“Orwell e le allegorie del Potere” di Maria Nivea Zagarella

   

 
  Nell’attuale revival di ristampe delle opere di George Orwell, e disorientamento socio-esistenziale acuito dalla pandemia globale, rileggerne i due capolavori può forse contribuire ad accendere, in questi nostri giorni sospesi, un utile, brusco, lampo di riscossa ideale e vitale.  
George Orwell, scrittore anticonformista alla maniera di Swift, moriva settanta anni fa, nel 1950. Nei libri più noti, l’allegoria de La fattoria degli animali (1945) e il romanzo antiutopico 1984 (1948), si trova una sintesi tuttora attuale di denuncia etico-storica e di profezia negativa sulla perenne violenza e arroganza del Potere. Orwell, che ha vissuto il colonialismo britannico (Giorni birmani, 1934), la lotta antifranchista in Spagna (Omaggio alla Catalogna, 1938), e il II° conflitto mondiale come corrispondente di guerra e commentatore radiofonico della BBC, avvia già nella Fattoria la satira dello stalinismo e di ogni Politica che degeneri fra sopraffazione e menzogna in esercizio di Potere: lì il predominio crescente dei “maiali” spalleggiati dai “cani” loro guardiani, in 1984  l’onnipresenza del “Grande Fratello” e della  “psicopolizia”. Sulle orme di Esopo e ancor più di Fedro, gli animali rivoluzionari della Fattoria padronale del signor Jones, che, cacciato il loro padrone, da una condizione/illusione di conquistata uguaglianza e libertà (Sì, quello era loro, tutto ciò che vedevano era loro) ricadono in forme altre di oppressione e discriminazione (solo i maiali avranno il privilegio di portare la domenica un nastro verde sulla coda) sono sì specchio di fasi precise della storia sovietica, ma anche metafora di ogni Rivoluzione tradita e di democrazie cosiddette “liberali”, perché tali nelle “forme” di governo, non nella realtà della vita sociale. Analogamente, sulla scia di altre utopie negative, quali le opere Noi (1922) di Evgenij Zamjatin e Il  mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley, il romanzo 1984, il cui titolo originario immaginato era L’ultimo uomo in Europa, travalica ampiamente il contesto storico che lo ha ispirato, rendendosi contemporaneo delle odierne perplessità e denuncia circa la pericolosa e sempre più diffusa standardizzazione linguistica, mentale,e comportamentale in atto fra le nuove generazioni.
 
 
 
