Un “ei fu” per Lucio Zinna - di Antonino Contiliano
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- Category: Scritture
- Creato: 17 Luglio 2024
- Scritto da Redazione Culturelite
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L’uomo-cittadino e poeta Lucio Zinna, se l’è portato via il mese di luglio del 2024. Il suo “ei fu”, dalle correnti notizie di stampa, è stato correlato, giustamente, con la sua ricca e preziosa attività di poeta, scrittore e critico (di un Novecento travagliato tra avanguardie e conflitti territoriali sul senso del fare poesia dentro o fuori l’Isola). Ma lui se n’è andato via in punta di piedi e con silenziosa eleganza e differenza senza paragoni. Usare “l’ei fu” per un poeta (e un amico) non è mai cosa gradevole, seppure – docet l’insegnamento di fratello Spinoza – di fronte a certi eventi (come il morire della vita e di un essere che della poesia fece ragione d’essere e di con-essere-con …) non c’è né da piangere, né ridere, né dolersi; capirne il lascito con i suoi legami temporali e storici è invece il compito cui non si deve togliere attenzione e azione.
Tralasciamo di ripetere i titoli della sua molteplice produzione letteraria, artistica e saggistica (per inciso: i frammenti di poesia, presenti in queste nostre righe, sono tratti dal suo libro “Poesie a mezz’aria”, 2009).
Per poco che possa essere, nella mia memoria di amico (quale sono stato) e stimato interlocutore, vivo rimane invece il ricordo della sua confidenza comunicativa con gli animali non umani, i gatti. Il rifiuto di dividere il vivente della polis tra l’uomo (superiore) e l’animale (inferiore). Non che non distinguesse! Entrambi terrestri! Dopo tutto qualche testa greca (Aristotele) aveva definito l’uomo zoon politikon; e tale perché presso di lui “ha” luogo il logos/linguaggio. Il campo dei segni che lo fa interagire con l’ambiente e gli altri, modificando via via lo stare e la relazione d’essere delle/con le cose. Non diversamente, per Lucio, il gatto “Raffaele” (non dimenticare Leo, Flint e Clotilde: i compagni non umani cui ha dedicato poesie). Una sintonia senza eguali. Una co-percezione di silenzi, riservatezze e discrezione che passava attraverso i segni e il senso di mutua e tacita intesa quanto eloquente (dote poco frequentata dove il moderno scismatico ha colonizzato i tanti cervelli umanisticizzati). Quando andavo a trovarlo nella casa di Palermo (Via Di Marco), prima che si trasferisse a Bagheria, gatto Raffaele, ad un cenno del poeta, usciva dal suo studio con garbo saputo. Neppure una protesta (un miagolio). Il poeta Zinna, sommessamente e dignità gestuale non imperiosa, gli diceva: si deve parlare d’altro rispetto al nostro abituale convivere: io dietro il mio tavolino e tu seduto sulla sedia dirimpettaia (uno stare di assenso e condivisione). L’esistenza del con-vivere di un altro e “nuovo umanesimo”: quello del rispetto, della tutela e della relazione inclusiva con/degli animali non umani. Bruno Latour avrebbe detto del poeta Lucio Zinna di un uomo mai completamente moderno: un uomo cioè che sa di vivere con i non umani come relazione irrinunciabile di interdipendenza; un poeta e uomo che non ha mai amato la separazione netta tra natura e cultura (natura naturans e natura naturata). Di questo nuovo umanesimo a venire n’è presaga testimonianza la raccolta di poesia a “mezz’aria” che Lucio Zinna ha pensato e scritto nella sua “tenda” (il guscio di noce – diceva – dove non si sentiva separato dal resto del mondo con le altre cose e gli eventi).
