“Una questione italiana/americana” di Carmelo Fucarino

 

SCRITTORI ITALIANO/AMERICANI: ATTI DI SEMIOSI E STRATEGIE NARRATIVE. DUE ESEMPI ANTHONY JULIAN TAMBURRI, La diacriticità e lo scrittore italiano/americano: il trattino come confine linguistico e l’«intelligibilità reciproca» in Christ in Concrete (1939) di Pietro di Donato, in AA. VV. Campi Immaginabili 62-63/2020, Rivista semestrale di cultura, Rubbettino editore, Soveria Mannelli (CZ), 2020.

 

Il saggio sulla diacriticità e l’”intelligibilità reciproca” nell’ambito di uno scrittore italiano/americano che propone come base esplicativa Christ in Concrete (1939, film Give Us This Day del 1949), naturalmente strutturato ad uso di un qualsiasi lettore italiano (mi riferisco soprattutto alle traduzioni a seguire delle citazioni originali del romanzo), presuppone una conoscenza specifica delle tesi sviluppate dall’autore in una lunga serie di saggi che sono maturati nell’arco di una intera esperienza esistenziale. Si tratta di un corollario a margine che richiede specialistiche competenze semantiche per capire il postulato e le conseguenti deduzioni esplicative. Per me si è trattato di una ripresa delle formulazioni dell’ampio e specifico saggio sulla questione che avevo letto e studiato già molti anni fa, quando me ne ha fatto gradito dono in un incontro dei numerosi passaggi a NY e in una visita al suo prestigioso e pregevole Calandra Italian American Institut (Cuny). Si trattava del suo secondo saggio dopo Una semiotica dell'etnicità: nuove segnalature per la letteratura italiana/americana (Franco Cesati Editore, Firenze, 2010, del quale sono pure io autore). Oggi a rileggere questa pregevole sintesi mi sento trasportato indietro nel tempo e ad esperienze che servirono ad approfondire gli ambiti della mia conoscenza della semeiotica, che avevo seguito e studiato nei passaggi e nelle straordinarie e gettonate lezioni di Umberto Eco a Palermo e nei saggi suoi (dal semplice Il segno, Milano, Isedi, 1973, al Trattato di semeiotica generale, Milano, Bompiani, 1975) e soprattutto a partire dallo strutturalismo di de Saussure e Claude Lévi-Strauss in poi fino a Barthes e Deleuze, come base di linguistica generale, nonostante il mio corso obbligatorio in lettere classiche fosse la glottologia. Per me, studioso di filologia classica e futuro insegnante di latino e greco erano pertanto studi eterodossi ed extra-vaganti, ma sono stato sempre dell’opinione che la cultura non è a camere stagne che ci sono interdipendenze imprescindibili. Soprattutto in campo linguistico, sia in ambito classico che di moderna comunicazione e cultura: perciò i miei corsi universitari di inglese, la pratica di francese e tedesco per la tesi e infine un corso di russo nell’allora Leningrado. Così si stupì il titolare, data la mia nicchia di studi classici, la mia scelta universitaria di “linguistica” italiana accanto alla glottologia o alla scelta filosofica di pedagogia e di psicologia, per giungere alla storia della musica in un’ampia panoramica in vista della mia futura professione. Non mi azzardo a definirla missione di formazione globale dei giovani a me affidatimi. Perciò l’interesse per le lezioni di Eco che alla fine avevano a base la cultura greca e la prima individuazione e definizione di “sema”. Ma metto punto alla questione che mi porterebbe lontano e fuori tema.

Non voglio annoiare con una discussione che comporterebbe molto tempo e spazio e ritorno al saggio. Quest’ultimo in esame è assai specifico e particolare, si dice di nicchia e per addetti ai lavori, in quanto analizza alla fine solo un autore e addirittura un’opera individuale. Premetto che nella precisa comprensione ed esplicazione mi manca la lettura e conoscenza del testo originale completo. Mi affido perciò alle citazioni esemplificative riportate dall’autore. Nonostante questi limiti mi avvince questa profonda ed originale analisi della condizione in atto della letteratura italiana americana e gli sviluppi che ha avuto fino ai pochi recenti scrittori, che conosco, in quanto hanno avuto la consacrazione, divenuti bestseller internazionali. Penso a Don DeLillo quasi mio coetaneo, catalogato nella nostra Treccani come “postmoderno”. E perciò gli studi di Anthony Tamburri mi coinvolgono oltre che per le rivisitazioni letterarie, per me, in quanto siciliano, per la polisemia dialettale di Verga di cui si è occupato, ma anche di altri autori italiani (Una semiotica della ri-lettura. Guido Gozzano, Aldo Palazzeschi, Italo Calvino; Un biculturalismo negato: La letteratura "italiana" negli Stati Uniti, Scrittori Italiani[-]Americani: trattino sì trattino no).

