa. Al punto che il Comisano afferma che è “impossibile per uno scrittore siciliano non scrivere della Sicilia”. Perché i siciliani, egli dice, sono “isole dentro l’isola: questo è appunto lo stemma della nostra solitudine, che vorrei con vocabolo inesistente definire “isolitudine”.[3] E ancora: “ogni siciliano  è una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto  e di luce”. Questo ossimoro, nota Inglese, è anche il titolo «di un libro  di ‘cose siciliane’ (o sicilianerie), La luce e il lutto»,  che da solo narra l’abbondanza delle immagini di morte che dominano la scrittura bufaliniana, che si tinge di «un barocco gusto mortuario», e che, sottolinea Inglese, «sono sovente giustapposte all’arsura dell’estate siciliana», la quale, possiamo aggiungere, diventa una sorta di correlativo oggettivo della morte. Questa correlazione è esplicita nelle seguenti  affermazioni tratte da Calende greche e riportate da Inglese: “Nulla v’è, come la canicola nell’isola, che in quest’ora insegni meglio, non dico agli uomini e agli animali, ma alle stesse pietre, lo spavento”, e ancora: “La Sicilia è un pesce morto, un cadavere in salamoia, che le correnti assediano d’alghe, che lo scirocco consuma”; e più avanti: “La Sicilia è una Medusa che impietra; ma anche una Materdolorosa, trafitta da sette pugnali di fuoco”. Una tale espressività, iconografica, colorita di cruda ironia, ma anche di “destrezza e ilarità d’un funambolo”, qualità, quest’ultime, che lo stesso autore attribuisce alla scrittura, ha - rileva Inglese - un accento di teatralità che rimanda alla gestualità: caratteristica tipica dei siciliani, senza la quale – sostiene Sciascia – “è impossibile intravedere vizi, virtù e passioni”. «Un chiaro gusto teatrale» - osserva ancora Inglese - rende rappresentativa la scrittura autofinzionale del Comisano, che si dipana attraverso un’architettura lessicale «ricca di allusioni, citazioni, associazioni foniche e semantiche», ma anche di «riferimenti intertestuali di carattere letterario ma anche antropologico, popolare». L’indagine di Mario Inglese non trascura «le ragioni della scrittura di Bufalino». Focalizzata sull’autofiction, essa sembra «elaborare da sola la materia narrativa […] seguendo un procedimento accostabile alla tecnica musicale della variazione a partire da uno o più temi conduttori». Quanto alla mescidanza di realtà e finzione, di vita vissuta e vita immaginata, essa è una «costante della narrativa dello scrittore di Comiso», ma anche una caratteristica della letteratura, della quale sembra che gli scrittori non possano fare a meno e che abbonda negli altri autori trattati da Inglese.

 

In Andrea Camilleri, il dato fantastico si colora di ‘giallo’ nella lunga serie dei romanzi che hanno come protagonista il commissario Salvo Montalbano e in cui «i critici hanno identificato una componente civile», già presente nei romanzi storici. La Sicilia, come hanno osservato diversi autori, è la vera protagonista di tutti i suoi romanzi, per cui non manca l’elemento nostalgico, anche se in Camilleri l’aspetto memoriale prevale sul dato autobiografico tendente a ricostruire un’identità e, dunque, un futuro, come è stato rilevato nei due autori precedenti. In Il cane di terracotta, Il ladro di merendine, Il giro di boa, presi in esame da Inglese, accanto ai numerosi riferimenti culturali sono presenti il tema «dell’immigrazione illegale verso l’Italia e l’Europa attraverso la Sicilia che fa da ponte, i rapporti tra la popolazione di origine araba e quella siciliana, i rapporti interculturali, trame che si snodano tra passato e presente, tra cronaca e storia, tra storia e mito, piani narrativi concatenati a scatole cinesi», il tutto reso con una forte componente sincretica e ibridismo linguistico e compenetrato dalla «dicotomia eros/thanatos, impiegata da Camilleri ripetutamente in tutta la sua opera».

Altra indagine di Inglese su Camilleri è sui «rapporti tra giornalismo e letteratura e sull’impegno civile che lo ha sempre caratterizzato». Dalla politica e dalla cronaca quotidiana egli ha tratto spunto per alcuni titoli e racconti brevi, in cui la Sicilia è «un luogo di contraddizioni, frequenti episodi di violenza, sotterfugi, trasformismi politici, furberie di infinita natura […] quel complesso fenomeno criminoso che si chiama mafia osservato e studiato da Camilleri con raro acume». Forte è la sua disapprovazione nei confronti della mafia che osteggia la cultura e contro i luttuosi, tragici eventi da essa commessi e inoltre egli denuncia l’abbandono del cittadino da parte dello Stato e prende anche posizione contro i suicidi per amore affermando che “gli uomini superano di gran lunga le donne” e che perciò “il vero sesso forte è quello femminile”. Infine, altro aspetto interessante e caratteristico, sottolineato da Inglese, è l’uso di una lingua che non disdegna la commistione col dialetto e per cui la scrittura di Camilleri si tinge di una particolare vivacità espressiva, pittoresca: una cifra stilistica che privilegia il dialetto senza il quale, egli dice, “la lingua parlata e scritta risulta pericolosamente dimezzata, indebolita”.

