Sergio Carlacchiani, “Indiscrezioni dal fortilizio” (ed. RP Libri) - di Guglielmo Peralta
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- Category: Scritture
- Creato: 11 Gennaio 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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(…) la poesia che scrivo viene da un periodo d’inferno
(S.C.)
Questa silloge di Sergio Carlacchiani ha un incipit profetico, augurale, che, al di là di ciò che sembra promettere: “Lo Stato Divino”, quale è descritto e “realizzato” idealmente nel primo testo, e cioè come il regno dell’amore, della fratellanza, della giustizia, della pace, sul quale “l’Angelo di Dio (…) svetterà sul male”, è l’annuncio di un cammino non facile da percorrere, che, partendo dalla valutazione della condizione precaria del tempo presente, diviene eventualità, possibilità, aspettativa di cambiamento, di una svolta nell’esistenza umana; che cioè consenta di giungere a un crinale decisivo della storia, di inaugurare un’epoca nuova. Perché ciò avvenga è necessario che si sprigioni nell’uomo e nel mondo quell’energia vitale che, contrapponendosi alla ragione, assicuri un’esistenza più dignitosa, più vicina e conforme al messaggio cristico, trasgredito, dissipato, obliato nel tempo, in questo “mondo spento che mente / recluso nel male evocato / insorgente dall’invisibile / patogeno agente infettivo / sterminatore d’impronte / d’IO / misera storia umanizzata / eternizzata da chissà qual / dio”, e dunque, da un’umanità sempre più povera, perché priva di quello stato di coscienza che solo può metterla in contatto con il Dio che è dentro ciascuno di noi, ma che resta sconosciuto, scisso in quel “d’IO” diviso che sta a significare il mondo umano-divino non più percepibile come realtà unica e coesa. Questo iter del Nostro, inizia dall’“inferno”, come ‘recita’ il verso posto in esergo ed estrapolato da un testo della presente raccolta. Non è un viaggio nell’inferno, non è una catabasi alla maniera di Dante o di William Blake. Di quest’ultimo, tuttavia, prendo in prestito il titolo della raccolta di testi in prosa “Il matrimonio del cielo e dell’Inferno” per così denominare e definire l’unione tra le due anime opposte che caratterizzano e ispirano l’intera silloge carlacchiana. Qui, cielo e inferno sono, rispettivamente, il «dentro » e il «fuori », ovvero, il mondo dell’interiorità e il mondo esterno, l’anima del Poeta, centro del pensiero creativo, dei sentimenti positivi e della coscienza morale, e l’anima dell’umanità, “dannata” e perduta nell’inferno del mondo e che Carlacchiani “prende su di sé”, se ne fa, cioè, sofferente interprete attraverso la sua attività di poeta e di uomo di cultura a 360 gradi. Lo sposalizio ossimorico è questa capacità di “assumere” il male che spegne il cuore degli uomini, che annienta il principio vitale dell’amore e di farsi perciò promotore del cambiamento rinnovando il legame col divino e, dunque, con la verità che ci abita, secondo la lezione agostiniana, e della quale la poesia è solo un lucore e, tuttavia, mediatrice tra la visione celeste e la coscienza insostenibile di un mondo alla deriva, detestabile e maledetto.
Contro la crudeltà, la barbarie e la violenza si erge il “fortilizio” della poesia, il castello dell’intimità: unica difesa possibile per chi vive la bellezza come dimensione ed espressione del sacro e perciò da contemplare, custodire, salvaguardare. Ma proprio per questo e in virtù di essa non si può essere discreti, moderati, e contenere la rabbia e il dolore, non si può frenare la pressione interna del pensiero, il bisogno del dire, di fare sentire la propria voce; non si può eludere la domanda su tanta efferatezza e irrazionalità umana. Non ci si può “imprigionare” in una torre d’avorio, perché «il domandare è la pietà del pensiero»[1] e la pietà impone di uscire dal “fortilizio”, di essere indiscreti. E Carlacchiani, che obbedendo (ob-audire) dà ascolto alla propria coscienza di uomo e di poeta, fa dell’ “indiscrezione” la