Mi coinvolge assai anche la questione della traduzione, trattandosi di mondi opposti sulle rive dell’Atlantico e in particolare dell’antitesi inglese-italiano, e la definizione in titolo di Eco Dire quasi la stessa cosa. Esperienze di traduzione del 2003, sul quale concordo e vado anche oltre negando possibilità di traduzione della poesia. Se non facendone altra come Quasimodo con i lirici greci. Eppure al di là di questo passaggio estremo gli studi di Tamburri mi coinvolgono direttamente, a parte Verga o il Pasticciaccio brutto. La problematicità linguistica siciliano italiano oggi si è allargata con il dilagare dei romanzi gialli in italiano con dialetti regionali. E mi richiama la questione irrisolta, osteggiata e irrisa in nome e in vista di una unità nazionale, ma “solo” linguistica, cioè quella del bilinguismo in Italia (madre lingua dialetto e seconda lingua l’italiano). Dico oggi in cui nella narrativa italiana, unilaterale, è esplosa questa forma di cruda mistione di idiotismi dialettali. Per esperienza recente, avendo La repubblica riedito tutto Sciascia in allegato al quotidiano, ne ho riletto l’intera opera, ben 20 titoli, nulla escluso, fino agli elzeviri e alle riflessioni di appunti estravaganti. Sono rimasto con la mia formazione odierna impressionato e con la sensazione di non averlo mai letto. Preciso che veniamo dal recente miscelamento linguistico espressivo di Andrea Camilleri. Ecco l’impressione che ho ricavato da Sciascia è stata quella di un siciliano non solo traslitterato con semantica italiana, ma addirittura sviluppato nella prosodia, nella sintassi, nel ritmo e nella sequenza del periodare siciliano, con i suoi espedienti retorici, come l’iterazione o la prolessi, l’abusato letterario ‘ché’ che vuol essere propriamente ‘perché’ e non il verghiano ‘che’ che traduceva il dialettale ‘ca’. Cosa che oggi mi ha scioccato in uno scrittore che ho ritenuto allora un classico e che ha insegnato per anni ad alunni di scuola elementare siciliana. Oggi mi chiedo quale italiano ha insegnato?

Sono un semplice amante della linguistica e della semeiotica come conseguenza, aspirazione e completamento della mia professione di studioso di latino e greco. Tuttavia mi strabiliano la fama e la diffusione dei gialli in un mix dialettale, di un dialetto siculo inventato da Camilleri e non esistente in alcun gruppo di parlanti siciliani, neppure nella sua ideale Vigata-Porto Empedocle. Eppure amato e tradotto in Germania. Come è stata reso il ritmo linguistico? A parte naturalmente il traino ripetitivo e divulgativo dell’intonazione e della mimica di Luca Zingaretti (degli altri attori) e le soluzioni del regista, ci troviamo davanti a un attore che finge di parlare siciliano, pur essendo nato e cresciuto a Roma e che ha come madre lingua un suo dialetto con altre spiccate intonazioni e flessioni che non si possono nascondere. Neppure nella caricatura di Catarella-Russo di Ragusa.

La questione che Tamburri qui ripropone già indagata nel saggio del 2010 è qui indicata con lo scrittore col trattino, ossia «hyphenated writer»: «Il «trattino» – mi sembra lecito sottolineare – è un tipo di confine nella forma letterale di un segno diacritico. Da un lato unisce due entità, nel nostro caso due patrimoni: quello italiano e quello americano; dall’altro separa proprio le due entità che sembra unire. È, letteralmente, una linea – per quanto piccola sia – che mantiene una sorta di distanza tra le due entità. È proprio questa distanza che rappresenta uno spazio interstiziale che può essere anche liberatorio, se non anche costitutivo. Questa situazione a quanto pare paradossale e complessa è la sfida allo scrittore col trattino, a non perdere il suo equilibrio, per così dire, sul trattino e a poter «ballare» su e dentro quel piccolo spazio che crea, ‘negoziando’, allo stesso tempo, l’una con l’altra cultura.» (pp. 365-366). Ne consegue che «tutto ciò che riguarda il confine linguistico ha al centro il concetto di «reciproca intelligibilità» e la sua potenziale mancanza. Il confine linguistico è il risultato della struttura grammaticale e lessicale di una lingua nei confronti di un’altra. ». Pertanto, «La conoscenza di una seconda lingua è necessaria per garantire la reciproca intelligibilità. Il cui livello è determinato da un concetto noto come distanza linguistica. Una maggiore distanza linguistica è dovuta a uno squilibrio di intelligibilità; tale squilibrio viene definito intelligibilità asimmetrica: l’asimmetria si rivela quando un interlocutore ha una maggiore comprensione della lingua del destinatario rispetto a quella dell’altro interlocutore. Una conseguenza di tale asimmetria di intelligibilità è che individui come il suddetto destinatario – qualcuno la cui conoscenza della lingua dell’interlocutore è nel migliore dei casi minima – possono trovarsi, in certe occasioni, in una situazione di svantaggio semiotico-comunicativo» (pp. 367-368).

Questo in merito alle linee programmatiche di lettura del testo che ne mettono in rilievo le criticità di trasmissione e le difficoltà di comunicazione in un humus, se non ostile, certamente diverso e competitivo.

È la stessa questione che in Italia i linguisti o la critica di svago televisivo dei talk show non si sono mai posti nei riguardi della diacriticità e dell’”intelligibilità reciproca” nell’ambito di uno scrittore siculo/italiano, in genere dialettale/italiano. Eppure oggi dirompente per la disgregazione della lingua che, secondo qualcuno, favorisce l’avanzata incontrollata dei barbarismi inglesi, anche nell’uso quotidiano delle informazioni e delle strategie covid che dovrebbero essere di comprensione generale, anche da parte dei non parlanti inglese.

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