“Si può essere felici in tempo di coronavirus?” di Daniele Fazio

Un ospite sinistro prepotentemente è venuto ad abitare nel nostro mondo. Sembra proprio il corrispettivo biologico di un altro ospite inquietante che da tempo domina il nostro Occidente. Nichilismo e coronavirus sembrano proprio i fratelli killer del corpo e dello spirito, della ragione e della relazione. La decadenza culturale dei tempi riesce poco, nonostante le disparate narrazioni della pandemia ad esprimere, voci chiare, impertinenti, inattuali perché eterne. E allora nella prolungata quarantena ci si sente orfani della parola di tanti maestri che in questi anni ci hanno lasciato. Tra gli astri del pensiero di questo primo scorcio del Terzo millennio, mi è spesso tornato alla mente con non poca nostalgia il filosofo tedesco Robert Spaemann, che ci ha lasciati a dicembre del 2018.

Ho studiato il suo pensiero, ho pure provato a scrivere qualcosa che avevo compreso circa la sua proposta filosofica. Quindi, ho avuto la fortuna di conoscerlo personalmente a Roma nel 2009, sottoponendolo ad una prolungata intervista, cui amorevolmente si sottopose con i suoi occhi vivaci e profondi, scandendo parole sicure e precise. Mi sono chiesto ripetutamente cosa avrebbe detto questa mente lucida del nostro tempo di fronte all’emergenza pandemica; cosa avrebbe pensato di questa umanità che più rincorre il piacere e più si allontana dalla felicità. Già la felicità! Spaemann era un maestro della felicità, o come lui la chiamava – per evitare soventi confusioni con un linguaggio ordinario – la vita riuscita.

Allievo di Joachim Ritter aveva potuto analizzare come la modernità lascia alla fine delusi, è manchevole della prospettiva metafisica e senza questa non è pertanto in grado neanche di raggiungere gli stessi obiettivi che si pone. È una sorta di cantiere sempre aperto, una passionalità che non trova mai soddisfacimento e per questo non tollera alcun incondizionato. Allora, bisogna muoversi – istituzionalizzando l’ “ingenuità” – attraverso la rammemorazione di ovvietà per compensare la modernità, ossia tornare a far coesistere la domanda sul “perché” con quella sul “come”. Tra l’altro sono questi gli interessi simultanei della ragione che ogni uomo vive. Ecco perché – rinnovando la lezione della filosofia pratica di Aristotele – Spaemann intendeva la felicità come un vivere bene, avendo ben presente che la vita è una totalità in continua tensione verso il bene. L’etica, allora, non sarà altro che una dottrina della vita riuscita, che pone all’origine ancor prima che domande circa i doveri dell’uomo o su cosa egli possa fare o meno, la domanda su come si deve vivere, la domanda sulla felicità.

All’interno di questo orizzonte ci possiamo dunque chiedere: come essere felici in tempo di pandemia? Da profondo pensatore Spaemann avrebbe subito guardato alla questione in maniera universale, intercettando costanti metafisiche, etiche ed antropologiche valide per l’umanità di ogni stagione. E allora la domanda sarebbe diventata: che rapporto devo intrattenere con ciò che non posso mutare? Quale stato d’animo o meglio atteggiamento interiore è opportuno assumere davanti ad una spada di Damocle epidemiologica che caratterizzerà per un periodo, non si sa quanto lungo, la nostra esistenza?

Il discutere su tale plesso teorico può sembrare, a prima vista, poco attinente all’etica, ossia con la descrizione o prescrizione di indicazioni circa il comportamento auspicabile per gli uomini. Invece tale domanda si scopre come veramente centrale in quanto l’uomo nel suo agire va a scontrarsi con ciò che gli antichi chiamavano Fato o destino. Ricordiamo Seneca che sotto il potente influsso dello stoicismo sentenziava: «ducunt volentem fata, nolentem trahunt». Agiamo sempre all’interno di una struttura, di un contesto, di un passato personale e sociale che giunge a noi e da cui non possiamo fuggire. Davanti a tale constatazione si possono sempre imbracciare tante vie, ma quale è quella più ragionevole? Davanti a qualcosa più grande di noi stessi che responsabilità possiamo rivestire? Ci si deve interrogare, allora, seriamente su quale rapporto si deve instaurare con la realtà, in modo da permettere alla vita da un lato di sgravarsi di una responsabilità “cosmica”, pena il suo annichilimento e dall’altro di non ridurla ad inattività. Ogni uomo agendo si mette in relazione con una realtà che lo supera. Questo significa essersi già inseriti in un circolo in cui – consciamente o meno – il destino viene assunto e accettato.

Le condizioni – anche tragiche – in cui agire sono già predisposte. Esse ci sfidano. Traducendolo in termini attuali: la condizione che ci accompagna e in cui non possiamo rinunciare all’azione è quella del dominio di un virus tendenzialmente letale. Non che le condizioni non possano mutare e tanto meno non si dà in assoluto l’incapacità dell’uomo a mutarle, scoprendo, ad esempio, un vaccino o una cura, ma è pur vero che se rinunciamo ad inserirci nelle condizioni in atto sarà impossibile anche la stessa azione migliorativa. I presupposti sono certamente di natura esterna e riguardano la storia, i limiti della natura, le scelte politiche, gli errori o le buone azioni di altri uomini, ma sono anche legati alla nostra biografia, al nostro dato esistenziale, alla nostra natura particolare, alle nostre tendenze psicologiche. Allo stesso tempo, noi segniamo i presupposti per noi stessi e per le future generazioni, quindi possiamo dire che segniamo con le nostre scelte, in qualche modo, il nostro destino e il destino di altri. Un destino che, tuttavia, non solo in riferimento al passato, ma anche al futuro non è totalmente in nostro potere in quanto ogni azione fatta o anche ogni omissione ha degli effetti a lungo termine che non è possibile del tutto dominare. Agire e subire in questo senso si mescolano e proprio il nostro tempo sembra porci all’interno di questa necessità: un’azione, una ripresa del cammino che ci espone a subire, a rischiare la nostra stessa vita.

