Tommaso Romano, "Oltre il sopravvivere" (CulturelitEdizioni)

di Guglielmo Peralta

 

 

Questo romanzo breve o racconto lungo di Tommaso Romano inizia dalla fine, con la morte del protagonista Marco Colonna, del cui suicidio apprenderemo solo a metà della narrazione, anche se il tragico evento è anticipato da molti indizi, che sono i tratti psicologici della sua personalità complessa, il suo carattere difficile, contrassegnato da “indecisione congenita e nolontà”, nonché un’“esistenza in fondo monotona, da alto burocrate” accompagnata da delusioni, da “tante illusioni e lusinghe”, dal fallimento del suo matrimonio, dal rapporto tormentato con atre due donne. La sua “storia senza storia” è esposta dal suo più caro amico, Alessandro, narratore omodiegetico in quanto personaggio coprotagonista e, dunque, interno alla vicenda. Tuttavia chi, come me, conosce personalmente Tommaso Romano e i suoi scritti, non avrà difficoltà a ricondurre a lui quegli elementi ‘biografici’ che qui sono riferiti a Marco e ad Alessandro, in una sorta di transfert narrativo-letterario. Pertanto, L’Autore è presente come personaggio e narratore in Alessandro, ed è “raffigurabile” in Marco: il personaggio protagonista sul quale egli trasferisce sentimenti, passioni, interessi culturali propri. All’Autore, infatti, è riconducibile quanto egli attribuisce a Marco: l’amore per “il jazz e la lirica, il teatro di prosa e soprattutto le buone letture”. Sua è la biblioteca ricchissima di libri; cari a lui sono gli autori citati nel corso della narrazione: poeti, scrittori, filosofi, musicisti - Mahler su tutti -  pittori, storici, psichiatri; essi circolano nelle sue vene e sono la sua “Spiritualità e Letteratura”. E, ancora, lui è l’intellettuale-editore citato da Anna Maria, l’amica di Alessandro e di Marco, e “patrimonio” dei suoi occhi e del cuore sono quei luoghi sacri della cultura, di cui fa cenno Alessandro, e che hanno ispirato Tomasi di Lampedusa e sono stati la “magica dimora” del poeta Lucio Piccolo, del fratello Casimiro, esoterista e della sorella Agata, botanica. E a questi luoghi è legato il ricordo di Bent (Parodi), amico carissimo del nostro Tommaso.

Dopo queste osservazioni, frutto del mio personale punto di vista, riprendo a parlare di questo racconto. Esso è un lungo flashback, è una pellicola d’immagini che scorrono nella memoria di Alessandro, e sono gli eventi del passato, episodi, esperienze, confessioni, lacerti di vita dell’amico,  che egli mette insieme per ricostruire, per ricomporre quella “storia senza storia”, per dare senso a una vita vissuta come una continua sopravvivenza e, dunque, come perenne ricerca di un’autenticità, che Marco forse raggiunge con quel gesto estremo con cui firma la sua morte rendendola personale, fuori dall’anonimato del “si muore”. E qui, in quest’atto, la voluntas coincide con la “nolontà”, che è la sua negazione, “la libertà di poter morire per lo scacco esistenziale”.