Come amava dire dalla sua tenda di nomade (la tenda come il guscio di noce shakespeariano, il luogo come parte che contiene il tutto), e in compagnia, si fa per dire, della moglie Elide (Il libro porta la seguente dedica: “ A / Elide/ alla nostra/ tenda indiana”), il poeta s’inoltra per siti, ansiti, transiti o “migrazioni” come le cicogne/gru di brechtiana memoria. Il volare lontano e fra le nuvole per non aver spezzate le ali dal fucile delle dittature democratiche della modernità dei cacciatori di teste odierne, o non morire per altre asfissie:
Poter migrare / come gru / come cicogne // un balzo / verso l’alto / da un tetto / di tegole rosse / un primo / battito d’ali // e via / in direzione / dell’altrove // fra nuvole e terra / sostando su un camino / o una torretta / e poi avanti // lontano // portandosi appresso tutto / vale a dire / se stessi (p. 21).
È la tenda dei nomadi, di quelli che non abbandonano mai la propria terra e la connessione con gli altri esseri che ne abitano la vita. Il suo luogo a “mezz’aria” di appartenenza/referenza, la migrazione interna/esterna (inseparabilmente) per un umanesimo inclusivo: “[…] / […] essere espressione di un nuovo / umanesimo (secondo cui ogni vivente / è – a pari dignità – abitante del pianeta) né di equivalere per quelle anime bambine / a una Madre Teresa di Calcutta” (p. 50).
È un viaggio in tenda indiana dove i viaggiatori, in mezzo ai “gas di scarico” della modernità selvaggia, comunque, respirano (come “sapore d’infanzia”) la rianata, mentre, consapevoli che “passa tutto / (anche il futuro)” (p. 18), si invita una compagna di viaggio, “con (inquieta) gratitudine” a non sprecare la “dolcezza di sorrisi (non sprecarli / i sorrisi destinali a sicure consonanze / fanne dono non stereotipo)” (p. 17).
In altri testi, il mondo fatto di cose e affetti semplici quanto profondi ed eterogenei, sebbene derisi e sottovalutati, o svenduti dal mercato globale del presente delle guerre in atto, si trova: il cuore delle “mute vibrazioni” di un tempo di fronte allo spaginarsi di un “foto album” (p. 25). L’album dove sta anche l’amore per i quattro gatti (Raffaele, Leo, Flint e Clotilde). I non umani che con il poeta, nella casa palermitana, specie il gatto Raffaele, hanno condiviso spazi, umori, intesi segreti conversazionali e sofferte subitanee visite di estranei. La condivisione e il riconoscimento non convenzionale (ma genere parte-cipato) prodigati come da “madre Teresa dei gatti”, etc.
Sono gli “affetti” di un poeta insulare che non guarda e vive la sua “Isola”, come altri, nella diaspora o nella “sicilitudine” a tinte psicologizzanti o sociologizzanti (o di vittimismo demodé). Sono gli affetti di una “affettazione” estensiva quanto intensiva che il poeta Zinna, nell’ampia “insolarità” dell’“isolitudine” percettua tramite le costellazioni del “salso triangolo” che zàffera/no (ci piace verbalizzare un sostantivo – zafferano – profumato: “droga” forte e aromatica, amara e piccante); sono le passioni di una mente radicata che, vigile, al futuro si lascia come un bene da coltivare sine die e responsabile ironia. Se c’è una partenza che approda c’è un ritorno che salpa; un “qui” e “ora” che la sua morte invita a non denegare come un luogo-tempo di stupore. Lo stupore dell’affettazione che, “uccellando il mito”, vuole non la desertificazione del mondo-pianeta, ma resistenza e amore intellettuale di “oppositivi diametri”.
La tenda poetica dell’uomo e poeta Lucio Zinna è quella dei nomadi che non abbandonano mai la propria terra – il deserto, le grandi pianure, la poesia, l’alto e il basso … –, il suo luogo a “mezz’aria”; è il punto di osservazione e azione interna-esterna che, orientata a cogliere intriganti sentieri individuali e collettivi, acquista più valore quanto più il presente che lo contrasta è, ironicamente e amaramente, alluso per spie minime e mortalmente efficaci:
“Sarebbe riduttivo appellarla “gattara” / (etiam “gattofila”) Claudiana non sospettò / di essere espressione di un nuovo / umanesimo (secondo cui ogni vivente / è – a pari dignità – abitante del pianeta) né di equivalere per quelle anime bambine / a una Madre Teresa di Calcutta” (p. 50).
in: www.retroguardia.net, 14 luglio 2024