Passione civile e mitologie politiche e letterarie nella “Protostasi sicula” di Lionardo Vigo - di Maria Nivea Zagarella

La meritoria edizione a stampa della Protostasi sicula o genesi della civiltà (2017) del marchese Lionardo Vigo (1799/1879), realizzata dal Dipartimento di Studi storici dell’Università di Milano in collaborazione con l’Accademia di Scienze, Lettere e Belle Arti degli Zelanti e dei Dafnici di Acireale, consegna alla lettura e curiosità dei contemporanei un testo che era rimasto incompleto, manoscritto e inedito dal lontano 1872. Già nel 1897 Grassi Bertazzi, amico e estimatore di Vigo, recensendone le opere, opponeva alle fame usurpate quelle un po’ troppo dimenticate, che era -diceva- la disgrazia di Vigo, un uomo per lui sempre pari a se stesso e tutto d’un pezzo come cittadino e come letterato: nel 1820, nel ’48, nel ’60, nel ’70, sempre fervente sostenitore dell’autonomia (politica o amministrativa) della Sicilia, l’isola voce dell’anima sua e base, centro, scopo dei [suoi] ragionamenti, per non dire di ogni sua fantasia poetica, analisi politica, ricerca storica, letteraria, filologica, archeologica dalle Liriche alle due raccolte dei Canti popolari siciliani, al poema ll Ruggiero, alla Protostasi avviata nel 1858. Di quest’ultima i saggi introduttivi alla recente edizione rilevano, quello di Giuseppe Contarino, le speranze socio-politiche dello scrittore e il ritorno d’attualità del “mito di Atlantide” fra il 2002 e il 2014 in taluni autori (S. Frau, M. Ciardi, A. Rizza) e simposi culturali tenutisi a Parigi e Roma; quello di Antonino De Francesco, riscopritore del manoscritto, il ruolo dell’antiquaria nella nascita delle discipline storico-filologiche e archeologiche nell’800 e nello studio dell’antichità della nazione italiana in linea col processo storico risorgimentale. Da qui i riferimenti all’opera di Giuseppe Micali Italia avanti il dominio dei Romani (1810), centrata sugli antichi liberi popoli degli Etruschi Sanniti Osci Marsi Lucani Bruzi Siculi Liguri, tutti poi soggiogati dai Romani, e allo sviluppo nel Meridione di due opposti “nazionalismi”. Uno napoletano teso a valorizzare le origini greche delle genti della bassa Italia in funzione del regno Di Napoli, l’altro siciliano, l’antichità di Sicani e Siculi e l’eccezionalità dell’isola in funzione prima antiborbonica, poi anti-Savoia. Il saggio di Giacomo Girardi, trascrittore del manoscritto, amplia la premessa di De Francesco ponendo la Protostasi quasi a chiusura nell’alveo della tradizione storica e erudita dal ‘500 al ‘700 all’800, da cui Vigo attinse, fra fonti greco-romane e studiosi siciliani, italiani, stranieri tutto ciò che supportava l’idea “sicilianista” di una civiltà sicula anteriore a quelle greca e etrusca e le conseguenti rivendicazioni autonomistiche, donde le preferenze per N. Fréret, G. Niebhur, A. Airoldi, G. Alessi, Cesare Cantù, A. Mazzoldi, N. Palmieri, V. Natale, ma anche J. S. Bailly, F. P. Perez, V. Di Giovanni e il supercitato Diodoro Siculo. Il carattere impegnato della Protostasi, che spingeva l’autore ad augurarsi in una lettera a Capuana del 1858 di poter compiere con essa il panegirico e l’apoteosi della nostra indipendenza politica e intellettuale, spiega i numerosi passi in cui Vigo, mentre argomenta sul “primato” della Sicilia (residuo per lui, con Malta e altre isole, dell’immensa Atlantide sommersa presumibilmente nel 1480 a.C.) nella “civilizzazione” dell’Italia e del mondo mediterraneo, semina altresì stilettate ai Borbone o al nuovo ordine piemontese, elogiando invece Garibaldi e i guerrier siciliani del ’60, emuli del Vespro e di Ruggero nel completare l’unità italiana.

