Sabato 11 maggio nei locali del Centro d’Arte e Cultura “Piero Montana’” a Bagheria é stata inaugurata dal Prof. Tommaso Romano la mostra d’arte contemporanea dell’artista siculo-messicano, Juan Esperanza, dal titolo “Anamorfosi. Pitture Sculture Installazioni”.
Il gallerista e curatore della mostra, Piero Montana, dopo aver presentato al pubblico intervenuto all’inaugurazione il Professore Romano, poeta, scrittore nonché Presidente della Fondazione Thule, in un breve intervento, che a conclusione di questo comunicato stampa, sarà riportato integralmente, ha introdotto all’arte di Esperanza, soffermandosi sugli archetipi, che emergono dal suo inconscio e che in essa vengono raffigurati.
Romano in una lettura dell’opera dell’artista messicano comprendente certamente, al di là della psiche, un più ampio orizzonte culturale, ha rapportato le figure rappresentate nei quadri e nelle sculture di Esperanza alle prime creazioni artistiche dell’uomo, i graffiti che i primitivi ci hanno lasciato nelle caverne, suggerendo pertanto alla nostra immaginazione un nuovo campo d’investigazione su quest’arte.
Un’arte dunque, che per il nostro professore, si rifà ai primordi, all’origine della sua invenzione e che in questa ricerca delle origini viene ad imbattersi nei miti, negli archetipi anche di figure indistinte proprio nella loro formale completezza, di cui forse l’esempio più noto per noi è quello dell’androgeno.
Ma l’arte di Esperanza in quanto richiama quella primitiva, ancestrale per Romano è essenzialmente un’arte radicata alla terra, anzitutto alla sua terra d’origine, il Messico, e pure alla nostra, dove attualmente l’artista vive. Una terra, che, in entrambe e differenti posizioni geografiche, è una terra del sole, dal cui humus si sprigionano anche gli spiriti, le energie creative che la rendono magicamente viva.
Intervento di Piero Montana
Viviamo in un mondo desacralizzato, ma tuttavia c’è ancora una terra consacrata di confine in possesso ancora dell’uomo, questa terra religiosa è quella del nostro inconscio collettivo, unica e sola forma del sacro superstite, di cui partecipa l’uomo moderno.
E’ da questo inconscio, che attinge l’arte, che fenologicamente, sospendendo, mettendo il mondo profano tra parentesi, opera le sue magiche creazioni.
Infatti é dall’ inconscio collettivo, che l’artista spesso trae le immagini- archetipe di cui popola il suo universo.
Un universo immaginario, ma non irreale, in quanto esso, sebbene non attuale, sebbene appartenente ad un passato assai remoto, tuttavia ancora conserva le forme che lo hanno in origine animato, le forme immaginali ossia gli archetipi, nati da un processo di creazione che realmente ha dato loro realtà ontica col passaggio iniziale dall’amorfo, dal caos preesistente e primordiale alla realtà oggettivamente formale, che tuttavia inevitabilmente porta con sé ancora tracce della preesistente materia prima.
Da qui l’indistinzione di alcune figure che Juan Esperanza riattiva con la sua arte. Figure queste indifferenziate nel manifestarsi con una doppia natura, animale e umana, figure dunque che non sono che modelli, sia pure molto usurati, di divinità del pantheon religioso della mesoamerica precolombiana.
Pensiamo soprattutto al dio maya Kukulcàn che trova il suo omologo nel dio azteco Quetzalcōātl, il serpente piumato, che poteva assumere sia forma umana sia forma animale o entrambe.
Queste divinità della mesoamerca precolombiana molto più di altre per noi tradiscono la loro origine precosmica. Apprendiamo infatti dal mito che il serpente o il drago era l’animale primordiale, simbolo del caos e dell’informe, il cui corpo servì da materia prima per la creazione del mondo e dell’uomo. Ai Maya o agli aztechi doveva pertanto apparire naturale che i loro dei nati con la creazione del cosmo assumessero forme derivanti dalla loro congenita materia prima allo stato ancora di indistinzione.
Per questo le figure di Esperanza ci appaiono ancora nel loro aspetto quasi embrionale, lavarle e che da esso si evolvono, si sviluppano in esseri dagli arti inferiori non ancora del tutto formati, o di cui, sia pur parzialmente, sembrano privi, e che pertanto si muovono magicamente nell’aere, pur non avendo le ali.
Tutti questi esseri partecipano di una natura agli esordi ancora indistinta, una natura dagli evidenti tratti teriomorfi ed antropomorfi in essi comuni.