               La fattoria degli animali
 
      Ne La fattoria degli animali, sul piano storico, i maiali che ispirano (il Vecchio Maggiore) e guidano gli inizi della Rivoluzione (Palla di Neve e Napoleon), sconfiggendo la controrivoluzione (Battaglia del Chiuso delle vacche) e venendo presto in contrasto fra loro, alludono alle idee di Marx/Lenin e al lungo duello Trotzkij/Stalin; i padroni invece delle fattorie vicine, prima ostili agli animali (URSS), poi alternativamente amici o nemici dei maiali, cioè il Pilkington di Foxwood e il Frederick di Pinchifield, rimandano al blocco occidentale Inghilterra/Francia (Pilkington) e alla Germania nazista (Frederick., dal patto con Hitler, all’invasione della Russia, alla battaglia di Stalingrado). Sul piano dell’allegoria però in tutta la favola si riscontra un continuo snodarsi e intrecciarsi di riferimenti “contingenti” al regime di Stalin e di avvertimenti/premonizioni circa successive, nel tempo, similari degenerazioni politiche. L’espulsione/fuga ad esempio dalla fattoria di Palla di Neve grazie ai cani allevati in segreto da Napoleon segna nella favola il passaggio dai Consigli assembleari domenicali di tutti gli animali a un Comitato/casta decisionale di soli maiali presieduto da Napoleon. Abolite le discussioni (democratiche), gli altri animali si trovano ad eseguire solo ordini. Lealtà, obbedienza, disciplina ferrea consiglia il maiale Clarinetto (alias media di “regime”), deputato col maiale/poeta Minimus e il gallo nero trombettiere al culto/propaganda del Capo e dei maiali “cervello motore” della fattoria, oltre che alla costante falsificazione della verità e al lavaggio dei cervelli degli onesti (i cavalli da tiro Gondrano e Berta) e degli sciocchi (le pecore plaudenti e slogan-belanti). I motti-vangelo per la prosperità collettiva della fattoria (Napoleon ha sempre ragione, lavorerò di più) coniati dal generoso lavoratore Gondrano, stachanovista della costruzione del mulino a vento (leggi industrializzazione accelerata), vengono da Napoleon opportunisticamente  riciclati, ma “reinterpretati” secondo il vecchio, ambiguo, adagio che, di contro ai “lussi”, la vera felicità sta nel lavorare molto e nel vivere frugalmente, e perciò amaramente “rivisitati”  dai dubbi finali del popolo/Orwell: tuttavia né i porci né i cani producevano cibo col loro lavoro; ed erano molti e il loro appetito era sempre ottimo. Ma guai agli animali dissidenti o collusi con Palla di Neve (Trotzkij) e rei (?) confessi di complotti!. Dopo la ben orchestrata “diffamazione” (alias dossier) i colpevoli sono all’istante sanguinosamente giustiziati dai cani (“purghe” staliniane del 1923-29 e del 1934-1938).
     L’alleanza ai vertici della casta dirigente (Stalin/burocrazia o lobby varie oggi) emerge dallo “stabile” insediarsi di Napoleon e maiali nella ricca casa colonica dello scacciato Jones, fra confort di lusso e cibi esclusivi, e dall’alterazione sistematica e interessata dei sette comandamenti, cioè i principi rivoluzionari fondanti (Tutti gli animali sono uguali…Nessun animale ucciderà un altro animale...) e anti-uomo (tutto ciò che va su due gambe è nemico) della “repubblicana” Fattoria degli animali, che saranno sostituiti, a rivoluzione involuta, dal comandamento unico: Tutti gli animali sono uguali, ma alcuni animali sono più uguali degli altri, donde il nastro verde sulla coda, la separazione nell’educazione/istruzione/gioco dei maialetti/cloni dagli altri animali giovani e l’incedere infine di tutti i maiali in posizione eretta sulle zampe posteriori come (gli odiati una volta) uomini (sfruttatori): Poco dopo dalla porta della casa colonica uscì una lunga schiera di maiali: tutti camminavano sulle gambe posteriori [da notare gambe anziché zampe]….infine…uscì lo stesso Napoleon, maestosamente