Modernità e attualità del manifesto di Verona – di Ferdinando Bergamaschi
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- Creato: 02 Maggio 2025
- Scritto da Redazione Culturelite
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Era un pomeriggio di fine maggio del 1943 quando Tullio Cianetti, ministro delle Corporazioni, sindacalista di lungo corso e uomo di punta della sinistra fascista, venne ricevuto a Villa Torlonia da Mussolini. Al termine della lunga conversazione Cianetti disse a Mussolini: "Infine desidero prospettarvi qualcosa di più importante in merito agli sviluppi della politica sociale. In questi ultimi anni il Regime, per effetto della guerra, ha dovuto deviare da alcune linee maestre. La quasi carenza corporativa e l'enorme accrescimento dei complessi industriali hanno alterato, a danno dei lavoratori, un equilibrio che potrebbe compromettere l'attuazione definitiva del corporativismo. La sottrazione delle questioni economiche alle Corporazioni ha determinato il rafforzamento delle posizioni capitalistiche ed una tendenza verso i monopoli. Ricordo che qualche anno fa voi mi diceste che, finché vivrete, non sorgeranno complessi della entità della FIAT e della Montecatini; purtroppo quel pericolo che volevate scongiurare esiste e si potrebbe dire che è già in atto. Vi chiedo pertanto che si dia valore e sostanza ad un principio già enunciato e cioè: quando i complessi industriali superano un certo limite perdono il loro carattere privatistico ed assumono un aspetto pubblico e conseguentemente collettivo. Allora non c'è che un rimedio: stroncare la tendenza al monopolio e socializzare le aziende più importanti.".
Il duce, imperturbabile, chiede al suo ministro: "Voi pensate che siamo maturi per la socializzazione?": Cianetti risponde: "Penso che siamo in notevole ritardo, Duce. Avremo reazioni violente da parte di alcuni capitalisti, ma questi signori si devono convincere che oggi non si sfugge più.” Al che Mussolini rispose: "Sentite, Cianetti, nel 1937 voi mi presentaste uno studio sull'azionariato operaio e sulla partecipazione agli utili. Che ne pensate oggi?". Cianetti rispose: "Duce, nel 1937 l'azionariato operaio sarebbe stato un gesto ardito ed importante, oggi non più. L'azionariato troverà posto nel più vasto quadro della socializzazione." Il ministro delle Corporazioni sottopone, poi, al duce alcuni fogli sui quali aveva tracciato il progetto di legge sulla socializzazione. Mussolini lesse attentamente e poi disse: "Si. È importantissimo: potremmo presentarlo al Consiglio dei Ministri nel mese di ottobre”. Come tutti sanno il mese di ottobre sarà troppo tardi. La Corona, in accordo con Dino Grandi e con i circoli plutocratici, stava già tramando contro Mussolini e contro il suo progetto sulla socializzazione. Il 25 luglio sarà quindi servito (anche Cianetti, come è noto, aderirà ingenuamente all’ordine del giorno Grandi per poi ritirare l’indomani il suo voto quando capì quale sporco affare vi si nascondeva dietro). E il 25 luglio fu l’anticamera dell’8 settembre.
Ma facciamo un passo indietro. Dopo il delitto Matteotti e con il discorso del 3 gennaio Mussolini decise di tirare dritto e di farlo in senso autoritario. Venuto meno, dopo il delitto Matteotti appunto, il suo progetto di portare i socialisti al governo e di far governare fascisti e socialisti insieme, Mussolini fece la sua politica economico-sociale da solo, o meglio con l’unico appoggio degli ex sindacalisti rivoluzionari (ora fascisti), del socialista riformista Alberto Beneduce (che fu, fra l’altro, creatore dell’IRI e dell’IMI e principale artefice insieme a Mussolini della rivoluzionaria e modernissima entrata dello Stato nel sistema bancario e nella grande industria privata), e degli apparati burocratici statali. Quella del Ventennio fu una politica economico-sociale di stampo progressista ma di tipo gradualistico-riformistico e non poteva essere altrimenti dato il compromesso che vi era alla base. Ora, infine, il proletario di Predappio cercava disperatamente un soggetto a cui lasciare l’eredità per lo meno di questa sua politica economico-sociale, e lo individuò nel Partito Socialista e nel Partito Repubblicano, in quella parte di movimento partigiano, cioè, che, almeno a parole, si voleva rendere autonoma dal capitalismo angloamericano e dalla monarchia. Era chiaro, infatti, che dopo la svolta di Salerno voluta da Togliatti e la conseguente direzione filomonarchica e filoinglese del P.C.I. egli non poteva più rivolgersi ai comunisti. Ma qual era l’eredità economico-sociale che Mussolini voleva lasciare al Partito Socialista? Si trattava non solo della valorizzazione di quelle modernissime leggi sindacali che stavano alla base dello Stato sociale mussoliniano, del corporativismo fascista e della Carta del Lavoro del 1927, leggi che saranno alla base del moderno e odierno stato sociale a vocazione universalista il quale poi, sul modello italiano-mussoliniano, sarà tipicamente quello europeista; e neppure questa eredità si “limitava” ad essere il riconoscimento e il proseguimento di quelle politiche economico-sociali mussoliniane che potremmo forse definire, se ci si passano queste espressioni, un “keynesismo antelitteram”, un “keynesismo messo in pratica prima che l’economista inglese lo teorizzasse”, quelle politiche di intervento dello Stato, in talune circostanze, nell’economia privata; e, nel settore statale, con la realizzazione di numerose e imponenti opere pubbliche e la conseguente politica sociale di occupazione. Non si trattava solo di questo che già era senz’altro molto, e comunque rappresentava l’avanguardia a livello mondiale per quel che riguardava il campo economico-sociale..
