XXIV Capitolo - "La mia vita" di Antonio Saccà

Antonio Saccà da giovane

È opportuno, anzi necessario spiegare a chi non ha vissuto l’ epoca che narro conoscere la situazione culturale e sociale. Negli anni ’60 serpeggiava ancora l’ ipotesi rivoluzionaria, molti credevano ed io tra costoro che esisteva indispensabilmente l’ urgenza di cambiare la società, i modi potevano essere violenti, graduali, comunque imperativi e alternativi alla realtà che vivevamo. E noi vivevamo una realtà di sfruttamento del lavoro, del dominio di chi possedeva sui chi non possedeva, della migrazione da Sud a Nord dolorosissima, ma soprattutto di un sogno, che la classe nuova, l’ ultima classe, il proletariato, fosse capace di rifondare relazioni umane, umane, che il proletariato fosse capace di sfuggire, di oltrepassare rapporti esclusivamente utilitaristici, di non dare all’ economia il primato sull’ arte e sulla cultura, insomma che il proletariato riproponesse l’ umanesimo in epoca industriale e attuasse le promesse, le vanterie delle società capitalistiche di un benessere mondiale e consentisse la realizzazione della libertà, non verbosa, me effettivamente. Prospettive del Marxismo e ovviamente dei Marxisti, coloro che erano sfruttati liberandosi dallo sfruttamento avrebbero eliminato lo sfruttamento. È la premessa fondamentale del Marxismo. Con la scomparsa dello sfruttamento cessava l’ alienazione e la classe più diseredata, non essendolo più, avrebbe cancellato dal mondo la diseredazione. Era il sogno trasferito al proletariato della borghesia. Anche la borghesia, il capitalismo aveva promesso la “liberazione” mondiale dal bisogno con l’ espansione mondiale del capitalismo. Questo è l’ elemento essenziale di quegli anni, una gara tra chi progettava la felicità universale, il capitalismo o il socialismo nella forma comunista? In aggiunta alla teoria centrale ,contorni interessantissimi, la fine della classe media, la sottoproletarizzazione del proletariato, la disoccupazione di massa per l’ avvento dell’ automazione. In tanta crisi il capitalismo non avrebbe potuto reggere, e inevitabilmente,  indispensabile modificare la struttura economica: socializzazione dell’ economia. In realtà almeno in quel periodo avvenne l’ opposto, mediante la società dei consumi il capitalismo ebbe acquirenti ed avendo acquirenti si dilatò e dilatandosi suscitò occupazione, e suscitando occupazione favori l’ integrazione. Il che permise di acquistare la casa, di far studiare i propri figli, di far diventare piccolo borghesi i proletari, gran parte di essi, e addirittura di far vivere con un certo agio al Nord i disperati emigranti del Sud. Su tutto questo avrò modo di parlare successivamente.

Nel mio Saggio, pubblicato su Nuovi Argomenti, questo fece scalpore, dichiaravo nettamente che gli scrittori reputati di sinistra ignoravano il Marxismo, erano di sinistra ma difficilmente avrebbero potuto rendersi coerenti con la vera sinistra: innanzi tutto per sconoscenza della condizione operaia, e, fondamentalmente, perché non avevano idea della rivoluzione, della dialettica rivoluzionaria. È bene precisare poiché è un punto decisivo. Intellettuali e scrittori si fermavano alle soglie della lotta di classe, anche violenta, non ci fu scrittore che accettasse di ammazzare in nome della rivoluzione, addirittura perfino la guerra diventava una paralisi morale, uccidere durante la guerra, e si finiva con una teorizzazione contraddittoria: chi fa il male a chi fa il male fa il male. Precisamente: chi reagisce al male uccidendo perde l’ umanità. Taluni scrittori, ad esempio: Elio Vittorini, Carlo Cassola, esplicitavano questa situazione paralizzante, ed Alberto Moravia giungeva ad una forma di astenia dall’ azione: i suoi romanzi in cui è presente la guerra: “La ciociara” e “La romana” hanno per protagonisti intellettuali bloccati all’ azione omicida, questo era antitetico al Marxismo, l’ esatto contrario, sicché io sostenevo nel Saggio pubblicato su “Nuovi Argomenti” che scrittori di sinistra realmente di sinistra, rivoluzionari insomma, in Italia non ce ne fossero, anzi l’eredità cristiana dominava, però vi era un equivoco che confondeva la cultura, una presunzione di cultura di sinistra, che non era di sinistra, e che in fondo non è che avesse chiaro il risultato dei suoi fini. Questo avrà conseguenze future di cui dirò. Inoltre i “marxisti” erano carenti su altri problemi. In quel tempo, il rispetto per la qualità estetica, e per i temi esistenziali: la morte, l’ amore era sal minimo.Fondamentale schierarsi, farsi impegnati.. Come ho accennato il Saggio fece scalpore internazionale, e alcuni gruppi, diciamo, soprattutto quelli di Milano mi avversarono (Umberto Eco, Giansiro Ferrata) mentre a Roma Elemire Zolla mi tolse il saluto perché nel Saggio avversavo anche lo spiritualismo considerato reazionario o conservativo, passatista. In ogni caso ebbi le porte spalancate ovunque, collaborai a “Nuovi Argomenti”, ancora, collaborai a “Paese sera”, collaborai a  “L’ Unità”, collaborai a “Mondo nuovo” e collaborai ad una rivistina che però mi diede modo di esprimere la mia determinazione a non trascurare il carattere nazionale, l’ amor patrio, la rivista era intitolata “Il pensiero nazionale”, diretta da un signorile reduce del fascismo di sinistra, l’ uomo più piccolo che abbia mai conosciuto, Stanis Ruinas.