Ritenendo verità, e non allegoria, i racconti di Platone (Timeo, Crizia), Diodoro, Evemero, e il nocciolo duro di molti miti, la tesi (contestata) di Vigo è che dall’isola di Atlantide, di cui era parte integrante la Sicilia, tra il 3400 e il 1480 a. C. secondo le sue argomentate schede cronologiche (P.P. Maurini, Bailly, Freret…), gli atalanto-siculi, detti anche dagli antichi titani oceaniti uranidi (da Urano primo re-benefattore) oltre che pelasgi e tirreni, portarono per “primi” la civiltà (astronomia, religione, agricoltura, architettura ciclopica, fusione e lavorazione dei metalli, medicina, nautica, musica, lingua, alfabeto, poesia, civile governo) in Italia (dalla Calabria all’Etruria al Lazio) donde l’appellativo di tirreni, sulle coste africane fino all’Egitto, e quindi in Grecia Fenicia Asia Minore Colchide Caldea Media Persia India, a quell’Oriente insomma da cui invece si pensava e si pensa sia stato l’Occidente a riceverla. Dibattito questo noto a Vigo che infatti nel capitolo terzo scrive: <<La quistione se fin là si estesero le nostre peregrinazioni, e quindi quella contrada stia alla periferia del cerchio di cui l’Italia fu centro, secondo la mia ipotesi, o viceversa se l’India, cuna dell’uman genere, tramandò a noi la sua cultura, è quella che prima d’ogni altra presentasi alla mente del filosofo indagatore>>. Ma l’intellettuale acese risolve la quistione dicendo che dal suo punto di vista dopo la dispersione di Babele (verosimilmente nel 3918 a.C) e il diluvio universale (verosimilmente nel 3617 a.C) l’umanità rinacque né fu più la primogenia…Pertanto -conclude- noi seguiremo le ricerche dell’umanità rifatta, senza battagliare con le innumerevoli lezioni dei dissidenti. Dopo avere respinto nel primo capitolo le ipotesi di quanti nei secoli hanno collocato l’Atlantide nel Nord Europa, o nell’Atlantico, identificandola anche con l’America e la Colombia o col Messico, o spostandola alle Molucche, alla Nuova Zelanda, o ponendola nel Mediterraneo e facendola coincidere però con la Corsica e la Sardegna, Vigo formula la sua ipotesi di una Atlantide posta nel Mediterraneo e distendentesi dall’arcipelago siciliano sin molto al di là del gruppo di Malta, ipotesi confortata  -dice- dalla concordanza delle descrizioni fattene da Platone, Crantore, Filocoro, Diodoro Siculo, Plutarco con i testi di Omero Esiodo Erodoto, che cantano quei luoghi, soprattutto Omero e Esiodo, come incunabula deorum.  Gli antichi aggiunge conoscevano 5 mari: la Palude Meotide, il Ponto Eusino, l’Egeo, il Pelago e l’Oceano. Pelago per loro (Bibbia, Esiodo, Omero, Platone, Erodoto, Eratostene, Strabone,Tolomeo) era il mare che circondava la Sicilia (e dunque l’Atlantide, donde l’appellativo pelasgi che identificava gli atalanti), lambendo l’Italia da Locri al promontorio Circeo; Oceano o gran fiume oceano o l’ultimo fiume era il mare a occidente della Sicilia (onde l’appellativo oceaniti) fino alle colonne d’Ercole. Leggendo poi la teogonia e la mitologia antiche secondo l’ottica vichiana del “mito” quale portatore di oscuri e remoti nuclei storici, e accettando tutta l’abbondante tradizione (Eusebio di Cesarea, Diodoro, Plinio, Pomponio Mela, Strabone, Arriano, Lattanzio) circa l’isola di Pancaja, nell’oceano indiano, visitata da Evemero, con il famoso tempio di Giove trifilio e la famosa colonna recante l’iscrizione che diceva essere stati uomini come noi tutti gli antichi dei (Urano, Saturno, Giove…), Vigo si diffonde sulla genealogia, le opere, le peregrinazioni dei dinasti (sic!) atalanti e dei loro discendenti, senza trascurare di citare come introduzione alle sue argomentazioni e a tutta la ricca documentazione letteraria, storica, linguistico-filologica, archeologica su cui costruirà la tesi sopra riportata, questo passo per lui illuminante di Diodoro: <<Gli atlantidi ebbero illustri figli, parte dei quali furono padri di nazioni e parte fondarono città; e perciò non solamente fra alcuni popoli barbari, ma anche fra i greci, molti degli antichi eroi da essi ripetono l’origine della loro stirpe>>.