Si andava ancora oltre; si passava, infatti, in campo economico-sociale, dalla “socialdemocrazia nazionale” del Regime al “socialismo nazionale” della Repubblica Sociale. Perno ed essenza del programma della Repubblica Sociale Italiana, infatti, è il Manifesto di Verona redatto dal ministro dell’Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini, dal ministro dell’Economia Corporativa Angelo Tarchi, dal ministro delle Finanze Domenico Pellegrini-Giampietro, dal Segretario del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini ma soprattutto da Nicola Bombacci e da Benito Mussolini, approvato dal Consiglio dei ministri il 17 novembre 1943 e divenuto legge con Decreto Legislativo il 12 febbraio 1944. Con esso Mussolini poteva finalmente gettare le sue “mine sociali” – come era uso chiamarle – nella Valle del Po. Il professor Giuseppe Parlato, nella sua prefazione al pregevole lavoro di Stefano Fabei I neri e i rossi, così commenta l’operazione mussoliniana delle mine sociali dando un’idea della loro valenza politica:
Un realista come Mussolini [...] parlò delle “mine sociali” con le quali disseminare le valli del Po, allo scopo evidente di farle scoppiare in un “dopo” i cui contorni sfuggivano ai più. [...]. Si trattava di un perfido “regalo” da offrire a chi avrebbe governato l’Italia dopo la fine della guerra e del fascismo: se fosse stato un governo socialista, allora il fascismo avrebbe potuto dire di avere ben seminato. Se fosse stato un governo conservatore, le mine sarebbero esplose coinvolgendo (così almeno si sperava) un popolo che dopo vent’anni di dittatura non avrebbe potuto rinunciare allo Stato sociale e alle avanzate riforme che il regime aveva costruito.
Nella sua “Corrispondenza repubblicana”, il vecchio socialista di Predappio dopo aver accusato il capitalismo e la monarchia di aver frenato la politica sociale del fascismo affermando che il fattore determinante del tradimento di Casa Savoia in connubio col grande capitalismo “è che essa [Casa Savoia] non ha esitato ad ignorare i sacrifici di tutto un popolo per sfuggire alla equa, umana ripartizione della ricchezza che avrebbe premiato i sacrifici del popolo stesso” aggiungeva che “la riforma sociale in atto, che troverà compiuta arma nelle nuove leggi, sarà la più alta realizzazione del fascismo: squisitamente umana e assolutamente italiana, riallacciantesi cioè alle secolari tradizioni del nostro umanesimo e del mazzinianesimo nella sua essenza spirituale e risolvendo in modo totale e definitivo le necessità e le aspirazioni delle classi lavoratrici”. Ma cosa prevedeva di così rivoluzionario il Manifesto di Verona? Erano 18 i punti di questo Manifesto e il più famoso e importante era il punto 12 - quello sulla socializzazione - che agiva come vero e proprio esplosivo: in quel punto si diceva:
in ogni azienda (industriale, privata, parastatale, statale) le rappresentanze dei tecnici e degli operai cooperano intimamente (attraverso una conoscenza diretta della gestione) all’equa fissazione dei salari, nonché all’equa ripartizione degli utili, tra il fondo di riserva, il frutto di capitale azionario e la partecipazione agli utili stessi.
Questo punto del Manifesto di Verona verrà poi chiaramente ripreso, benchè in versione moderata, dalla Costituzione della nuova Repubblica del 1948 nell’articolo 46 (“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”).
