Quella “officina” fragile di bellezza e libertà - di Maria Nivea Zagarella

Il romanzo Punto pieno (ottobre 2021) di Simonetta Agnello Hornby è la terza “stazione” della saga familiare avviata con Caffè amaro (2016) e continuata con Piano nobile (2020), alla quale -per dichiarazione della stessa autrice- pare seguirà una quarta, per “raccontare” la Sicilia successiva alla strage di Capaci (1992), evento che chiude drammaticamente questo nuovo libro sulle vicende dei baroni Sorci.

Sul piano strutturale, rispetto a Piano nobile, le voci dei singoli personaggi (Dice Peppe Vallo, Dice Cola Sorci, Dice Rita Sala…) narranti di sé e degli altri direttamente in prima persona (Mi sveglia lo squillo del telefono…La cameriera mi ha portato il giornale…) o attraverso il modulo epistolare (Lettere di Mariolina Sorci, Lettere di Carlino Sorci), si alternano a capitoli in terza persona (Vento, Il Circolo del Punto Pieno) dove il narratore cosiddetto “onnisciente” riannoda fili, integra fatti, colma vuoti temporali, contribuendo al montaggio dettagliato di un romanzo anch’esso insaporito da sporadici dialettismi, grezzi o ibridati di italiano (“cosa” ci avi a essiri!… acchianavanu e scinnivanu… picchì ‘un vi maritati?... ’boni siti, nsemmula… chistu è pi’ ttìa…  nsamai il cane si sveglia e li assicuta… è scumminato… sapurita era Agatina conzata come fu dalla baronessa… Ma voscenza…di nenti v’addunaste?… u megghiu ca c’era lo sarbavano per lui…), e da assai più rade locuzioni in inglese e francese. Spazia come sempre la Agnello Hornby fra mondi diversi, quello isolano-mediterraneo, in particolare Palermo, quello inglese e americano, ma l’originalità del nuovo testo, più che nei romanzi precedenti, sta nella marcata “anima” femminile del suo filo conduttore, quasi che nell’attuale marasma e deriva collettiva e globale l’unica positiva resilienza, ideale, morale, pragmatica, possa essere -secondo l’autrice- opposta dalla “donna”, o meglio, dalle “donne“, restituite alla loro autonomia, creatività, libertà organizzativa. Attira dell’invenzione romanzesca proprio questa decisa proiezione pre-femminista collocata negli anni della “ricostruzione“ postguerra. Il Circolo del Punto Pieno nasce infatti nella sagrestia della Chiesa dei Santi Scalzi, di proprietà dei gesuiti, in una giornata ventosa dell’aprile del 1955 per iniziativa delle Tre Sagge della famiglia Sorci: le due sorelle vedove del barone Enrico, Sara e Rachele, e la cugina, monaca di casa, Beatrice Benso. Suo perno ideativo e organizzativo, e modello di determinazione, forza d’animo, austerità morale e femminile fierezza è soprattutto Sara. A Rita, ripetutamente tradita dal marito, dirà:<<Non portare rancore, ti consuma… Metti sempre davanti a tutto i tuoi figli, e naturalmente la tua dignità. Gli uomini vengono da un passato che li giustifica, a te basta non giustificare quel passato>>. Sara sarà collaborata dalle nipoti e pronipoti, anche acquisite: Maria Merlo, figlia di Maria Teresa figlia legittima del barone Enrico; Mariolina, figlia di Filippo Sorci; Stefania, moglie di Filippo; Caterina moglie dell'altro scialbo e babbasone fratello Sorci, Ludovico; Rita moglie di Rico, fìglio legittimo di Cola Sorci; Stellina, figlia illegittima del barone Enrico, divenuta per la ricca dote paterna Contessa di Valledolmo. Donne tutte abili nel ricamare, disegnare o nella contabilità, che manterranno e incrementeranno il Circolo anche dopo la morte nel 1965 dell’ultranovantenne Sara (Rachele e Beatrice muoiono prima, nel 1957) fino alla sua chiusura nel 1984, facendone a un tempo, come era nelle intenzioni delle fondatrici, una scuola d’arti e mestieri, fondata sulla pazienza certosina e bellezza del rammendo/ricamo, un’impresa produttiva per le ordinazioni che verranno da tutta la Sicilia, dalle città del Nord Italia, e anche da Parigi, un’opera di carità, perché i guadagni della vendita dei ricami andavano parte alle ricamatrici (donne, madri, vedove in difficoltà economiche), parte ad altri poveri, e casa di riabilitazione perché le donne “pericolanti” o “pericolate” (prostitute, ex detenute), soprattutto dopo la legge Merlin (1958), vi cercavano e vi trovavano, volendolo, le competenze e la possibilità di una “strada” diversa.