ritto, gettando alteri sguardi all’ingiro, coi cani che gli saltavano attorno. Stringeva fra le zampe [opportunamente qui zampe] una frusta. E’ tale scambio/identità fra maiale-uomo/uomo-maiale che verificano nella chiusa con occhi stanchi e delusi tutti gli altri animali dal ventre vuoto nonostante parate patriottiche e cifre mirabolanti: Sembrava che la fattoria fosse diventata in realtà più ricca, senza per questo fare più ricchi gli animali, salvo naturalmente i maiali e i cani. Il brindisi finale dentro la risorta “Fattoria padronale” fra il borghese-gentiluomo Pilkington e l’ormai bipede Napoleon legati dalla stessa fede capitalistico-razzista-imperialista (Se voi avete i vostri animali inferiori contro cui lottare, noi abbiamo le nostre classi inferiori) esplicita il pessimismo del colto e “profeta” asino Benjamin/Orwell sull’inalterabile, per i deboli, legge della vita: fame, fatica, delusione.
      Il vecchio Benjamin è in tutte le fasi della vicenda della “Fattoria” (prerivoluzionaria, rivoluzionaria, totalitaria) l’immobile voce del “disincanto”. Si evince dalla sua indole di creatura taciturna e che non ride mai (non vedeva nulla di cui si potesse ridere, diceva) e dalle ciniche osservazioni con cui, dato che gli asini hanno vita lunga, ogni volta ridimensiona, o smonta, sia gli entusiasmi degli altri (non c’era nulla che meritasse di essere letto, affermava, pur sapendo egli leggere, alludendo al divario sempre rinascente fra principi teorici e normativi e prassi concreta), sia le attese di un miglioramento politico-sociale: rifiutava di credere sia a una maggiore abbondanza di cibo, sia a un minor lavoro in grazia del mulino a vento. Mulino o non mulino, diceva, la vita andrà avanti come è sempre andata, cioè male. Proprio per questa aridità “indotta” dagli eventi ama e ha pietà di Gondrano che si sfianca di lavoro e che tenterà invano di salvare (ragliando con quanta voce aveva) quando i maiali, attraverso l’inganno dell’ospedale, baratteranno con un macellaio il cavallo malato e ormai inutile in cambio di una cassa di whisky. Anche il grido della cavalla Berta si alzerà vano e “terribile” (Gondrano scendi! Ti portano alla morte!), ma alle lacrime di Berta Orwell aveva già affidato l’espressione dello smarrimento degli animali dopo la prima strage di “dissidenti”: Se mai Berta aveva avuto un’immagine del futuro, questa era stata di una società di animali liberati dalla fame e dalla frusta, tutti uguali, ognuno lavorando secondo la propria capacità, il forte proteggendo il debole, come essa aveva protetto con le sue zampe anteriori la sperduta covata degli anatroccoli la notte del discorso del Vecchio Maggiore. Non certo il terrore poliziesco, la riduzione al silenzio, il massacro, e saranno i suoi occhi appannati dalla vecchiaia a vedere per primi la squallida metamorfosi “umana” dei maiali.
     Da non sottovalutare nella favola è la valenza simbolica dell’onomastica, che con intuitiva immediatezza, anche nell’ironico/polemico rovesciamento (il poeta Minimus), o attraverso elementi etimologici o storici di riferimento (Foxwood, Pinchifield, Napoleon, Frederick… ) comunica e chiarisce al lettore una precisa “gerarchia” di valori (il maestoso Vecchio Maggiore, Palla di Neve…) e di disvalori (Clarinetto, la cavallina vanesia Mollie…), gerarchia cui rimanda pure la “tipizzazione” per specie/categorie degli animali o la peculiarità di talune loro caratteristiche fisiche. Ad esempio il gallo trombettiere di Napoleon è nero, e nero è il corvo domestico di Jones dal nome Mosè, che poi corteggerà corteggiato i maiali trionfanti, figura amaramente allusiva questo “corvo” a un certo tipo di religiosi inguaribilmente satelliti/strumento del Potere, di qualunque matrice e spessore esso sia.
            