norma morale che lo sollecita all’azione. Contro il crollo dei valori, contro la disperazione, la rovina, la falsità, egli agisce in virtù di ciò che gli è connaturale e che soddisfa il suo desiderio di verità e giustizia, ossia col nobile “mestiere” e sentimento dell’artista poliedrico qual è, convinto come Blake che «chi desidera ma non agisce, alleva pestilenza»[2]. Contro l’eccesso di morbilità, contro la pandemia esistenziale, della quale quella virale, che attualmente appesta il mondo, può essere considerata un emblema, il Nostro assume toni polemici e alla domanda risponde con l’invettiva mutando la propria pietas, ovvero, il pàthos nel suo opposto: il logos; nell’atteggiamento razionale e, dunque, in màthos. Perché agire è com-prendere attraverso il dolore, la sofferenza; e denunciare con fortezza d’animo, con passione e con la verità dell’arte, è sollecitare all’azione. Così l’“inferno”, come per Blake, non è un luogo di punizione ma sorgente che sprigiona energia, la quale sollecita “una risposta ai mutevoli silenzi alle incostanze ai torti dei sentimenti umani dell’anima” e consente di affermare, di «dire sì» alla vita, non nel senso nietzschiano di accettare la realtà delle cose auspicando che ritornino eternamente identiche a sé stesse, ma nell’ottica del cambiamento, quale lo desidera il nostro poeta, per il quale la categoria della possibilità vale più della speranza, va oltre di essa. Ed è con questa “fede” che Carlacchiani afferma che “niente è per sempre”, tutto è destinato a mutare come la “luna / astro mutevole”; e così “questo tempo drogato”. Perché siamo “Anime belle (…) / marionette senza fili preghiere diventate musica / (…) chiamati dalla bellezza al sacrificio di schiudere ostili oscurità colme di sofferenza (…) / con lo sguardo imperturbabile aperto rivolto a un cielo di vita / che sbroglia matasse di nuvole per farne poesia a Dio gradita”. Poesia “che emerge dalla sofferenza / della terra e si erge sino al cielo”[3] a sigillare lo sposalizio, di cui essa è generatrice ed espressione concreta perché vitale. Perché, anche fuori dal “fortilizio”, la poesia concede al suo poeta fuggevoli e necessari approdi nel paradiso della bellezza, dove l’inferno ha la sua parte e la sua ideale collocazione. Strofe e versi celestiali, infatti, convivono con le “lingue” di fuoco, con i toni ardenti e le “cadute” del linguaggio che aderisce alla realtà tragica, “cimiteriale” di un mondo in rovina, sempre più precario e di nessuno, perché non sembra più appartenere a questa umanità senz’anima, sempre più priva d’identità, “bieca, cieca” e incurante del futuro. Condizione, questa, insostenibile, che Carlacchiani denuncia fortemente affermando che “il mondo non è nostro è di tutti”, (il pronome indefinito, qui, è inclusivo delle generazioni future) ed è un’ammonizione, che egli pronuncia con animo turbato, sospeso tra la speranza che il mondo continui ad esistere e sia dimora migliore, più ospitale, e il timore che non sia garantito, assicurato l’habitat necessario per la sopravvivenza di tutti gli esseri.
Vita e morte, rinascita e perdizione, sono le opposizioni ricorrenti che si sciolgono nel matrimonio tra il cielo della poesia e la terra alleggerita delle sue ferite perché “gioioso respiro vitale / che scorre invisibile inafferrabile / dalla terra all’aria è il benevolo Dio / che ogni rio peccato e colpa sperde”. Gli opposti poli, per “dettato poetico”, si attraggono e si compongono costituendo le due grandi isotopie[4] della luce e dell’oscurità, mai del tutto separate perché com-presenti in molti testi della silloge, alla quale conferiscono omogeneità. Ne riportiamo qui un esempio raggruppando in due campi semantici distinti le categorie semiche estrapolate dal testo intitolato “Vorrei serbare”:
Isotopia della luce: canto, poesia, ingenuità, bontà, vita, anima, bellezza, verità, ascesi, perdono, pietà.
Isotopia dell’oscurità: ingratitudine, sofferenza, orrore, tragedia, silenzio, lacrime, tempesta, peccato.