Sara, rimasta vedova a 34 anni e piegata dalla angoscia e dalla solitudine per le morti successive del figlio nella Grande Guerra e della figlia per la spagnola, consapevole che camminiamo sulla nostra fragilità e il Nulla ci corteggia, affermerà che il rammendo (cominciò trasformando lo strappo nella manica di una camicetta bianca in una foglia a punto erba) era stata la corda che l’aveva fatta risalire dal buco di dolore in cui era sprofondata e che il ricamo era stato l’inizio della speranza…di ricominciare, speranza di creare qualcosa di nuovo, di bello, di cui tutti potessero godere, perché l’ago non lavora diversamente dal bulino (sic!) che incide, che intaglia, che disegna. Ridare nuova vita a un capo di vestiario o di biancheria danneggiato e ricamare significava dunque non solo imparare a “rammendare“ la propria esistenza, ma anche liberare dentro di sé la creatività pura, inventando i disegni da trasferire sui tessuti e scegliendone i colori. Il Punto per eccellenza per le tre Sagge era il punto pieno nella “variante imbottita”, perché sui puntazzi di imbottitura sottostante, perfetti per fare sfogare una ricamatrice arrabbiata e scontenta, venivano poi stesi i piccoli punti ordinati, vicini vicini per realizzare una copertura uniforme corrispondente alla fase finale di conforto e serenità. Una tradizione antica, oggi in disuso e in genere sentita come una delle tante gabbie coartanti della condizione femminile e di sfruttamento nel lavoro (si pensi alla denuncia di Santo Calì ne La notti Longa ), viene rivalutata -come si vede- e celebrata invece nelle pagine della Hornby nella sua potenziale carica psico-terapeutica e estetico-creativa, oltre che di solidale socializzazione e “utile” economico, facendosi metafora positiva di una filosofia/lezione di vita “tutta al femminile”, lezione di mitezza efficienza cooperazione e valorizzazione della “persona”, come emerge esplicitamente da diversi passi del romanzo. Una frase, detta ad alta voce da Mariolina in dialogo con una prostituta “ferita” dal suo passato, recita: Qi siamo tutte belle, qui siamo tutte un ricamo del mondo; il rimprovero imperioso e minaccioso di Stellina al magnaccia Cusumano, che vorrebbe prestare al Circolo le sue ricamatrici/prostitute in cambio di una somma di denaro, risuona nella sala/laboratorio di lavoro come un grido/pronuncia di battaglia: Qui magari le donne vengono schiave, ma escono libere. Che se non se le sono fatte loro le idee di giustizia, ci pensiamo noi a piantagliele in testa con questo, cioè l’ago, puntato con rabbia sotto il naso di quello come un coltello; nelle parole/invito di Sara a “ricominciare” rivolte con molta discrezione alle popolane Angela e Carmela sconvolte e sbandate dall’incesto bestiale del genero e marito ai danni della nipote, mentre mostra loro con i ritagli/modello di tela cerata come si può “costruire” una violetta, una rosa, una margherita (Vedi che meraviglia? Si può continuare a vivere e a essere contenti, nei limiti del nostro dolore), vibra una richiesta/certezza di bellezza e bene possibili, e un senso ultimo costruttivo dell’ “esserci” che vanno al di là della minuscola contingenza di quel gruppetto di donne di buona volontà e di silenziosa operosità degli anni Cinquanta. Non è casuale che lo Statuto del Circolo con i suoi sette articoli e la frase finale suggerita proprio da Sara (Ricama la tua vita e Dio ti perdonerà) apra e chiuda il romanzo. Messo in bella scrittura da Rita nel ’55, sarà significativamente ritrovato dalla stessa proprio il giorno dell’attentato di Capaci (1992) in fondo a una scatola, con tutte le carte e le foto