 

Le donne, che Camilleri considera “il vero sesso forte”, sono protagoniste nei romanzi di Simonetta Agnello Hornby, palermitana residente a Londra dal 1972. Mario Inglese mette subito in luce le protagoniste femminili, che danno voce alle loro «rivendicazioni di giustizia, di ‘risarcimento’, al desiderio di empowerment nei confronti di ogni forma di condizionamento o subalternità». La Sicilia è eletta dalla Hornby a «teatro delle sue storie» e fa da scenario alla conquista, da parte delle donne, della consapevolezza di sé, delle scelte, delle decisioni e azioni da intraprendere per il loro riscatto sociale, per cambiare la loro vita, per il loro processo di crescita, per acquistare potere e autodeterminazione. La ‘superiorità’ delle donne rispetto al sesso maschile, è apertamente dichiarata nel romanzo Punto pieno da «uno dei rappresentanti della famiglia» Sorci, il quale afferma: “Le donne della nostra famiglia mi sembrano migliori degli uomini”. Come Bufalino, anche la Hornby usa «diversi registri linguistici, che si adattano ai personaggi e al loro retroterra culturale e sociale e una scenografica teatralità». Dato non trascurabile è nei suoi romanzi la presenza dell’aristocrazia isolana, decadente e corrotta. In La zia marchesa, che costituisce insieme con La Mennulara e Boccamurata la trilogia, presa in esame da Inglese, la famiglia Safamita ricorda gli Uzeda del romanzo I vicerè di Federico De Roberto, della cui ammirazione la stessa scrittrice «non ha fatto mistero». D’altra parte, una grande influenza esercitano su di lei «il romanzo storico e di ambiente locale» che trovano la loro espressione soprattutto in Verga e in De Roberto, massimi esponenti del Verismo. In La Mennulara, la serva «Rosalia sembra capovolgere le aspettative dell’ordine costituito», affermando che i padroni le sono inferiori. In sostanza, come sottolinea Inglese, «Le protagoniste femminili di Agnello Hornby sono personaggi dinamici, si evolvono, risalgono, di fatto, anche se non sempre formalmente, la scala sociale», fino a «morire per felicità», come accade a Maria nel romanzo Caffè amaro e a Costanza in La zia marchesa. Echi verghiani, marainiani, bufaliniani si ritrovano là dove sono presenti «figure subalterne» che costituiscono «tutto un universo di personaggi umili, specialmente donne del popolo»; dove la stessa scrittrice dichiara la presenza della “lotta per la roba, la sensualità di uomini e donne” e dove sono frequenti i proverbi siciliani, che per la  Hornby “sono acuti, amari, ironici, ma anche soavi e delicati”, perché per lei il dialetto è “la lingua della tenerezza, della rabbia e della saggezza, una lingua intima e domestica”. Non sfugge a Mario Inglese, attento lettore dell’autrice, come, del resto, degli altri scrittori che fanno parte di questa raccolta di saggi, il grande amore che la Hornby nutre per la sua terra e per la bellezza che la contraddistingue e quanto ella sia orgogliosa di esserne figlia, legata alle proprie origini; un amore che la sua condizione di espatriata probabilmente accentua, come rileva il nostro poeta e saggista. È la città di Palermo, in particolare, a suscitare per la sua bellezza, tanto amore che ella riversa «nelle dettagliate descrizioni disseminate in tutti i romanzi». Infine, altro aspetto interessante e caratterizzante la scrittura dell’autrice è l’umorismo, alla maniera quasi di Camilleri.

 