 
 
               1984         
 
     Il romanzo 1984 è la prosecuzione del discorso avviato con la Fattoria, senza più le sfumature di ilare sorriso ironico supportate dalla finzione animalesca, e con costante invece secchezza e durezza di toni sarcastico/accusatori. L’antefatto di 1984  è nel brindisi (poi lite furiosa per la reciproca truffa del gioco simultaneo dell’asso di spade) tra Napoleon e Pilkington, in cui si può cogliere già nel 1943/44, data di composizione della favola, una profetica intuizione di quella che sarebbe stata, dopo gli incontri di Yalta e di Postdam (1945) fino ad oggi purtroppo (vedi Cina, i montanti sovranismi, il fondamentalismo musulmano), la divisione del pianeta in “blocchi” ideologici, politici, economici antagonisti, con relative fasce sociali interne anch’esse assai disuguali e contrapposte (leggi “guerra fredda”, i problemi-cancrenaimmobile del Terzo mondo, il ’68, l’odierno  multipolarismo, il modello “occidentale“ di vita). Il Grande Fratello (allusivo a Stalin) domina infatti nell’immaginario paese di Oceania, costantemente in guerra, anche se alternativamente, con altri due grandi paesi, Eurasia e Estasia, ma tutte e tre queste potenze (o grandi blocchi territoriali), come si legge nel famigerato libro dell’oppositore del Grande Fratello, il traditore Goldstein (allusivo a Trotzkij), hanno bombe atomiche e condizioni di vita, struttura sociale, condizione economica analoghe, anche se le ideologie politiche dominanti presentano nomi diversi. Pertanto anche questo romanzo del 1948 non è solo una satira storicamente determinata dello stalinismo e del nazismo, ma una riflessione più generale e amara sul “come” e il “perché” delle strategie vincenti di dominio politico sugli uomini, oltre che una drammatica prefigurazione dell’attuale “impero” omologante dei media.
     Nei territori di Oceania l’oculata [ultrapropagandata] guida del Grande Fratello assicura nuova, felice esistenza ad abitanti ininterrottamente manovrati e spiati da microfoni e teleschermi sia da svegli o mentre si dormiva, mentre si mangiava o beveva, dentro o fuori casa, nel bagno, a letto. Il Partito al potere (Socing) governa attraverso quattro strani Ministeri. Quello della Pace, che “strumentalmente” promuove una guerra perenne, l’attesa/terrore di puntuali, cicliche, bombe-razzo straniere (?) e l’“odio” continuato e isterico verso i nemici esterni (ora l’Eurasia, ora l’Estasia) e interni (gli “eretici” rispetto al Partito: Goldstein e i suoi complici)). Quello dell’Abbondanza, esperto in cifre e statistiche iperfantasiose e d’effetto, mentre i più vanno scalzi e abitano cadenti condomini puzzolenti di cavoli e cessi otturati. Quello dell’Amore, che con la tortura fisica e la violenza psicologica “rieduca” i dissidenti all’amore per il Grande Fratello e poi li “vaporizza”. Quello della Verità (nel cui Archivio lavora il protagonista Winston), che non solo crea menzogne storiche, distruggendo sistematicamente prove e documenti originali, sì che non esiste nulla se non un presente senza fine in cui il Partito ha sempre ragione, ma controlla e falsa anche tutta la produzione artistica o letteraria, sfornando inoltre, in reparti separati, “sottoprodotti” librari, musicali e pornografia a valenza oppiacea specifica per i prolet (85/% della popolazione) che per il Socing non sono esseri umani, ma solo forza lavoro e procreativa bruta.