delle ricamatrici del Circolo chiuso dopo l’incendiario attentato mafioso dell’84, attuato -scrive la Agnello Hornby- come arrogante minaccia e per accrescere il panico negli anni della lotta Sato-antiStato. Mentre turbata e disorientata dalla notizia-radio vaga per la casa in cerca di una tanticcchia che sappia di buono (sic!), che sia conforto e speranza per il futuro, quel foglio ingiallito, scritto a mano e quasi sul punto di sbriciolarsi, si ripropone agli occhi di Rita con tutta l’autorevolezza di una sintesi in sordina fra un passato di dignità (il ricamo è una tradizione che viene da lontano art.1) e un futuribile mondo nuovo: il ricamo non conosce differenze di censo e di ceto (art. 2) per la concorde collaborazione e fisica (sic!) vicinanza nello stesso luogo di lavoro fra “signore” e popolane; è una attività benefica (alias catartico-terapeutica) e può essere anche remunerativa” (art. 3); è un lavoro creativo che affina il gusto e l’immaginazione” (art. 5); può essere eseguito da sole o in gruppo. Richiede concentrazione e silenzio, ma può essere la premessa di una sana socializzazione” (art. 6). E a sigillo del rispetto e valore della “persona” e di “ogni persona”, e oblio di ogni colpa o trauma, l’ultimo articolo prescrive che tutto quello che viene confidato mentre si ricama deve essere subito dimenticato. Quel “ricamo” che corre tutto il romanzo, dalla prima “fiera” di successo di tovaglie lenzuola fazzoletti centrini asciugamani corredini nel ‘55… ai fazzoletti ricamati e donati da Mariolina per il suo compleanno al sessantenne cugino Carlino nel 1990 (Un omaggio -gli dirà- al tuo genetliaco e al Circolo del Punto Pieno non più esistente), quella “bella officina di anime libere” (Stellina) e “di bellezza” (Rita) vanno dunque letti come una controproposta fattibile di società davvero strutturata come “comunità”, comunità che non può sussistere senza, per parafrasare le parole di Stellina, una concordanza di intenti, una concreta e sicura offerta di lavoro e correlata diffusione di sapienza (alias conoscenze/competenze), e senza  speranza di reali cambiamenti.

Tutto ciò nel libro in alternativa oppositiva alla bancarotta di un mondo “al maschile” negativamente esemplificato e esemplificabile già a partire dai maschi della famiglia Sorci, tranne taluni pochi quali: l’omosessuale Carlino, figlio naturale di Cola e della cognata Laura, sensibile, generoso, vitale, anch’egli creatore di “stile” e bellezza nel mondo della moda e tuttavia deluso alla fine dallo stesso suo ambiente divenuto, nello scorcio ultimo del secolo, ormai troppo competitivo, fucina di veleni, di ostilità, persino di malvagità; e i due cugini intellettuali, figli delle altre due figlie legittime del barone Enrico, Anna e Lia, dalla brillante carriera accademica: Stefano Bianco e Leonardo Ponte, soprattutto quest’ultimo fraternamente amico di Rita e che vive fra Parigi e Berlino. Sull’altro versante invece, quello della negatività, hanno operato o operano il minore dei quattro fratelli Sorci, Andrea pazzo e assassino della cameriera Ersilia secondo il giudizio tagliente e senza appello del nipote Rico, figlio legittimo del fratello maggiore Cola; lo stesso barone Enrico ai suoi tempi fimminaro, cumannero e “assassino”, attraverso l’imposizione alla moglie del panno umido, di tre sue figlie neonate per lasciare posto nella famiglia ai maschi, trascorsi familiari questi perturbativi nel profondo della coscienza di Rico (siamo -dice alla moglie Rita- una brutta razza); Antonio, figlio maggiore di Andrea, farabutto e truffatore delle vedove e delle zitelle del parentado e mantenuto