      La civiltà atalantica e la sua diffusione

Sfilano pertanto nei capitoli I, II, III Urano e Titea una delle sue mogli, madre dei Titani, e i loro figli e figlie e successive generazioni: Basilea e Rea, Iperione, Elio, Atlante, Saturno, le Pleiadi (fra cui Maja e Elettra), Circe, Eeta, Fetonte, Giove, Nettuno, Giunone, Venere, Cerere, Proserpina, Diana, Minerva, Plutone, Mercurio, Vulcano, Dardano, Bacco atalantico, Eolo, Ercole atalantico (nipote di Urano), Aristeo, Orione, Espero… Divinità a cui vengono collegati aspetti, momenti e progressi della civiltà atalantica: astronomia (Urano, Atlante, Espero), medicina (Basilea, Circe, Chirone figlio di Saturno), navigazione (Nettuno, Eeta), il diritto (Giove), metallurgia (Vulcano, i Ciclopi), agricoltura e pastorizia (Cerere, Proserpina, Bacco, Aristeo), commerci (Mercurio), arte delle costruzioni (Orione e i Ciclopi), i sacri misteri (i Palici e i Cabiri). Oppure “regni” e “viaggi” significativi quanto alla diffusione nel Mediterraneo di tale civiltà secondo le convinzioni di Vigo: Saturno e Giove ad esempio regnanti su Sicilia, Africa, Italia (Saturno pure nel Lazio dove si rifugiò); Circe nell’Italia inferiore; Elio in Sicilia; Bacco che viaggiò dalla Sicilia nel Lazio, in Fenicia, e fino alle Indie, arrivandovi dall’Assiria; Atlante in Africa (vedi denominazione delle catene montuose della Libia), inventore per Clemente Alessandrino anche dell’arte di costruire vascelli; Calipso, figlia di Atlante, che regnò a Malta; Eeta giunse in Colchide; Inaco fondò Argo; Elettra introdusse i misteri cabirici in Samotracia e Dardano suo figlio fondò Troia; Aristeo dalla Sardegna e dalla Sicilia portò il caseificio, il mieleficio, la coltivazione e l’estrazione dell’olio in Beozia, Attica,Tracia; dai pelasgi tirreni furono fondati gli oracoli di Delfi, Delo, Dodona e coltivata la Tessaglia e portata in Arcadia la poesia; i feaci “fuggirono” da Iperia (oggi Camerina) e dai “ciclopi” a Corfù, vivendovi la loro raffinata civiltà e passione navale (Non lusingano il [loro] core -cantava Omero- archi e faretre,/ ma veleggianti e remiganti navi,/ su cui passano allegri il mar spumante). E arabi, fenici, assiri, babilonesi, caldei, persiani furono per Vigo inciviliti sia dal faraone Sesostri, espressione di un Egitto precedentemente civilizzato dagli atalanti, come si evince dal racconto che i sacerdoti di Saide fanno a Solone nel Timeo di Platone, sia dalle colonie atalantiche già nate in Asia Minore e nella Colchide. Lo stesso alfabeto la cui invenzione si attribuisce a Cadmo fenicio riporta per l’erudito acese agli atalanti, perché Diodoro racconta che Cadmo andò ad istruirsi a Samotracia e aveva già appreso l’uso dell’alfabeto dal padre Agenore, figlio dell’atalantico Nettuno. Le feste agresti di Cerere Bacco Aristeo erano allietate da cori, canti bucolici, frizzi arguti, prodromi di quella commedia che sarà poi nobilitata da Formide ed Epicarmo, e della poesia pastorale, dai canti rustici di Dafni agli idilli di Teocrito. Di talune divinità o circostanze storiche, come si vede, l’autore si compiace di approfondire, insistendovi specificamente, il legame inscindibile con la Sicilia, dove crescevano spontanei orzo, frumento, vite cantava Omero nell’Odissea (Non seminato, non piantato o arato/ l’orzo, il frumento, e la gioconda vite, l. IX), e dunque Cerere Proserpina Bacco, la cui venerazione nell’isola è testificata fra gli altri anche da Cicerone che scriveva: <<e voi ancor voi imploro ed invoco santissime Dee, che abitate i laghi ed i boschi di Enna, che presiedete a Sicilia tutta, da cui sono state ritrovate e distribuite le biade in tutto il mondo, onde tutte le genti e tutte le nazioni sono dal potere di vostra religione comprese>>, e da Nonno di Panopoli nelle Dionisiache. E