Il suicidio può sembrare una resa per un uomo come Marco, che ha agognato disperatamente la felicità (di questo ci dà conferma l’amico Alessandro: “La ricerca dell’utopia della felicità non voleva passargli dalla sua mente”). E la resa può apparire inevitabile se lo si paragona a Ulrich:  «L’uomo senza qualità». Ma, a differenza del protagonista del romanzo di Musil, Marco non è privo di autentici interessi (quelli che abbiamo elencato riconducendoli all’Autore) e non è distaccato dalla realtà nonostante studi “le tecniche dell’atarassia orientale, l’esicasmo, i padri del deserto, i mistici medioevali”. Egli, piuttosto, è l’uomo diviso, a due dimensioni, diversamente dall’uomo di Marcuse, ed è figlio di questo tempo di crisi, di questa società malata. In lui convivono le due forze opposte che esistono sempre in uno stesso soggetto, come sostiene Otto Rank nel suo libro “Il Doppio”: “la vis libidica e creativa, ma anche la distruttiva e l’annichilimento”. Marco è, dunque, un  uomo complesso, in continuo conflitto con sé stesso, con  la sua parte migliore che non riesce a proiettare all’esterno, con la quale potrebbe, forse, dare una svolta alla vita che finisce per subire e lo costringe a una sopravvivenza sostenuta, supportata dall’amore che, tuttavia, poco concede a lui, eterno innamorato deluso e trascurato, in certe occasioni e “in modo plateale”, da Maria Selene: la donna che egli più di tutte ha amato e che avrebbe potuto salvarlo e con la quale non è mai riuscito a stabilire, a consolidare una vera relazione (“Maria Selene, infatti, continuava a rimandare incontri e inviti e, tuttavia, non chiudeva lo strano rapporto”). È questo amore irrisolto - perché troppo idealizzato, “aurorale, tipico degli innamoramenti degli adolescenti”, che non lo ripaga, non “nutre le sue passioni”, non soddisfa le sue pulsioni sessuali, che non trova corrispondenza ed equilibrio nel godimento dei sensi - a gettarlo nell’inazione e nella solitudine, a volgerlo là, “al cor gentil” dove esso, l’amore, “rempaira sempre” dandogli nuovi occhi che purificano, che gettano una luce diversa, candida, su Maria Selene, la quale gli appare improvvisamente come “una perla”: “Avevo una perla davanti a me e non me ne ero accorto” - confesserà ad Alessandro.

È a causa di questo amore ‘assoluto’, purificatore, ma che non vince sulla vita, che si fa strada nell’anima fragile di Marco il “cupio dissolvi”: quel desiderio progressivo di estenuazione, quella volontà di autodistruzione che diviene, nel tempo, il sentimento della morte: quasi un vizio letterario e un pensiero dominante, che trova in  Pavese la sua complicità e fascinazione. - “Pavese, il Poeta che non posso emulare, io non sono uno scrittore né un poeta”. Così verga nell’atto testamentario, di cui l’amico Alessandro sarà l’esecutore designato. E, tuttavia, non potendo egli emulare con la penna l’amato Poeta, lo imita nel suo ultimo atto. (“Si era ucciso nel suo letto aprendo il gas, in compagnia di un libro di Cesare Pavese”). 

Per Marco la morte è stata un assillo costante. Essa, contrariamente a quanto afferma Wittgenstein[1], non è riuscita a dare significato alla sua vita togliendole anzi ogni senso. Ed è proprio questa mancanza di senso che dà a Marco, in un primo momento, “la libertà di vivere, malgrado la morte”, ovvero, di “sopravvivere” al vuoto, di abbandonarsi al mistero e vivere ad ogni costo.  “Oltre il sopravvivere”. Sarà quella morte tragica, voluta, a dare alla sua vita la possibilità di essere riconosciuta, rivalutata, riscattata. Essa rivelerà ad Alessandro, ad Anna Maria, a Maria Selene, agli amici più cari la sua grandezza, la sua anima bella, sensibile, di vero poeta, racchiusa  in sette poesie trovate casualmente dall’amico scritte sull’ultima facciata di alcuni libri. Un’anima che si consegna e si concede nella sua luce straordinaria, alla quale non fa ombra la morte, la quale darà a Maria Selene la comprensione dell’amore a lui negato e la volontà di custodire la sua memoria; ad Alessandro un nuovo “orientamento esistenziale”, uno sguardo e un sentimento nuovi sul destino dell’uomo e del mondo: la fiducia nell’uso migliore del “libero arbitrio”, per cambiare, per crescere in umanità.    

 

 

 

 

 

 


[1] «Solo la morte dà significato alla vita», in Diari segreti, Editori Laterza

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