Davanti a ciò che accade e si presenta come immodificabile, cosa fare? Vi sono tre atteggiamenti che il filosofo di Stoccarda enuclea con la sua analisi. Il primo risiede nel fanatismo. Il fanatico è colui che impone il senso degli accadimenti. Al di fuori del suo inquadramento soggettivo della realtà non può darsi nulla. La stessa realtà sbiadisce. Non accetta che vi sia un destino che lo superi. Potrebbe al limite riconoscerlo, ma ciò non diventa determinante per il suo pensiero. È il tipico atteggiamento della modernità rivoluzionaria che non riconosce alcun limite nei fatti e con la sua azione vuol cambiare i connotati strutturali del mondo. Solo all’interno del suo orizzonte il mondo acquista un senso.  

Il secondo atteggiamento – di segno contrario al primo – è connotato dal cinismo. Il cinico prende le parti della realtà contro il senso. Ragion per cui la sua azione diventa meccanica. Egli sta sempre dalla parte del più forte perché pensa che il diritto si impone con la forza, anche con la forza della maggioranza, ed in questo e non in altro intravede il corso ineluttabile del mondo. Così si vive schiacciati nella realtà. In fin dei conti né il fanatico, né il cinico credono ad un senso intrinseco che la realtà già reca in sé.

Al di là, però, del fanatismo e del cinismo – due facce della stessa medaglia – Spaemann, propone un rapporto con la realtà che non possiamo mutare imperniato sull’antico atteggiamento ragionevole o filosofico che definisce: abbandono fiducioso. Questo sintagma è la traduzione della parola tedesca Gelassenheit. Tale orientamento affonda le sue radici nella mistica medievale tedesca, quale accettazione fidente della volontà di Dio, di fronte a tutto quanto accade. Ha ulteriormente avuto anche fortuna nella teologia riformata, giungendo persino all’attenzione di Martin Heidegger. Naturalmente l’accezione con cui tale termine viene captato dalla filosofia contemporanea lo priva del riferimento a Dio, appaiandolo in qualche modo ad una sorta di apatia stoica. Comunque lo si possa interpretare l’abbandono fiducioso è una precisa modalità di porsi innanzi alla realtà con le conseguenze psicologiche che ne derivano. 

Considerato questo, esso è l’atteggiamento di chi accetta il limite del proprio agire e non trasforma la realtà nelle sue desiderata ideologiche. È l’esercizio dell’amicizia con la realtà e con se stessi che ci permette di dare un senso a quello che si fa e più in generale all’esistenza che si vive in ogni circostanza. A volte anche lo stesso senso sfugge e allora bisogna ragionevolmente piegarsi alla stessa superiorità di un qualcosa che non possiamo manipolare, ma perché veramente si sono configurate tutte le condizioni di un’impossibilità di agire positivamente. Siamo, in questo senso, sgravati da responsabilità.

Il filosofo di Stoccarda non pensa tanto all’esperienza del saggio stoico, quasi a rinchiudere l’abbandono fiducioso in una sorta di rassegnazione, ma alle figure di Giobbe e di Gesù Cristo, che propongono il loro punto di vista migliorativo, ma accettano una volontà ulteriore, perché in fondo il punto di vista assoluto non è posseduto dall’uomo. Anche il fallimento acquisisce un senso in quanto inserito in una realtà in cui siamo relativi e non assoluti, ma a cui concorriamo anche con i nostri risultati mancati. Chi vive all’insegna dell’abbandono fiducioso, allora, non deve rinunciare all’agire per il bene, ma sa che l’azione, anche quando fallisce o è impotente, misteriosamente si accorda con il corso del mondo e che il bene stesso troverà sempre la sua strada prima o poi. Ragion per cui bisogna agire per il bene immunizzandosi da un effetto collaterale insidioso che sta nell’ansia da risultato.

Vivere all’insegna dell’abbandono fiducioso per Spaemann non può aver che un unico presupposto metafisico della realtà, che vi proviene dalla visione cristiana. Essa si può affermare pienamente solo se si è considerato che all’origine della realtà vi è Dio, il Signore della storia, ossia la Provvidenza che accorda le nostre buone intenzioni e le nostre azioni con il corso del mondo. Dunque, alla fine tutto concorre ad una realizzazione piena in cui il male non avrà l’ultima parola. L’abbandono fiducioso – che non è fatalismo – diventa così l’estrema caratteristica dell’uomo felice. Egli non cerca alcun premio ma già lo vive giornalmente nell’esercizio costante della virtù, nell’amicizia con il mondo, con la realtà, con se stesso e con gli altri. Altri che deve aiutare nell’accettazione fiduciosa – e non fatalistica – del destino.

Si può essere felici anche in tempo di coronavirus? Spaemann risponderebbe sì. È una grande lezione, da meditare e da attuare.

 
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