ancora Vulcano e i Ciclopi, che lo studioso Domenico Scinà  -dice  Vigo-  distinse in pastori, artefici di metalli ed edificatori, e i cui successori continua l’autore, i siciliani Agrola e Iperio, costruirono le mura della rocca di Atene e i fortilizi di Micene e Terinto. Di opere trogloditiche e ciclopiche scavate nella roccia o costruite con massi poligoni senza cemento abbondano le testimonianze, oltre che in Grecia, in Sicilia (Valle d’Ispica, Val di Noto, Val di Mazara, e dunque a Modica, Palazzolo, Agrigento…), a Lipari, a Malta, in Italia (scavi di Sorrento, capo Miseno, promontorio del Circeo, o ancora Arpino, Terrracina, Alatri, Ferentino, Preneste…). Che i Ciclopi erano siciliani risulta da Omero, Esiodo, Apollodoro, Tucidide, Strabone, Pausania, Plinio, per il quale l’umanità era loro debitrice dell’arte di cuocere il ferro nelle fornaci. E cos’altro era la leggenda dell’unico occhio, dice Vigo, dei Ciclopi se non il ricordo della lucerna che portavano sulla fronte quando entravano nelle miniere? E inoltre i Palici, venerati solo in Sicilia e il culto dei Cabiri, che rimandavano anch’essi a Cerere, Proserpina, Plutone, e che per Isidoro di Siviglia avevano inventato la musica (sic!), così come per Diodoro Basilea era stata inventrice dei cembali, dei timpani e della zampogna. E quanto a Cerere tesmofora, peregrinante nel mondo in cerca della rapita Proserpina, e umanissimamente accolta dagli Ateniesi, viene citato Cicerone che da Cerere diceva essere stati dati e compartiti agli uomini e alle città i principi della vita, del vitto, delle leggi, dei costumi e gli esempii della mansuetudine e dell’umanità (alias le leggi che regolamentavano la proprietà dei campi e imponevano il rispetto dei genitori, l’offerta delle primizie agli dei…). Di tutti i popoli toccati dalle migrazioni e colonie atalantiche Vigo mette in risalto le somiglianze con la religione e mitologia atlantiche: la credenza nel Dio unico o causa prima (divenuta a Roma e ad Atene, e per tutto il paganesimo, culto del Dio ignoto), “principio” divino particolarmente sentito in Egitto, India, fra i Caldei, e attorniato da divinità maggiori e minori (uomini divinizzati, esseri allegorici, semidei) suoi ministri; le cognizioni astronomiche comuni: divisione dell’anno solare in 12 mesi, i 12 segni dello zodiaco, l’anno bisestile…; le affinità nella statuaria e nell’architettura, ad esempio quelle rilevate da Strabone nell’arte figurativa e nei monumenti etruschi, egiziani, siciliani; oppure negli etimi delle rispettive lingue, come fra il siciliano, il sanscrito e l’italiano. E ancora, l’arte di bonificare le paludi e canalizzare le acque, o il dare vita a forme temperate di autorità monarchica. Quanto a questi due ultimi aspetti l’autore fa riferimento, fra gli altri, agli acquedotti ciclopici rinvenuti in Beozia, opera dei pelasgi tirreni (cioè gli atalanti italici ormai unificati[si] in famiglia), e alla bonifica del bacino del Po realizzata, secondo la testimonianza di Livio, Plinio, Virgilio, dagli etruschi, popolo per Vigo addottrinato dagli atalanti, i quali atalanti espandendo la loro civiltà e la loro lingua nella penisola (sì da rendere omoglotti i suoi antichissimi popoli, fra i quali poi, su tutti, si sarebbero imposti i latini) erano arrivati in Etruria o per terra o per mare. Tutto quello che vi fiorì -rimarca- fu siciliano. La bonifica etrusca rese possibile la posteriore esistenza di città quali Torino Venezia Milano Bologna Padova Pavia e, nel contesto risorgimentale del tempo, l’autore legge tale realizzazione, accanto all’elemento linguistico sopra accennato e a quello politico che ora vedremo, come un positivo augurale tassello della grande iniziazione nazionale, della eterna (ancora oggi incompleta?) catena della fraternità italiana.