Altro scrittore, preso in esame da Mario Inglese, è Giorgio Vasta, palermitano, che ha vissuto per molti anni a Torino, ma che ha ambientato a Palermo le vicende narrate in Il tempo materiale e Spaesamento. In questo secondo romanzo la città siciliana, che fa da scenario agli avvenimenti, è un campione rappresentativo «dell’intera società nazionale». L’autore denuncia «la situazione di stallo umano, di letargo sociale, a cui è condannata non solo l’asfittica città ma l’Italia intera», teatro di violenze, del terrore seminato dalle Brigate Rosse negli anni definiti di piombo iniziati col sequestro di Aldo Moro nel 1978, e in cui si svolge la storia di tre ragazzini palermitani, undicenni, che sulla scia di tanta violenza organizzano il rapimento di un loro compagno, che finirà per essere ucciso. Questo cruento delitto, concepito e attuato da menti così giovanissime, può leggersi come un espediente narrativo, un ‘pre-testo’ (in questo caso, un vero e proprio evento) introdotto dall’autore con lo scopo di indagare la psiche umana, di esplorare il sottosuolo, «il mistero della potenza della mente» e di argomentare sulle cause scatenanti certa follia omicida. Il racconto di tanta efferatezza, dunque, «assume implicazioni più ampie, persino ‘cosmiche’», come nota Inglese, nel senso che le menti, ovvero, «i crani rasati dei ragazzini» sono metafora dell’irrazionalità, della “instabilità emotiva, del collasso del pensiero”, di cui soffre l’intera umanità. Lo stile di Vasta è fortemente analogico e metaforico, il linguaggio aderisce al caos del mondo, è pervaso e dominato dalla «violenza delle immagini», soprattutto in Il tempo materiale, dove la città di «Palermo è connotata da emblemi di sfacelo e di morte» come nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, sì che il linguaggio sembra esso stesso «infettato dal male». Di fronte a tanto marasma, a tanta devastazione della sensibilità e spiritualità umana, «allo scrittore non resta che invocare una speranza di salvezza», che egli ripone nella lingua, la quale «da sola, può nominare la realtà, rifondandola». Questa speranza nasce da due «percezioni prevalenti e opposte» dello scrittore nei confronti della città siciliana, che Inglese sottolinea traendole dalla prosa autobiografica Palermo: qui, altrove e cioè: “l’estasi davanti alla bellezza e l’indignazione al cospetto della fatiscenza”. Come nei romanzi, anche in queste pagine autobiografiche, Palermo è eletta «a luogo emblematico, metaforico, di vicende e destini che trascendono la dimensione locale». Ritroviamo in Vasta, soprattutto nel secondo romanzo, Spaesamento, la «malinconia», che però non è legata alla sicilitudine o alla memoria del tempo passato, come si è qui rilevato, attraverso la lettura del libro di Mario Inglese, nei precedenti scrittori, ma proprio alle «continue immagini di sfacelo e morte e ai simboli specificamente connessi al lutto», di fronte ai quali la ‘malinconia’ acquista una valenza positiva e può trasformarsi in «energia costruttiva».

 

L’ultimo capitolo di Scrivere la Sicilia è dedicato al poeta marsalese Nino De Vita, del quale Inglese indaga, soprattutto, l’uso del dialetto in relazione con la lingua italiana rilevando, al tempo stesso, lo stretto legame tra l’autobiografismo e la contrada di Cutusìo, e quanto questa abbia influito e sia presente nella sua opera poetica, la quale può definirsi un racconto in versi, in cui sembrano echeggiare le narrazioni dei miti e delle favole ascoltate da bambino. La natura è spesso presente nei suoi testi; è osservata ed esplorata con particolare attenzione ed espressa con un linguaggio “quasi da entomologo”, come rileva Salvatore Ferlita, citato da Inglese, il quale, a sua volta, coglie nei versi echi pascoliani e «certe analogie con Montale» e, al tempo stesso, una certa ‘petrosità’ e «un’atmosfera di calma, quasi da poesia orientale, da haiku», che, tuttavia, non cela «la sofferenza quotidiana […] Un universale destino di caducità che accomuna ogni creatura, persino le cose inanimate». Ma è sull’uso della lingua che Mario Inglese svolge un'attenta e accurata analisi e valutazione, individuando in essa «la ragion d’essere di un’operazione letteraria», come già in «Verga, D’arrigo, Consolo, Camilleri e altri ancora», ma a differenza dei quali De Vita non opera una commistione tra lingua e dialetto, fa di quest’ultimo uno «strumento naturale», una vera e propria lingua pura, alta, classica: «l’idioma del canto della poesia e del racconto», con il quale egli scava «nell’idioma dei suoi luoghi», della sua terra salvandola da «un linguaggio sempre più omologato, indistinguibile», contaminato, sì che l’impiego del dialetto è, come acutamente nota Inglese, «un’operazione ‘archeologica’», ma anche «gnoseologica, conoscitiva».  

 

Considerando che quello “sguardo multiplo sulla Sicilia”, di cui si è detto all’inizio, contraddistingue non solo la scrittura degli autori indagati dal nostro poeta e saggista, ma tutta la letteratura siciliana, concludiamo chiedendoci, in linea con l’affermazione di J. Cocteau: «noi non scriviamo, siamo scritti», se il titolo scelto da Inglese per questa raccolta di saggi: Scrivere la Sicilia, non si possa capovolgere in La Sicilia scrive: di sé e dei suoi affezionati poeti e narratori, Inglese compreso.

 

[1] Vi è una Sicilia "babba", cioè mite, fino a sembrare stupida; una Sicilia "sperta", cioè furba, dedita alle più utilitarie pratiche della violenza e della frode. Vi è una Sicilia pigra, una frenetica; una che si estenua nell'angoscia della roba, una che recita la vita come un copione di carnevale.  

[2] Il neologismo è del poeta Crescenzio Cane, coniato sulla scia della “négritude” di Senghor, ed è stato erroneamente attribuito a Leonardo Sciascia, che lo ha ripreso e divulgato. (nota del recensore)

[3] Bufalino si attribuisce la paternità del neologismo, coniato da Lucio Zinna nel 1980. Vedasi l’intervista a Zinna, Bagheria 10 / 11 / 2015 pubblicata sulla rivista NiedernGasse. (n.d.r.)

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