infine da una ricca piemontese vedova di un modicano arricchitosi con il cioccolato; Filippo, il fratello Sorci sperto, attaccato al potere e ai denari, in prolungati e ambigui affari (commerci, edilizia, trasporti) con Peppe Vallo del quale avalla anche il rapporto adulterino con la giovanissima figlia Mariolina (sinceramente però innamorata del maturo Peppe), rapporto coperto agli occhi del mondo dal “pattuito” matrimonio con il garruso avvocato e semiarcheologo Alfio Buscemi (Tutti sanno e nessuno vuole sapere- dice Mariolina pienamente e innocentemente appagata dell’amore appassionato “del” e “per” il suo Peppe); Peppe Vallo, figlio illegittimo del barone, nato da una serva di casa, e perciò fratellastro di Cola Filippo Ludovico e Andrea, che tornato ricco dall’America con la voglia vendicativa di schifiare il padre, accresce ulteriormente la sua fortuna e potere a Palermo prima, durante e dopo la guerra quale membro dei servizi segreti americani, avvocato potente e scaltro uomo d’affari, colluso con la mafia fino agli anni sessanta e con le mani in pasta ovunque, anche nel mercato nero dei reperti archeologici.  Questi si ritroverà alla fine a salvare l’onore della famiglia Sorci (la mia famiglia la chiamerà), insabbiando il feroce e folle delitto di Andrea spacciato come opera di fantomatici, mai esistiti, cugini del Continente di Ersilia (ho fatto diventare -si autocongratula- i fantasmi persone vere). Di lui dà una agghiacciante, per il lettore, definizione l’autista di Mariolina divenuta, dopo la morte per un incidente a Mozia di Alfio, moglie legale e poi vedova nel ’67 di Peppe, mentre attraversano in macchina la Palermo blindata degli anni ’80: scettico e infastidito da tutti quei picciriddi armati di mitra, e arruolati e schierati dallo Stato in quella appariscente guerra antimafia fra rivelazioni di Buscetta e indagini di Falcone e Borsellino, l’autista osserva: Non sanno a chi devono sparare, quelli… L’avvocato, buonanima, tutto sapeva come andava saputo…(cioè con le giuste distanze di sicurezza)… E lei, signora, lo sa come bisogna sapere. Ma “lei” ricordava solo di averlo amato (riamata) a lungo e intensamente, complici i desideri e le fantasie della sua esuberante giovinezza e lo stesso mondo della celluloide degli anni Quaranta e Cinquanta, cui sembra essersi direttamente ispirata la Agnello Hornby nell’immaginare ad esempio la luna di miele nel 1956, non tanto di Mariolina e Alfio, ma di Mariolina e Peppe in crociera sul piroscafo Ausonia nel Mediterraneo, un Peppe che si fa trovare a Tunisi dai fittizi sposini sulla banchina alto, abito bianco di lino, camicia celeste e panama in testa e con un orologio d’oro che brillava sotto il sole. Quanto agli altri Sorci, Cola con la sua inerte bontà è tutto contenuto nel ritratto che di lui fa Peppe: un brav’uomo, ma che ce ne facciamo di quelli come lui?, appena capace di conservare i beni di famiglia rimasti, e dal malinconico orizzonte vitale ristretto all’amore/ricordo di Laura (l’amore grande, l’amore vero della mia vita) e all’affetto protettivo fino alla fine per il “delirante” e violento fratello Andrea da lui stesso tuttavia cornificato. Harry, figlio di Peppe e Mariolina, morirà fra le spire della droga a 26 anni (Mamma sono un uomo infelice) inetto a trovare dentro di sé le forze morali per contrastare, secondo l’auspicio di Mauro Rostagno che lo accoglie nella comunità di Saman, il suo secolo infame (e, bisognerebbe aggiungere, tutto l’anomalo passato familiare). Rico infine, figlio di Cola e dell’infelice Margherita, la moglie imposta per la roba nel 1919 all’obbediente suo primogenito