     Orwell non descrive, come si vede, solo orrori politico-sociali a lui già noti. Teme nuovi errori/orrori nel domani, se per il crescere dell’egoismo sociale intersoggettivo, per il lavaggio continuo dei cervelli, che alza “mura di odio e di bugie” tra gli individui e per il dilagare funzionale dell’ “ignoranza”, dovesse trionfare la follia del “Potere puro” quale quello perseguito dai membri dirigenti del Socing: Se vuoi un simbolo figurato del futuro -dice il torturatore della psicopolizia all’arrestato e sfigurato Winston- immagina uno stivale che calpesta un volto umanoper sempre (sic!). Il Potere dunque come brivido della vittoria, la sensazione [cruda] di vivido piacere che si ha quando si calpesta un nemico disarmato. Ingredienti necessari la paura, il furore, il trionfo, l’automortificazione. Winston si ribella e, fra sotterfugi e paura, per salvare la sua “eredità di uomo” (libero raziocinio, emozioni soggettive, rimorsi, affetti privati), pur sapendo di commettere dei “psicoreati”, scrive un diario, interroga scaglie del passato abolito dal partito e recuperabili solo nella (e dalla) sua memoria malata (ricordi familiari, spezzoni di paesaggio, sogni, oggetti antichi, atmosfere intime perdute), infrange i rigidi divieti sessuali del regime amando Julia. Sarà sconfitto solo quando sotto tortura, per il panico di essere dato in pasto ai topi, muterà in odio, nel profondo del “cuore”, proprio l’amore per Julia, scoprendo pure nel suo inconscio metaforicamente (come avviene per Julia e per qualsiasi altro arrestato alle prese con la temutissima Stanza 101, e come è fuor di metafora per ogni uomo) il “topo carnivoro” divoratore di bambini, malati, moribondi, alias degli “altri”, pur di salvare se stessi. In quei momenti importa solo di se stessi si confesseranno reciprocamente Winston e Julia. Non lo fate a me, ma fatelo a tal dei tali… Mentre succede si dice sul serio… Si “vuole” che succeda all’altra persona. Non importa un cavolo fottuto quanto possa soffrire… preciserà Julia, quando i due, scarcerati, si rincontreranno per caso nel Parco in una fastidiosa giornata di marzo [non per caso] rigida e ventosa, e la terra sembrava di ferro, e tutta l’erba sembrava morta… Tutto sembra “morto” perché si sono scoperti, con orrore e terrore, “ostili” e estranei l’uno all’altra. E tale frontiera estrema, corrosivo/distruttiva di ogni illusione di socialità positiva, è segnalata nel romanzo dal valore simbolico del numero 101 (100+1), la “caduta” cioè del soggetto “oltre” ogni concepibile limite di Male.
     Il Potere dunque vince e si perpetua facendo leva sull’istinto di conservazione dei singoli e sul senso di insicurezza e precarietà costituzionali dell’uomo che docilmente si appaga in compensativi (e ben manipolati) miraggi collettivi di trionfi e onnipotenza. Gli “ortodossi” del regime (le stesse idee nella testa e gli stessi slogan sulle labbra) sottolinea ironico Orwell sono quelli che, per mancanza di comprendonio e egoisticamente disinteressati agli avvenimenti pubblici, restano perfettamente ragionevoli, mentre il protagonista Winston è una macchia per il Socing, perché  è assalito da dubbi, domande, vorrebbe avere in un passato storico ”oggettivo” un termine di confronto e di misura validi per giudicare e riscattarsi da un “presente” pervasivo e alienato, è inoltre nostalgico di un “suo” mondo interiore, né spiato, né preconfezionato. Da qui la rieducazione forzata nel ministero dell’Amore fino alla resa ultima: Oh quale indocile esilio volontario da quell’affettuoso seno! Due lacrime puzzolenti di gin gli sgocciolavano (pentito e “mondato” di ogni colpa) ai lati del naso. Svuotato di se stesso (ragione, sentimenti) dai metodi vincenti della psicopolizia (Ti spremeremo fino a che tu non sia completamente svuotato e ti riempiremo di noi stessi) e definitivamente “persuaso” che 2+2=5, anch’egli alla fine, apatico fantasma ubriaco di gin (che è il gin reale e metaforico di ogni “regime”), amerà il Grande Fratello, il colosso che ha conquistato il mondo, la roccia contro cui si sono accanite invano le “orde” nemiche. E mentre i teleschermi assordano e riempiono orecchie/teste massificate con bollettini-sproposito sulla gente che vive più a lungo, lavora di meno, è più alta, più sana, più forte, più felice, più intelligente, più educata, più colta… continuano a moltiplicarsi in Oceania gli omettini-scarafaggio (gambettine corte, facce grasse e senza espressione, occhi piccolissimi) e i tipi ocolingo (faccia senza sguardo e bocca mobilissima). Parola questa (ocolingo) che nella Neolingua miseramente semplificata e riformulata del Socing, e per il suo “stravagante” Bispensiero, suona offesa (parlare come un’oca) se rivolta a un avversario del Socing, come “lode” invece se usata per un ortodosso perfettamente “allineato” (per Orwell invece, sardonicamente, oca in senso proprio).