L’origine primordiale della vita, nell’ambiguità di una sua completezza non ancora marcatamente delimitata entro i confini e i limiti di una specifica natura, affiora pertanto dall’inconscio di Esperanza per riattivarsi nella sua arte. Un’arte che è la sua unica passione religiosa, il suo unico strumento soteriologico, quello che se non gli consente una reale reintegrazione dell’essere al di là della sua attuale, contingente e determinata realtà ontica, almeno gli garantisce una compensazione psichica, il raggiungimento di un ordine, di un equilibrio, direbbe Jung, spirituale alla base della sua salute e creatività artistica.
Una realtà ontica dunque quella di Esperanza che per quanto condizionata, sommersa dal profano tuttavia riesce ad emergere dalle acque di questo caos per affermarsi nella realtà del sacro, che la sua arte incarna.
Esperanza è un artista, che pur non essendo un iniziato e neppure aspirando ad esserlo, mancandogli anzitutto la conoscenza metafisica di una tale esperienza di trasformazione ontica, nelle sue opere, sia pure inconsciamente, è di un processo di iniziazione che figurativamente viene ad occuparsi.
I suoi disegni in particolare lo testimoniano, quando, ad esempio, viene a raffigurare dei portatori di teste, che inevitabilmente alludono a una o a multiple decapitazioni, operazioni queste, inerenti alla morte mistica, preludio di una rinascita, di una rigenerazione magica, spirituale, e che sono assai comuni nel mondo degli sciamani.
O quando viene a rappresentare Iside, non come simbolo della luna ma anche della madre terra. Di Iside nei Saturnali così scrive Macrobio: << Iside, il cui culto è collegato a Sarapide, proclamato dagli Egiziani il massimo Dio, è la terra o la natura sottoposta al sole. Ne consegue che il corpo della dea è tutto ricoperto di mammelle, perché la terra o la natura dà alimento ad ogni cosa. >>
Cartari, nel suo libro “Immagini delli dei degli antichi” (1571) riprendendo testualmente lo stesso Macrobio ma anche Servio, di Iside riferisce che per gli egizi tale divinità << era (rappresentava) la natura delle cose, che al sole sta soggetta, e quindi ne deriva, che facevano il corpo di quella dea tutto pieno, e carico di poppe, come che l’universo pigli nutrimento dalla terra, ovvero dalla virtù occulta della natura. >>
Nel bellissimo libro di Jorge Baltrusaitis “La ricerca di Iside” è contenuto un approfondimento simbolico e non solo iconografico di Iside multimammia.
Ma qui quel che di questa dea ci interessa è proprio la virtù occulta della natura, che tale divinità rappresenta: la virtù occulta ovvero la sua magia. Ci sembra qui importante far notare, per quanto riguarda ancora la nascita mistica, che il corpo dell’iniziato e dello sciamano smembrato e decapitato, può essere contestualmente paragonato al corpo fatto a pezzi di Osiride dal fratello Set per poi essere magicamente ricomposto e portato a una nuova vita da Iside.
Ed è appunto a questa magia vivificante di Iside che le opere di Esperanza, sia pittoriche che scultoree, ci sembrano inequivocabilmente ispirate.
In quelle pittoriche infatti oltre alle figure emblematiche di cui abbiamo parlato, è da attenzionare il loro sostrato materico, realizzato con l’impasto di sabbia e cenere vulcaniche, prelevate personalmente dai crateri dell’Etna.
La cenere e la sabbia vulcaniche residui di ciò che resta del fuoco, costituiscono l’elemento magico per eccellenza, l’elemento che i filosofi (gli alchimisti) dicono che non bisogna disprezzare, quell’elemento che per uno di essi, Morieno, il famoso autore del Colloquio con Re Kalid, costituisce il diadema del re e ancora l’elemento sacro da cui, ad esempio, nella favola, risorge la mitica ed immortale fenice, simbolo della vita spirituale ed eterna.
Ma per tornare all’Etna bisogna ricordare che questo vulcano miticamente era la fucina di Efesto, che di essa si servì come forno nell’inventare l’arte della metallurgia e della terracotta.
Ora è nella terracotta che eccelle l’arte di Juan Esperanza, che la impiega non per la fabbricazione di oggetti di utilità pratica o ornamentale, ma per modellare sculture arcaiche e primitive, per modellare idoli, che all’uomo non del tutto profano, possono, ancora oggi, rivelarsi come veicoli di energie, di forze ctonie o/e trascendenti da canalizzare a fini soteriologici, sia pure nell’ambito di un’ anamorfosi, ossia di una prospettiva, che alla mentalità moderna, tuttavia, non può che apparire obsoleta, eccentrica, se non aberrante.
CENTRO D’ARTE E CULTURA “PIERO MONTANA”