        Risvolti politici della genesi atalantica della civiltà

Gli atalanti, secondo il racconto fatto nel Timeo dai sacerdoti egizi a Solone, erano politicamente divisi in 10 distretti autonomi, ognuno con un suo principe e sue proprie leggi civili e religiose, ma uniti da un patto federale che li congiungea con unico vincolo di fratellanza, non facevano mai guerra fra di loro, e erano pronti ad accettare il supremo comando di uno solo in caso di necessità comune. Allo stesso modo gli etruschi -dice l’intellettuale acese- erano una federazione di 12 cantoni, ognuno dei quali chiamato Lu Comuni (come il loro magistrato superiore) con coincidenza sorprendente -osserva- fra quell’antichissima denominazione e la presente siciliana della stessa significanza (cioè il Comune, Cumuni nel siciliano odierno). Tale notazione linguistica, con tutte le altre sparse nella Protostasi, ci permette di assegnare a Vigo un posto preciso nella schiera di quanti nell’infuocato ‘800 storico e politico italiano dibatterono da posizioni diverse la questione del “primato” linguistico siciliano. Per alcuni, come Agostino De Cosmi (1726-1810) e Corrado Avolio (1882), il dialetto siciliano aveva origini romanze, perché nato dalle trasformazioni del latino popolare, cioè il latino parlato (tesi tuttora corrente), e con la scuola poetica siciliana, sotto Federico di Svevia, era arrivato per “primo”, rispetto agli altri dialetti italiani, al livello letterario. Per i “sicilianisti”, fautori della “tesi sicula”, il siciliano invece era una lingua diversa e molto antica: era il prisco idioma di sicani e siculi che aveva resistito nel popolo e nell’uso vivo sia al greco che al latino e all’arabo (tesi di Innocenzo Fulci e di Vigo), idiomi imposti nell’isola dalle varie dominazioni, divenendo così il “siculo”, che in sé aveva assorbito tracce degli altri idiomi (tesi del Vigo), la prima forma dell’italiano. Nel capitolo VII Vigo scrive:<<…nel dominio romano il latino, nel dominio orientale (alias bizantino) il greco, e nel musulmano l’arabo furono i linguaggi ufficiali [ma] lo strato superiore della società non tramutava lo inferiore [perché] la plebe e tutti gli altri, nessuno eccetto, [parlavano] il volgare di quel tempo, derivato dall’antico pelasgo-siculo>>. Nell’ardente clima risorgimentale molti sicilianisti vissero la tesi sicula non in senso separatista o grettamente provinciale -osserva Sebastiano Vecchio (2013)- come veniva loro spesso rinfacciato, ma come presidio di italianità (Francesco Paolo Perez, Vincenzo Di Giovanni, Emerico Amari) e di coscienza “nazionale” perché il popolo dei Siculi, passato in Sicilia dall’Italia prima della nascita di Roma e vissuto con i Sicani nell’isola prima dell’arrivo dei coloni greci, era considerato di “razza italica” come gli altri antichissimi popoli della penisola. I siciliani siamo razza italica -diceva Emerico Amari- e l’Italia è razza sicula; sono italiano -affermava Di Giovanni- perché sono siciliano, non c’è Italia senza le sue parti; e Perez nel 1862 impugnava la lingua dei siculi viva da 25 secoli per difendere le autonomie locali (regionali) contro i teorici dello statalismo centralista postunitario. Lo stesso Vigo, convertitosi negli anni dall’indipendenza/autonomia politica dell’isola (impugnò le armi nel 1848 e fu nel Parlamento del governo provvisorio di Ruggero Settimo) all’ideale dell’Unità d’Italia, nella poesia in lingua “Non demolite” canterà: sancite ai sette popoli cinti di terre e mari/ difformemente i vincoli/ che li collega in un… Ancor più radicalmente di altri per Vigo il siculo risaliva all’antica Atlantide, che nell’espandere con le sue antichissime colonie (Platone scriveva nel Crizia che gli atlantidi avevano per secoli dominato sopra molte altre isole e sovra quelle ancora che volgevansi verso l’Egitto e l’Italia) la sua civiltà nella penisola, aveva sovrapposto, “insinuato”, “naturato” l’atalanto-siculo, lingua della classe imperante e docente, nei linguaggi degli aborigeni completandoli, regolarizzandoli, ma divenendo esso stesso a sua volta volgare, quando si imposero in tutta la penisola la prepotenza romana e il latino letterario. Corollari inevitabili ne erano che unico apparisse nell’800 il fondo lessicografico dell’italiano al di sotto di tutte le varietà dialettali esistenti e che fra tutti gli idiomi parlati nella penisola, i più che fra loro si avvicinano -leggiamo nella Protostasi- anzi si somigliano, e hanno comuni le frasi, e i proverbi, sono proprio il siciliano e il toscano, appaiati per così dire anche dal lontano, comune, retroterra culturale etrusco. Se Vincenzo Di Giovanni insisteva nel dire: sangue siculo e linguaggio siculo mai spentisi né con i greci né con i Romani né con gli arabi, Vigo gli fa eco nel capitolo VII quando afferma, a proposito del latino volgare (parlato) derivato dall’antico pelasgo-siculo: Così in Roma ai tempi di Augusto, così fra noi prima, dopo e oggi. Siculomania?

