Tommaso Romano, Togo, "Nove per Nove" (Ed. Thule - Ex Libris) - di Antonio Martorana

La conversione dell’arte da rappresentazione a comunicazione, tema dominante dell’art nouveau, riconducibile all’identificazione di arte e vita, aveva trovato piena attuazione nell’esperienza delle “Revue blanche” (1891-1903), culminante – rileva Giulio Carlo Argan – nella «riduzione dell’arte a pura immagine visiva» che «la pone in parallelo con la poesia, il cui valore non è più nei concetti, ma nelle immagini verbali, nel significato dei suoni». Così, sul terreno della convergenza di arte e poesia si trovarono a collaborare artisti (Toulouse-Lautrec, Sérusier, Bonnard, Vuillard, Denis) e letterati (i fratelli Natanson, Mirbeau, Jarry, Fénélon).

Tale sperimentalismo era alla base di un’esperienza estetica assolutamente innovativa, nel tentativo di fondere sensazione visiva e sensazione fonica, nella prospettiva dell’apertura ad una dimensione totalizzante dell’opera d’arte, secondo l’ideale wagneriano. L’obiettivo cui si puntava era quello di far uscire lo spettatore da un’attitudine alla passività ricettiva, per un suo più efficace coinvolgimento emotivo.

Oggi, nella scia di quell’esperienza significativa si incontrano due giganti del segno; Tommaso Romano, gigante del segno poetico, ed Enzo Migneco, universalmente conosciuto come Togo, gigante del segno grafico. Ed il contatto avviene sul terreno del Dasein, ossia dell’”esserci” dell’opera d’arte come entità spaziale entro cui dialetticamente convergono, armonizzandosi in una simbiosi, il figurativo e la parola poetica.

Presso la galleria Li.Art. avvenne la presentazione della silloge poetica scelta di Tommaso Romano, in contemporanea con la mostra pittorica di Togo: i campi semantici di nove liriche trovano, singolarmente, come un naturale prolungamento figurativo nei campi semantici dei nove dipinti corrispondenti. E quella ideale linea di congiunzione sta a dimostrare che le varie forme della natura sono rappresentative di valori simbolici universali, essendo la natura stessa una rappresentazione di valori simbolici universali, essendo la natura stessa una rappresentazione in forme finite e visibili di forme infinite ed invisibili, le forme della trascendenza.

Si verifica insomma il miracolo di una creazione binaria, frutto dell’abbraccio creativo tra l’istanza poetante e l’istanza iconica, dove i segni verbali e grafici, chiamati ad esprimere l’intuizione del mistero cosmico e la bellezza della Creazione, stanno a significare, per usare le parole di Argan, il continuo «trapasso dall’energia alla materia ed il conseguente ritorno dalla materia all’energia», apparendo come «embrioni vitali», filamenti animati, condensazioni o dissolvenze di colore: una realtà continuamente nascente non può darsi che in segni “nascenti”, simili agli scarabocchi con i quali i bambini formulano la loro prima albeggiante intuizione del reale».

L’interpretazione del divenire cosmico, che sul piano teorico trova la sua possente sintesi nel mosaicosmo romaniano, si trasfigura qui nella tersa limpidezza del sistema segnico di nove liriche che finiscono per confrontarsi, come differenti piani linguistici di uno stesso discorso, con l’incandescente cromia di un espressionismo sui generis, ma egualmente capace di straordinaria forza prensile, dei nove dipinti toghiani. Nella loro non deducibilità dal codice della morfologia naturale, il che equivale a dire nella loro trasgressività, aderente al principio di Kandiski, secondo cui la riconoscibilità nuoce all’arte, quei dipinti rendono le forze invisibili del cosmo nel momento in cui si proiettano sul paradiso terrestre di un paesaggio mediterraneo, dove il sole, come un falco, irrompe radente ad accendere i colori.

 

Palermo, 26 aprile 2024                                              

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