dal barone Enrico, pare condensare in sé, secondo la sua stessa diagnosi, nonostante la sua sostanziale onestà, tutto il marcio della famiglia e la polvere -precisa l’autrice- della sua classe, inutile e cattiva. Dice infatti Rico all’amato fratellastro Carlino: Tu sei figlio dell’amore, io sono prigioniero di una famiglia che non da scampo. Pur avendo sposato Rita per amore e pur amando la moglie e ammirandone la tempra energica e mite e la fedeltà, non può fare a meno di tradirla. Bello e fragile, debole e spavaldo, menomato a un braccio dalle ferite di guerra, e perciò escluso dal destino dalla tanto sognata carriera militare e continuamente bisognoso nella sua irrequietudine di rassicurazioni sulla propria virilità, si lascia travolgere dai debiti (il figlio Colapì dirà al nonno Cola: Papà ruba a mamma), dalle belle automobili e dalle belle donne (morirà nell’82 a bordo di una Alfa Romeo Spider), e resteranno velleitari i suoi progetti di proprietario terriero esperto di agronomia che vorrebbe avviare precise strategie di sviluppo agricolo dell’isola con nuove colture, macchinari moderni, reintroduzione di antichi tradizionali prodotti, utilizzo turistico e alberghiero di vecchi bagli ristrutturati. Impatterà nelle maglie della mafia che gli brucerà un cantiere per non averne chiesto ”la protezione”, e nel suo stesso scialacquare: Purtroppo di terra ne ha venduta tanta -dirà Rita a Leonardo Ponte-. E perdendo la terra si è lasciato portare via anche i sogni con cui avrebbe dovuto coltivarla.

Altrettanto torbide e incerte, rispetto alle microstorie private dei Sorci, si snodano le grandi strade della storia pubblica nazionale e isolana, cronachisticamente e velocemente evocate dalla scrittrice: dalle agitazioni giovanili degli anni ’60 (Qui i giovani -osserva Carlino che vive a Milano- hanno imparato a schierarsi, scioperano insieme agli operai delle fabbriche) alla strage della Banca dell’Agricoltura in Piazza Fontana, dalla eliminazione di Aldo Moro e Peppino Impastato all’uccisione di Pio La Torre e del generale Dalla Chiesa, dalla “svolta” del maxiprocesso al fallito attentato all’Addaura, dalla uccisione di Rostagno alla strage di Capaci, eventi che lasciano un segno nei personaggi più sensibili e aperti, quali Carlino, Leonardo, Rita, che per le loro conoscenze culturali e contatti, attuali o pregressi, con precise realtà estere sono anche più attenti alle trasformazioni globali del mondo contemporaneo (l’avanzante rivoluzione digitale, le esigenze delle minoranze, la fine del comunismo…) e inclini a vivere più dall’interno il senso e l’ansia della giustizia. <Non ci siamo ribellati -riflette Rita alla notizia della strage di Capaci-, abbiamo accettato la corruzione politica, prepotenze e imbrogli, abbiamo visto imbastardirsi tutti gli aspetti della vita pubblica, dall’istruzione alla sanità… Lo sapevamo. Lo sapevamo. Lo sappiamo… Da troppo tempo dipendiamo dal coraggio di pochi senza offrire un consenso veramente sentito e soprattutto efficace (sic!)”. Perciò il figlio suo e di Rico, Colapì, tornato da Cambridge, decide di “restare” in Sicilia (Mamma non dobbiamo rassegnarci).  Perciò lo Statuto ritrovato del Circolo del Punto Pieno e il mito del rammendo/ricamo eseguito “con amore” restano, nella conclusione del libro e nella prospettiva possibile del “migliorare“ e del “migliorarsi”, proiezione utopica di bellezza e di “pace” oltre lo smarrirsi del mondo.

Quanto alla “scrittura”, la pagina di Simonetta Agnello Hornby è sempre tutta “cose”, asciutta, senza fronzoli, avarissima di pathos.     

 

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