Chi più di tutti si adoperò per il compimento della socializzazione, durante quel periodo così travagliato, caotico e drammatico per l’Italia, fu Nicola Bombacci, il fondatore, insieme a Bordiga, Gramsci e Fortichiari, del Partito Comunista d’Italia, amico di giovinezza di Mussolini e suo compagno dell’ala rivoluzionaria e massimalista del Partito Socialista, e che poi durante la Repubblica Sociale Italiana aderirà al fascismo. Egli sostanzialmente lavorò su due direttrici per questo fine. La prima, come abbiamo detto, è il suo impegno, tramite la stesura del Manifesto di Verona, nella creazione del programma della “socializzazione”. La seconda direttrice è rappresentata da quel vasto ciclo di comizi che, a partire dall’ottobre del 1944 fino al marzo del 1945, Nicolino tenne in diverse città del nord Italia: Brescia, Como, Busto Arsizio, Verona, Venezia, Pavia, Genova. In queste circostanze la partecipazione dei lavoratori accorsi per sentire le sue parole fu davvero ampissima e vivissima al punto che lo stesso partito dovette chiedere al Duce “l’opportunità di stabilire un programma organico affinchè le conversazioni del camerata Bombacci possano susseguirsi – specialmente nei maggiori centri industriali, evitando alle sue apparizioni quel carattere occasionale”. Eccone un’altra testimonianza, stavolta dello stesso Bombacci che scrive al Duce dopo aver tenuto un comizio al Teatro Nuovo di Verona. Scrive così il comunista in camicia nera al suo duce:
Ho parlato un’ora e 30 in un teatro gremitissimo ed entusiasta. Questa volta, ho toccato il tasto del combattimento. Dopo aver esposto ed illustrato l’importanza storica e sociale della socializzazione, ho detto: Se domani, come ha accennato il Duce a Milano [nel discorso del 16 dicembre al Teatro Lirico] la Valle del Po dovesse essere una grande Atene, operai, per difendere la Repubblica e la Socializzazione siete pronti ad abbandonare il lavoro per il combattimento? La platea, composta nella maggior parte di operai è scattata gridando: Sì vogliamo combattere per l’Italia, per la repubblica, per la socializzazione.
Vi sono poi altri importanti punti del Manifesto di Verona che meritano di essere ricordati per la loro modernità: ad esempio i punti 9, 10, 11, di carattere economico-sociale e in gran parte già fondanti il fascismo-regime, che dicono: 9) “Base della Repubblica Sociale e suo oggetto primario è il lavoro, manuale, tecnico, intellettuale, in ogni sua manifestazione”.10) “La proprietà privata, frutto del lavoro e del risparmio individuale, integrazione della personalità umana, è garantita dallo Stato. Essa non deve però diventare disintegratrice della personalità fisica e morale d’altri uomini, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro”. 11) “Nell’economia nazionale tutto ciò che per dimensioni o funzioni esce dall’interesse singolo per entrare nell’interesse collettivo, appartiene alla sfera d’azione che è propria dello Stato. I pubblici servizi e, di regola, le fabbricazioni belliche debbono essere gestiti dallo Stato per mezzo d’Enti parastatali”.
Il punto 13, poi, quello sull’esproprio delle terre non coltivate dai latifondisti per darle ai contadini, era la continuazione della legge già promulgata e applicata durante il fascismo-regime. Essa affermava: “Nell’agricoltura, l’iniziativa privata del proprietario trova il suo limite là dove l’iniziativa stessa viene a mancare. L’esproprio delle terre incolte e delle aziende mal gestite può portare alla lottizzazione fra braccianti da trasformare in coltivatori diretti, o alla costituzione d’aziende cooperative, parasindacali o parastatali, secondo le varie esigenze dell’economia agricola. Ciò è del resto previsto dalle leggi vigenti, alla cui applicazione il partito e le organizzazioni sindacali stanno imprimendo l’impulso necessario”. Da ricordare anche il punto 15 riguardante il diritto alla proprietà della casa per ogni lavoratore e “la creazione di un Ente Nazionale per la Casa del Popolo il quale, assorbendo l’istituto esistente e ampliandone al massimo l’azione, provveda a fornire in proprietà la sua casa alle famiglie dei lavoratori di ogni categoria, mediante diretta costruzione di nuove abitazioni o graduale riscatto delle esistenti”.
Purtroppo vi è anche, naturalmente, il punto 7 che ribadisce l’ostilità e la discriminazione del fascismo verso gli ebrei laddove afferma che gli ebrei sono da considerarsi stranieri e nemici dell’Italia.
Quest’ultimo punto, però, non ci deve impedire, per chi abbia coraggio e onestà intellettuale, di poter considerare il Manifesto di Verona, ed in particolare il suo famoso punto 12 (e il suo proseguimento nel punto 46 della nostra attuale Costituzione), come la base, per il prossimo futuro, di una nuova e feconda concezione della socialità e del rapporto che avranno gli uomini con la naturale attività umana e cioè il lavoro.