UN QUADRO, UN SINTOMO, UN CONTAGIO - di Carmelo Currò

Bruege, Il Trionfo della morte,  1562

 

Guardo il dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio “Il Trionfo della morte”. L’opera che si vuole realizzata per la molta impressione ricevuta dall’Artista in seguito alle frequenti pestilenze del suo tempo, mi incuriosisce tanto, pero’, per un particolare che sembra evidente. Dove sono i bubboni della peste? dove sono segni come quelli della miniatura quattrocentesca che mostra i malati curati da frati pietosi (cf. http://imparareconlastoria.blogspot.com/2014/09/)? dove le piaghe simili a quelle riportate nel quadro del Tintoretto in S.Rocco a Venezia? o squarci sulla pelle simili a ferite di lancia e putrefazione, tipici nell’iconografia di S.Rocco e S.Sebastiano che i nostri antenati scorgevano uguali a quelli del contagio?

Nella macabra fantasia del celebre quadro, non vedo quelle forme di cui tanto si parla, ricorrenti nella peste bubbonica, lasciate sui corpi dalla temibile malattia. Sopravvivono, certo, i ricordi di Palermo e della tradizione nordica, come il carretto che trasportava i morti, le voci e i racconti di quanto accaduto.

La datazione dell’opera che tradizionalmente viene fissata al 1562, mi fa venire un sospetto: e se Bruegel fosse rimasto impressionato non da una peste gia’ lontana nel tempo ma dal contagio influenzale esploso nel 1562 e tuttavia gia’ presente da anni in Europa? Come ho avuto modo di scrivere, questa epidemia colpi il Continente provocando morti nel nord Europa ed in Italia. Pensava ad essa Bruegel nel dipingere? Immaginate quale possa essere stata su di lui e su tanta gente sapere che una malattia si insinuava nei corpi senza piaghe e senza bubboni ma con i sintomi di un normale raffreddore.

Cio’ che sembra distinguere il contagio cinquecentesco da quello di oggi e’ come nelle cronache che ne parlano alquanto genericamente, si annoti che il picco dei contagi sembra essere durato molto poco: pochi giorni o qualche mese al massimo. E che, raggiunto l’apice della sua pericolosita’, pare essersi dissolto. Fu proprio cosi? In realta’, se ne parla molto per il 1562 quando vi furono molti morti specialmente fra le persone anziane e provate; ma in realta’ sembra che la malattia potesse essere collegata a una forma influenzale che era stata segnalata a Padova nel 1557; e poi all’altra ondata esplosa nell’Italia centro-settentrionale nel 1580 (Cf. C.B. VICENTINI - E. GUIDI - S. LUPI - M. MARITATI - S. MANFREDINI - C. CONTINI, L’influenza nelle ondate epidemiche del XIX secolo, in Le infezioni in Medicina, N. 4, 2015, p. 376); ondata che pare abbia colpito almeno 8.000 persone nella sola citta’ di Roma (Cf. L. N., Quante epidemie influenzali ci sono state nella storia?, in Una penna spuntsata,. Marzo 2020).

I sintomi di questi contagi sono indubbiamente catarrali: febbre alta, tosse persistente curata con l’ingestione di medicamenti dolci, difficolta’ respiratoria. Anni dopo, il medico Gian Battista Mella, nella sua opera Il Cortesino (edita a Napoli nel 1597), precisa ancora piu’ dettagliatamente i sintomi della malattia che sembrano avvicinarsi ancora di piu’ all’odierno contagio. La memoria dell’Autore, infatti, ricorda che l’ “infermita’ comincia con gravezza e dolor di testa, oppilazione, abbruggiamento de narici, di gola, strettezza di petto, tosse, & poi con questo vi s’accende anco una febre, ch’uno, doi o tre giorni tormenta, con toglier affatto il gusto, e l’appetito in modo, che il tutto amaro, insipido, e disgustoso al gusto si rappresenta, indi da pochi giorni da per se stesso con la salute finisce” (p.1).

La limitazione dei contatti interpersonali o di quelli intercomunali, presenti ma meno frequenti all’epoca, pote’ contribuire a spegnere presto la malattia? e ad evitare che nuovi contagi o varianti potessero camminare da una citta’ all’ altra con mercanti e viaggiatori?

Del resto, ormai molti sapevano che era doveroso prendere precauzioni come arma per frenare i contagi. Il grande vescovo di Caiazzo Ottavio Mirto, nel corso della sua presenza a Bologna come sostituto del legato apostolico (suo zio Fabio), introdusse numerosi e severi provvedimenti per evitare che il contagio di peste che miete’ almeno 50.000 vittime a Venezia (dove pure erano state varate alcune precauzioni) non si estendesse alla Romagna. Uno scrupoloso isolamento, il divieto di assembramento, la pulizia capillare, risparmiarono a Bologna la tragedia lagunare. E sembra che grazie alla rapidita’ e al rigore del vescovo, nessun bolognese fosse colpito dell’epidemia.

Il distanziamento sociale, dunque, l’uso delle mascherine (che nel Rinascimento erano sostituite da lunghissime maschere a copertura di bocca e naso), insieme al vaccino costituiscono un’arma essenziale per arginare e combattere l’epidemia influenzale. Un’epidemia che non e’ una novita’ per il nostro pianeta.

Ancor oggi sono tanti a dire “salute” quando qualcuno starnutisce. Che cosa e’ questa nostra abitudine che contrasta con  le norme delle buone maniere, se non il ricordo sbiadito di una malattia paurosa il cui sintomo facilmente confondibile, era seguito dall’augurio di stare bene?

 

 

 

 

 

 

 

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