Questo amalgama di sentimenti ed elementi contrastanti - gioiosi, luminosi; dolorosi, bui - genera un equilibrio tra il bene e il male, tra il poetico e il riprovevole, tra il cielo e l’“inferno” offrendo ampi margini di speranza e aprendo, al di là di questa, un varco verso una luce possibile, come s’intravede in questi versi: “Forse dovrei darmi un’altra possibilità e perché no più d’una ? / Ma non è soltanto per insistere o per amore ma per la rinascita”. E ci sono versi di grande splendore e delicatezza, dedicati all’amicizia, all’amore, alla madre, al padre, a personaggi di grande spessore artistico, quali Chet Baker ed Ezio Bosso, che sembrano segnare una pausa nel cammino del Nostro, stanco di posare “lo sguardo nel vuoto assoluto / al capezzale della sofferenza del mondo” e, tuttavia, sempre pronto ad attingere “nella profonda sorgente di vita” quando insanabili sembrano le ferite dell’anima causate dalla malafede, dalla falsità, dall’imbecillità, dall’oscenità dell’uomo, e la poesia sembra perdere la sua forza ed essere un inutile “fortilizio”, perché incapace di rappresentare, di difendere, di sostenere davanti alla coscienza del Poeta il divino che è nell’uomo, in quanto a immagine e somiglianza del Creatore. E anche quando lo scoramento è così grande da gettarlo nella peggiore solitudine: quella che gli fa prendere le distanze dall’umanità desacralizzata, egli recede dalla determinazione di chiudersi in sé stesso “ad oltranza” e torna “al solito ruolo / quello di portavoce della poesia vera”. E non mancano, allora, le accuse e il risentimento contro i poeti spacciatori di “parole vane”, di una poesia non onesta, non autentica, indegna, offensiva ed estranea ai poeti, “punti di riferimento (…) sull’altare della fine del mondo”. La poesia, quella vissuta costantemente, è la sola possibilità di salvezza, consente di costruire sulle rovine, innalza al cielo il nostro poeta che stempera “nell’azzurro” il “rosso” dell’“inferno”e sente di appartenere alla vita rivisitandola con gli occhi del fanciullo, e abbandonando il pianto, la noia, la paura, nutre la speranza in “un mondo migliore” e attenderà “che la morte chiami per la Divina Essenza corale”. Carlacchiani è convinto dell’utilità della poesia, dell’arte, ed esprime questa certezza in maniera mirabile con la folgorante immagine del poeta e dell’attore, ai quali affida il compito di “mostrare e porgere come cameriere / su un piatto d’argento da portata la vita”. A significare che la poesia è vita, e perciò nutrimento necessario.
Ci troviamo di fronte a delle poesie di grande originalità - a partire dai titoli che suscitano la curiosità e invitano alla lettura - le quali sorprendono per l’intensità del sentimento, la poliedricità tematica e l‘esuberanza creativa e formale. Ed è una poesia, questa di Carlacchiani, di denuncia e d’impegno sociale e di grande “attualità”, che non è solo la quotidianità, ma la condizione storica dell’uomo, del suo essere, fondamentalmente, “uguale” in tutte le epoche: uomo di ogni tempo, “ancora quello della pietra e della fionda“, per dirla con Quasimodo. Sul “fronte” della sofferenza, delle violenze, delle tragedie umane, delle sorti “regressive” del mondo, la “lotta” del Nostro per il cambiamento - ideale, questo, destinato a restare irrisolto - è un vincolo morale, ed è dedizione, passione, adesione attiva ai valori della tradizione e dello spirito. Il tempo che egli dedica ai problemi “attuali” è tempo sottratto alla “poesia non scritta”: quella gioiosa, che parla di “bambini, della musica in generale dello spirito nazionale/ (…) di formiche api albatri elefanti gazzelle / di quelle cose che non si possono forse pensare”. Questo “dipanare gioviale” volontariamente evitato, soprattutto, nel lungo e doloroso periodo della pandemia mondiale sarà motivo di forte rammarico quando il virus sarà sconfitto e “tutto tornerà ad essere utile nel riavvicinarsi”. Al Covid 19 il Poeta dedica, sul finire dell’opera, alcune poesie di grande impatto emotivo, dove, oltre alla pena e allo sgomento che rabbuiano il suo cuore, egli lascia avvertire il suo bisogno disperato di scrivere, di concepire, di creare, di servirsi del dono della poesia che solo può illuminare la vita, ma che sembra essergli negato perché troppo grande è la “Desolazione”, incancellabili le immagini di morte.
Ma “la grazia non ingabbia la disperazione / è vento caldo sfiora smuove vola in cielo / da dove già ricade come gradito murmure / lampo tuono canto benedetto degli angeli”.
La poesia è la grazia che consola e purifica; che volge il Poeta al cielo e lo mette “sulla via della vita”, come allora, quando egli era bambino ed essa “corse in (suo) soccorso (…) e la vita non si sentì più inutile fu al di sopra d’ogni catastrofe”. È con questo spirito-fanciullo ritrovato che Carlacchiani si prepara “all’ennesima rinascita” e a “chiedere asilo all’umanità” ‘pacificata’ dal miracolo che solo alla grande poesia è concesso d’immaginare. L’amore per la vita e la poesia mettono il loro definitivo sigillo sul “matrimonio”. Il cielo si distende sopra l’“inferno”. La silloge si chiude con questo messaggio augurale, che richiama l’incipit dell’inizio.
[1] Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più cominciano a illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo. Perché il domandare è la pietà del pensiero. M. Heidegger, «La questione della tecnica», in Saggi e discorsi (Vorträge und Aufsätze), a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976
[2] Da Il matrimonio del cielo e dell’Inferno. Proverbi infernali, W. Blake
[3] Da Ti consegnerò le chiavi di casa, testo non compreso in questa silloge
[4] Secondo Greimas, l'isotopia è la ripresa di semi che si ripetono lungo la catena sintagmatica del testo, producono ridondanza semantica rendendo la lettura del testo uniforme, omogenea