Già nel 1897 Grassi Bertazzi osservava a proposito della Protostasi e di altri lavori eruditi di Vigo che se in molte affermazioni [l’autore] erra[va] per la poca cultura che allora c’era tra noi delle ricerche archeologiche, o perché egli stesso mancava della conoscenza profonda di qualche lingua antica, di filologia e scienze affini, sviste e errori nascevano da soverchia buona fede e troppo amore per la Sicilia di cui voleva vincere la fatalità storica. E lamentando lo stesso Vigo nella Protostasi (capitolo III) di non disporre in Sicilia di tutti i libri di cui avrebbe avuto bisogno per verificare, e forse sublimare al grado di storica verità, le sue ipotesi/deduzioni, basta per noi oggi soffermarci sul significato “politico”, più che sul valore “rigorosamente” scientifico di tali ipotesi o “parti” di esse, muovendosi egli, con evidenza e ardore, fra nazionalismo patriottico e ideologia autonomistica, e testare perciò la valenza “ideale" per lui e anch’essa “politica” della federazione delle 12 Città-Stato etrusche. L’autore la esalta con parole che illuminano la passionale dialettica, dentro la sua anima, tra libertà e tirannico dispotismo, tra martirio e servaggio, dialettica che presiede alla genesi e alla strutturazione di tutto il libro. Nel capitolo III infatti annota che l’Italia d’allora era partita e unificata come il desiderio de’ savii la desidera oggidì, e se gli uomini fossero più illuminati e prudenti la costituirebbero. Il suo ideale politico lo porta a lumeggiare anche delle forme di governo dei Sicani e dei Siculi tutte le somiglianze con il passato atalantico, e lo guida nella convinzione/dimostrazione che gli uni e gli altri appartenevano allo stesso ceppo pelasgico. Quanto all’origine dei Sicani accetta la tesi (contraria a quella di Tucidide) degli autori che li consideravano autoctoni, come loro stessi si autodefinivano: Diodoro, Timeo, Isidoro di Siviglia, Demetrio Calaziano il quale, commentando il primo idillio di Teocrito, li faceva discendere dal ciclope Briareo e da suo figlio Sicano. Per Vigo i Sicani erano i superstiti, con il loro pezzo di Sicilia, della catastrofica sommersione di Atlantide, e discendenti diretti dei “ciclopi”, perciò di stirpe unica con i Siculi, che erano sì venuti dall’Italia, ma erano anch’essi discendenti degli antichi atalanti-pelasgi immigrati precedentemente in Italia, come risulta da una notizia di Servio, che in margine all’Eneide (I. 537) racconta che Italo, re dei Siculi, aveva portato quel popolo dalla Sicilia nel Lazio (anche Filocoro affermava che gli itali tirreni erano pelasgi e atalanti), e da Aristotele il quale diceva che Italo, molto prima di Minosse, aveva dato agli italici, allora rustici pastori, le leggi, insegnato l’agricoltura, e istituito i sussizii, pubblici banchetti ai quali ciascuno contribuiva proporzionatamente, banchetti ch’erano parte dei riti religiosi [e] faceano fraternizzare il popolo, e lo rendeano più umano e civile. Si aggiunga che anche Oltofredo Muller, citato da Vigo, riteneva che i Siculi occupassero ab antiquo l’Etruria, la valle del Tevere, il Lazio e la Campania. Fra i Sicani, le cui città assieme a quelle sicule vengono minutamente enumerate nel capitolo IV sulla scorta degli studi fatti da Mons. Airoldi e dal suo amico il canonico R. Di Gregorio, ogni borgo aveva il suo principe (Diodoro), e erano pronti a collegarsi nel comune pericolo, come evidenzia la leggenda