     L’insidia maggiore infatti, proprio perché invisibile, nello svuotamento/intruppamento dell’individuo,  ridotto da “persona” a “fantoccio” eterodiretto, viene dalla Neolingua e dal Bispensiero imposti dal Socing a Oceania. Bispensiero -riflette amaramente Winston- significa sapere che due opinioni sono contraddittorie e credere in entrambe, senza più discrimine logico e pragmatico fra verità e menzogna, giusto/ingiusto, buono/cattivo. E quanto mai illuminante (anzi lungi-mirante) si rivela l’esempio che immediatamente segue, mentre il protagonista è costretto al suo risveglio mattutino dalla voce femminile del teleschermo a esercizi ginnici teleguidati: credere [scrive Orwell] che la democrazia è impossibile e che il Partito è il custode della democrazia. Quanto alla Neolingua, strumento necessario del bispensiero, nella quale in Oceania verranno riscritte tutte le opere del passato e scritte quelle future, la sua definizione è affidata allo zelante, ma ironico, “linguista” Syme, così sottile teorico della neolingua e così perspicace “redattore” dell’undicesima edizione del suo vocabolario, che finirà anch’egli “vaporizzato” dal regime, perché ha “compreso” e “conosce” ciò che non avrebbe dovuto “comprendere” e “conoscere”. Non è un “ortodosso” puro, cioè un semplice fantoccio/oca/laringe, quale tanta fauna sociale dei nostri tempi. La menzogna di Stato gli è fin troppo chiara. Anziché inventare delle parole nuove, noi distruggiamo le parole -spiega Syme al camerata Winston nella mensa sotterranea del Ministero della Verità durante una delle pause pranzo -Stiamo riducendo la lingua all’osso… Non lo sai che la neolingua è l’unica lingua del mondo il cui vocabolario s’assottigli di più ogni anno?…..Non ti accorgi che il principale intento della neolingua consiste proprio nel semplificare le possibilità del pensiero? Ma dopo la semplificazione/distruzione delle inutili sfumature di significato della lingua (alias autonomia/ricchezza/complessità di giudizio, pensiero, sentire in essa riflessi), insomma dopo il non pensare, o coatto o habitus sempre più supinamente introiettato, dopo il non aver bisogno di pensare cosa rimane del “soggetto” e al “soggetto, cosa dell’ “Uomo” e all’ ”Uomo”? Negli anni Ottanta padre David Maria Turoldo risponderà: il “re-imbestiamento”.  Nella poesia Va scomparendo compresa nella raccolta IL Grande Male (1987) padre David scrive: Va scomparendo perfino/ l’intelligenza dei fanciulli, / e gli adulti non hanno più memoria/ anche la lingua va morendo,/ né ci sarà la Neolingua a salvarci:/ ci saranno solo dei segni/ e dei grugniti.
     Né la speranza può venire dai prolet, dalla loro esuberante carica di vitalità fisica (le braccia forti, il cuore caldo, il ventre fertile del donnone che canta e stende biancheria nel cortile adiacente alla bottega del robivecchi) impantanati come sono nella condizione di subumanità in cui li chiude il Socing con il suo plateale, involgarente o obnubilante, kitsch di regime (dal cinema [oggi anche i film-panettone] ai romanzetti da quattro soldi, a certi teleprogrammi, a certo subteatro) e ancora il football, la birra, il pesante lavoro manuale, l’infatuazione nazionalistica, lo specchietto infine per allodole della Lotteria, vera droga/follia dei ceti popolari, per i suoi vistosi, ma tanto più inesistenti quanto più favolosi, premi settimanali. E Orwell/Winston non tralascia di puntualizzare che era più che probabile che la lotteria fosse la ragione principale, se non la sola, per cui milioni di prolet avevano ancora un qualche attaccamento alla vita.
 
