"Massimo Fazio, la scrittura dell’esistenza" di Marco Iacona

Nella Catania-Titanic resiste seguendo ed eseguendo piccole serenate diurne. Lui è Salvatore Massimo Fazio filosofo e non filo-mane, neanche cinquant’anni, libri alle e sulle spalle, bloghista tra i più influenti che memoria comprenda. Scrittore con amici e tifosi in ogni dove, dalla Catania (s)fascista alle mutevoli bastarderìe dello Stivale. Piemontesi o lombarde. Disponibile al dialogo nì, alla lettura e al commento sempre e comunque. Ottimista per l’altro da sé: a sentirlo pare che il Paese, misero e monotono, replichi la Francia picassiana e rimetta peculiarità e letterati, mille almeno ad ogni vicolo.

Nei luoghi in cui uomini, mani e piedi sulle rovine, fissano inutilità lui contempla opportunità. Un lavorante-imprenditore della parola scritta, pensata e pensabile. Uno stakanovista dell’emancipazione associativa di verbi, suoni e quant’altro. S’è fatto romanziere, adesso che in tanti scaffalano romanzi tra frollini e profumi (ma l’ha fatto di proposito) solo come artificio d’elezione per amori inattraenti. Fazio ha il coraggio del coraggio, di vivere la peggior città d’Italia incensantesi per usata abitudine, pronta a farsi, essa, luogo delle donne per un ultimo stadio prima del nulla.

Cento pagine per denudarsi delle proprie diffidenze e raccontarsi attraverso la voce di Paolo, personaggio pubblico, viaggiatore e performer inclassificabile angosciantesi a secondi alternati per la malattia del non optare, ancora, tra un “democratico” et – et e un discriminante aut – aut. La maschera junghiana lo vorrebbe gran negoziatore di idee, opinioni, di amori perfino, purtuttavia Paolo non sa scegliere tra una via e l’altra. E il mondo lì fuori pesa che è una bellezza.

Non che egli innamorato (o forse no?) di Adriana non sia Massimo e Massimo innamorato della carta da libro non sia Paolo, nondimeno la tentazione di annegare introspezioni in un percorso che dispone degli stilemi della contemporaneità, opera alla stregua di una soltanto verosimile confessione di varietà esistenziale. Si sa, i libri-verità o esercizi di confessione sono di gran lunga i meno fedeli e il finale rivela che se niente è impossibile anche niente allora è possibile e che i sogni danno freudianamente accesso a una dimensione esasperata. 

Paolo è volutamente sottilissima esistenza, ma non è nessun altro neppure se stesso. Mai essenza, perfino nelle scelte politiche che spaziano nell’area post-moderna della in-classificabilità tra una sinistra d’azione e una destra colta d’ispirazione massonica. Oggetto di un sentimento che è però soltanto verbo sull’amore, fredda dichiarazione di status, “scienza” dello star male. Eppure l’amore sa essere musica, dice Fazio. E poi c’è quel titolo, “Il tornello dei dileggi” (l’editore è Arkadia - Cagliari) che rimanda a un format forse volutamente nannimorettiano, nel quale, per il quale, tutto accade solo che in definitiva nulla è accaduto. Parole, ma sono parole più che sufficienti.

Fazio considera questo suo un «esperimento»; da saggista tenta di romanzare sentimenti che strizzano l’occhio a una praxis di consistenza umanistica ed è bravo a ritagliar-si una fettina di contemporaneità scansando la pena della violenza contro il lettore. Il rispetto del nostro autore per il silenzioso dialogante che è l’altro da sé pone quest’opera tra le più stimolanti negli ultimi periodi. Siamo letteralmente inondati di letteratura femminile traboccante allettanti fandonie e vanità di ritorno. L’esistenza dell’autore si indirizza dunque verso uno scrivere-dell’esistenza (o delle personalità) che non si attarda nella politica degli sconti; ovviamente in primo luogo rivolta agli avvertiti “se stesso”: Paolo, Massimo e forse compagnia conversante.   

  

 

 

 

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