narrata da Diodoro dei 6 eroi sicani oppostisi al passaggio di Ercole e da lui sconfitti. Analogamente i Siculi affidavano le loro città ai più virtuosi fra di loro dal voto popolare prescelti, e calca Vigo il tono su quell’eleggersi spontaneamente i principi da parte dei Siculi, subito aggiungendo: quasi come noi abbiam fatto il 10 luglio 1849 chiamando nostro monarca (dopo la destituzione di Ferdinando II di Borbone) Alberto Amedeo di Savoia, e il 21 ottobre 1860 il di lui fratello Vittorio Emanuele. Il messaggio/monito implicito per il sovrano sabaudo era a non deludere i Siciliani, che  -come scrive in altre sue opere l’intellettuale acese- avevano proclamato l’unità italica con mirabile abnegazione e generosità, donde l’energico ricordo/minaccia al Re che era stata la vittoria popolare a mettere nelle mani del cittadin sovrano (sic!) Vittorio Emanuele lo scettro: Dio non ne lo faccia pentire [il popolo siciliano] avverte perciò perentoriamente e fieramente  l’autore! Dei Siculi racconta Vigo che si stanziarono nella Sicilia orientale, la più nobile e vasta regione di questa terra un giorno beata, dalla quale i Sicani si erano ritirati perché spaventati da una eruzione dell’Etna, dominando così i Siculi sui due promontori di Pachino e Peloro, sulle piane di Catania, i campi di Enna e i tre grandi porti di Zancle (Messina), Ibla, Ortigia. Guerreggiarono essi con i Sicani per il possesso dell’isola che, ai tempi della guerra di Troia e del viaggio di Enea, aveva come abitatori al di là e al di qua del fiume Imera i seguenti popoli: a occidente i Sicani, gli Elimi (che erano focesi e troiani insieme, cioè progenie atalantica ritornata secondo lui nell’antica patria, la Sicilia) e i Fenici, che detenevano Mozia, Solunto, Palermo e le isole di Maretimo, Levanzo, Favignana, Pantelleria; a oriente i Siculi  e i Morgeti (anch’essi atalanti tornati dall’Italia in Sicilia). Dei Sicani lo scrittore elenca alcuni principi famosi e potenti come Cocalo, signore del territorio agrigentino, che ospitò Dedalo, il quale aggiunse splendore e innovazioni alle arti sicane, e dei Siculi le glorie di Ducezio, che lottò a lungo contro gli usurpatori greci, siracusani e agrigentini, finché Siracusa, distruggendo Trinacia, pose definitivamente fine all’autonomia sicula nell’isola. Tutti eventi che dettano a Vigo due significative riflessioni legate all’attualità storica dei suoi tempi e alla sua diretta esperienza: popoli -dice- i Sicani e i Siculi che furono per ben poco tranquilli possessori di questa terra infelicissima, che non ha saputo sin’oggi mantenere il dominio di se medesima, massimo bene a cui deve aspirare ogni nazione… e più oltre, quanto ai Siculi sconfitti che si “inselvarono” sui monti o “si tramescolarono” ai Greci e ai Sicani, leggiamo: ogni nuovo dominatore tende ad evirare i generosi, talché non reagiscano un giorno contro di lui. La nostra storia insulare ribocca di questi esempii; un secolo e più i Borboni non intesero che a questo; ne costrinsero alla disperazione e -con scatto fiero d’orgoglio aggiunge- furono scacciati dal popolo la cui potenza è eterna e invincibile (sic!). Nel V capitolo Vigo si diffonde su quella che definisce la seconda gloriosa era siciliana, preparata dai germi sicani e siculi, stagione beata in cui il genio ellenico e il pelasgo-atalanto consociati mostrarono al mondo antico a quale altezza può elevarsi questo popolo siciliano.     