 
 
               Valenza polemica delle “reliquie” di paesaggio      
 
     Il pessimismo radicale, che sembra caratterizzare, nella denuncia, il pensiero dell’ultimo Orwell stretto fra recenti totalitarismi politico-militaristi e inquietanti avvisaglie di un nuovo, soft (perché automimetizzantesi) “totalitarismo della comunicazione”, raggela anche il rapporto dello scrittore con la Natura. Questi due romanzi sono avari di paesaggi naturali, eppure l’autore ne sentiva profondamente il fascino. Là dove il paesaggio trapela, anche se brevemente e temporaneamente, si carica di una particolare tenerezza, di una vitalità incoercibile e contraddetta, di valenze utopiche deluse, quasi un Eden perduto, come segnala in 1984 l’interscambiabilità fra quel relitto d’infanzia che è il Paese d’oro ricorrente nei sogni di Winston (un campo/pascolo con le tane delle talpe, dei rami di olmi mossi dalla brezza e un ruscello vicino con i pesci che nuotano sotto i salici) e un frammento di campo reale intravisto in compagnia di Julia.   
     Nel settimo capitolo della Fattoria leggiamo: Dalla collinetta ove giacevano vedevano l’ampia distesa della campagna, abbracciavano con lo sguardo quasi tutta la Fattoria degli animali, coi lunghi pascoli che si stendevano fino alla strada maestra, i campi di fieno, i boschetti, gli stagni per abbeverarsi, i campi arati dove il nuovo grano cresceva folto e verde… Era una serata limpida di primavera. L’erba e le siepi cariche di gemme erano dorate dai raggi del sole al tramonto. Mai la fattoria… era parsa agli animali più desiderabile, ma essi la stanno guardando desolati e tutti stretti in silenzio attorno a Berta dopo il primo massacro dei loro compagni ad opera dei cani feroci e ringhiosi di Napoleon.     
     In 1984, nel secondo capitolo della Parte seconda, viene descritta la campagna di maggio, lontano dalla città e (apparentemente) anche dai microfoni-spia del Partito e nell’assenza finalmente dello sguardo inquisitorio del Grande Fratello, l’enorme faccia dai grossi baffi neri e dai lineamenti rudi riprodotta su cartelloni giganti collocati in città ovunque e con sotto la scritta paternalistico/intimidatoria IL GRANDE FRATELLO VI GUARDA.  E’ la campagna di maggio, con la tiepida dolcezza dell’aria, il verde delle foglie, le campanule azzurre, gli arbusti di noccioli, il luogo dove Julia dà, ancora una volta furtivamente rispetto al partito, appuntamento per una domenica pomeriggio a Winston, e sarà il canto libero di un tordo, anzi il suo torrente di canti, su un ramo quasi al livello dei loro volti che, sgelando il protagonista, li farà stringere l’uno all’altra affascinati: Per chi, per cosa cantava quell’uccello?… Che cosa gli faceva rovesciare quella musica prodigiosa dentro il nulla?… La vita della ragazza nell’arco delle sue braccia era molle e calda… La spinse giù sull’erba tra le campanule azzurre… Il sole sembrava diventato più caldo… Inevitabile tuttavia l’amaro contrappunto di pensieri, e con essi una sorta di ribelle malinconia: Nessuna emozione era più pura, perché ogni cosa era mescolata con la paura e con l’odio. Il loro amplesso era stata una battaglia. L’attimo di godimento una vittoria. Era un colpo inferto al Partito. Era un atto politico, e di là a qualche mese dovranno infatti scontarlo entrambi quell’atto “politico” di liberazione soggettiva. Verranno, come abbiamo visto, arrestati e crudelmente “rieducati” alla sottomissione totale, per rientrare obbedienti (ma già cadaveri predesignati che aspettavano solo di essere riportati nella tomba) nel militaresco, e vuoto, squallore della vita quotidiana.   
     Prevalgono in 1984 gli “spazi” chiusi, soffocanti, omologati, oltre che nidi sicuri di delatori, presenti pure fra i figli fanciulletti dei membri del partito, precocemente organizzati nella attivissima Lega Giovanile e delle Spie. Spazi chiusi che, oltre le celle e i sotterranei del terrificante ministero dell’Amore, vanno dagli ambienti amorfi degli altri orridi Ministeri/alveari pieni di impiegatucci altrettanto amorfi e succubi, quali un coinquilino di Winston, il superattivista del partito Parsons dalla stupefacente scemenza e, nella sua grassezza, enorme massa di stupidissimo entusiasmo, ai vecchi Appartamenti-condomini della Vittoria che cadono a pezzi, ai pubs dei prolet pregni di un insopportabile puzzo di birra acida e dagli orinatoi ugualmente puzzolenti, ai Centri sociali del partito con obbligo di frequenza e “noia” ritualisticamente programmata, al tetro e quasi deserto Caffè del Castagno dai tavoli polverosi e parcheggio temporaneo dei dissidenti “rieducati”, come Winston, e pertanto destinati, entro tempi più o meno lunghi, più o meno brevi, a discrezione dei dirigenti del Socing, alla condizione di nonesisper (in neolingua), cioè alla “condizione” di chi, vaporizzato, non era mai esistito. Ma nel romanzo anche le strade, le piazze o i vicoli tortuosi dei quartieri popolari di questa strana Londra, città principale della popolosa provincia di Pista Prima, sono una dissimulata e anch’essa “coartante” prigione per l’onnipresenza di microfoni e teleschermi e per le ripetitive sfilate di carri con sopra nemici catturati e esibiti, per le fasulle dimostrazioni spontanee, per le organizzatissime settimane dell’odio contro la sempre mutevole potenza in guerra con Oceania, oltre che una “cappa”, ossessivamente patita dal protagonista, di bombardamenti di routine, di temuti pedinamenti, di reali tradimenti, come l’alcova che si erano ritagliati nella loro breve, fortunosa, illusione Winston (ex sposato) e Julia (non alle prime esperienze d’amore) nella raccomodata stanzuccia al primo piano sopra la falsa bottega del robivecchi, il complimentoso signor Charrington, in realtà uno psicopoliziotto camuffato.
     Perciò il ruolo altamente emblematico, a inesorabile condanna di certe “umane” (anzi disumanizzanti) follie storico-politiche e sociali, di “quella” campagna primaverile, con le sue persino pozzanghere di liquido oro, dentro la quale Winston, sceso dal treno, avanza in attesa di un più libero incontro con Julia, una campagna in cui pareva di sentirsi baciare la pelle dall’aria e dove il sole di maggio fa per contrasto avvertire al problematico personaggio (che ha un fisico fragile, magro e un’ulcera varicosa sulla caviglia destra) tutta la sua sporcizia, tutta la sua anemia, di creatura abituata al chiuso, insomma con i pori della pelle otturati dalla polvere grassa e sudicia della città. Città che non è solo la Londra orwelliana di 1984, ma tutte le città/mondo di ieri e di oggi, spoglie o povere di “diritti”, compromesse nelle libertà soggettive e in quella collettiva, condizionate nella vita psichica e rese artificiali, se non addirittura innaturali, nei bisogni, oltre che -assai spesso- architettonicamente o urbanisticamente deturpate o “deprivate” nella loro memoria storica. A quest’ultima allude nel romanzo anche il vagheggiamento/nostalgia di Winston per una vecchia stampa della bombardata chiesa di San Clemente, cui era legata una canzoncina/filastrocca popolare. Tutti rottami, come si può constatare, per Orwell di uno smarrito, e intensamente rimpianto, umanesimo.
 
 
 
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