Torno alla mia vita. Quella proprio mia. Si chiamava Enrica la giovane donna che avevo conosciuto nell’ istituto dove insegnavo, se è ancora vivente, e spero che lo sia, tenterò di farle conoscere quel che scrivo. È una scimmia pesante che mi curva la schiena, la scimmia della colpa, del male che ho compiuto. E verso questa giovane donna di male ne ho compiuto troppo perchè non lo sfoghi narrandone. Era carezzevole, sopportatrice, era quel che si considera, o si considerava, la femminilità incarnata, non nel senso che dovesse subire, tutt’ altro, ma in quanto disponeva ad essere cortesi, affettuosi, ben disposti verso di lei. Non concepiva il diverbio, la voce alterata, la lite, e non per una volontà imposta, ma per disposizione d’ animo nativa, e questo avrebbe dovuto suscitare serenità, fiducia. Muoveva le mani con un gesto amichevole quasi carezzando l’ aria, la voce era minima e riguardosa, l’ aspetto totalmente femminile, o almeno quello che si considerava femminile, anche lo sguardo aveva una disposizione comprensiva, assolutamente, ripeto, la donna, almeno come veniva concepita, e niente, niente, assolutamente niente di succube, passivo, soggiogato, l’ opposto, suscitava rispetto, riguardo. Avrebbe dovuto suscitare rispetto e riguardo, e affettività e amore. Ma io non ero in condizione di oltrepassarmi nella fiducia o nell’ abbandono rasserenato. Ricordo situazioni incredibili,  l’aspettavo a Via Veneto, avendo preso abitazione a Via Sicilia, all’angolo del “Caffè Dhoney”, un punto fondamentale della Roma dell’ epoca, Enrica giungeva ma non mi veniva incontro, si fermava a  distanza, con un certo timore di capire di che disposizione d’ animo io fossi, perchè già dall’ inizio del nostro rapporto ne avevo fatte di pesanti nei suoi confronti. Enrica era la primogenita di una famiglia medioborghese: La madre ancora bella, una sorella bellissima: una vera scultura del ‘500 o raffigurazione, grandi capelli biondi chiari, fu sposa di un  imprenditore e politico. Vi era anche un’ ultimogenita. Il padre,  fascista , ne subiva le conseguenze. Piombai su questa famiglia e la squassai. Dopo pochi giorni del nostro rapporto cominciai ad assillare Enrica di chiamate, di sospettarla di chissà che, ad avere una fisicità estrema, continui, a farla partecipe del mio mondo culturale. Andavamo insieme da Moravia, Enrica non era nata per questa temperie, tutto in lei inclinava alla pacificazione, alla calma, alla fiducia senza turbamenti, io volevo vivere estremamente, Enrica voleva vivere serenamente, ed il portarla nella mia vita, ed al livello della mia vita, con i massimi esponenti della cultura la rendeva felice per me ma turbata per sé,  un mondo che non poteva controllare e credeva che io appartenendo a quel mondo non avrei avuto riguardo per la situazione più modesta in cui lei si muoveva, anche  la sorella aveva legami , poi matrimonio, con un uomo politico imprenditoriale internazionale. Ma  Enrica non voleva questo, non aveva ambizione, anzi era gioiosa per la sorella, lei voleva la pacificazione, l’ onestà, l’ amore quieto. Mi dispiace, ora son passati tantissimi anni, d’ aver sbaragliato questa sua vocazione all’ amore sereno. La vicenda sarà drammatico. Un dramma che mi dispiace ancora. Ma le due forze erano discordantissime, io volevo far qualcosa della mia vita, Enrica voleva soltanto vivere. Forse mi avrebbe concesso una pace che non ebbi più nel futuro personale. Difficile trovare la risposta. Mi sarei annoiato con lei? Era da preferire la noia al dramma o alla tragedia che vissi negli anni futuri? Intanto viaggiavo, scorrazzavo, conoscevo e con taluni mi rapportavo amichevolmente. Preparavo il mio secondo libro. Invitato dappertutto, e in uno di questi convegni, ad Assisi, nella Fondazione di Don Giovanni Rossi, incontrai la donna, la signora dallo sguardo azzurro che avevo visto quando rividi Pasolini. Si chiamava Elsa De Giorgi

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