      Dall’epoca greca alla decadenza alla “saviezza” normanna

Dopo avere velocemente accennato alla fondazione delle colonie greche a partire dall’VIII secolo, alle loro guerre intestine e a quelle con i Siculi, gli Ateniesi, i Cartaginesi fino alla conquista romana (212/210), lo scrittore si sofferma ampiamente sulla civiltà allora fiorita, tessendo i soliti raccordi per contrasto o per analogia con il presente. A proposito ad esempio di Timoleone (IV sec.) che espurgò l’isola di tiranni, disfece i cartaginesi loro alleati, e rimise in vigore lo stato popolare, lo paragona a Giovanni da Procida e a Garibaldi, e precisando che la Scuola di Pitagora e i discepoli di Platone avevano predisposto in Sicilia con la loro presenza e i loro insegnamenti le menti alla riscossa di Timoleone, afferma che quegli antichi intellettuali fecero come nel dugento i sapienti dell’epoca sveva, e nel XIX secolo quelli che ancor vivono, e a cui si devono i rimutamenti del 1848 e del 1860. Analogamente, quando elenca i grandi legislatori di quei secoli: Gelone (il più giusto e prode fra i monarchi dell’antichità), Empedocle, Gerone I (ricordato per le leggi agrarie), Diocle, Dione (amico di Platone), e ancora prima Caronda, indugia su Caronda e in particolare su quella sua legge che recitava:<<Tutti i figli dei cittadini siano ammaestrati nelle lettere da maestri stipendiati dalla città>>. La legge, adottata nell’isola e nella Magna Grecia, consentì di avere scuole pubbliche gratuite sin dal 530 a.C. e l’autore commenta: <<i siciliani fortificavano l’anima delle nuove generazioni crescenti, da un lato aprendo a tutti i ginnasii, dall’altra imponendo l’obbligo a tutti i parenti di mandarvi i fanciulli, e prosegue polemicamente:<< né queste leggi erano rimaste lettera morta, come fra di noi ad onta dell’art. 326 della legge Casati per l’insipienza di taluni de’ nostri reggitori, invece allora furono pienamente attuate perfino nelle classi più elevate della società>>, e non trascura di ricordare che Aristotele annotava nella “Politica” (I, 2) esser tanto il fervore dei siciliani per la sapienza da avere istituito scuole perfino per gli schiavi. L’argomento lo toccava personalmente, perché dopo il 1861 come ispettore scolastico Vigo si era adoperato per istituire nel suo territorio il pubblico ginnasio e delle scuole tecniche, e non stupisce nel V capitolo, sulla scorta di Diodoro, Epicarmo, Difilo, Pausania, Cicerone, l’elenco a cui si abbandona dei ginnasi sicelioti, che preparavano le generazioni crescenti (si noti la ripetizione a poche righe di distanza dello stesso stilema) alle sublimi prove della mente e del corpo: i ginnasi di Catania, Tindari, Gela, Agrigento, Taormina, Siracusa (il siracusano Gymnasium maximum). E quanto alla buona amministrazione delle città, afferma che gli antichi sapevano con arti ignote ai moderni tenere ricco l’erario, senza espilare i cittadini… e che la loro sapienza seppe contemperare i pesi a’ bisogni dello stato, senza impigliare il commercio e l’agricoltura. Perciò le terre furono messe a frutto (e Vigo stesso era un bravo agronomo!), i cambii animati e la popolazione, senza pauperismo, si accrebbe a dismisura. A differenza -riflette- della contemporanea a lui Italia di 22 milioni di persone che invece di sublimarsi unificandosi, invece di rafforzarsi di economie e semplicità di ordinamento non ha saputo che immiserire, e complicare la macchina sociale nel modo il più irrazionale che immaginare si possa… Una Sicilia splendida quella greco-sicula per potenza, floridezza, sapienza, isola ricca, colta, industre, mentre oggi corriamo -lamenta Vigo- gli interminati campi del Val di Noto e del Val di Mazara… nudi di alberazione, con acque stagnanti o che si precipitano al mare, traversando invano terre riarse dal sole, ove non inverde un filo d’erba… Un’isola in cui fiorirono -soprattutto sotto Gelone, Terone, Gerone I, Gerone II-  accanto a innumerevoli ingegni minori i “grandi uomini”, quali: Stesicoro, Teognide, Epicarmo, Eschilo (che visse e morì in Sicilia), Sofrone, Rintone, Corace inventore della rettorica, Empedocle genio universale, gli storici Antioco (fonte di Tucidide, Dionigi di Alicarnasso, Pausania, Diodoro), Filisto, Timeo, i geografi Evemero e Dicearco, il poeta Teocrito che sovrastava nelle melodie delle soavi sicelidi camene (sic!), Archimede che fu alla fine ostia inulta sull’ara della patria indipendente, i molti medici che gareggiavano nelle scoperte con quelli di Coo e di Gnido, e ancora i non siciliani Senofane, che visse però a lungo a Catania, Messina, Siracusa, e Pindaro, che rivaleggiò nella reggia siracusana di Gelone e Gerone con Simonide e Bacchilide, per non parlare dei templi di Selinunte, Segesta, Agrigento, dei teatri di Acre, Siracusa, Taormina, Catania, e di tutto il vasellame e arredi preziosi e statue e pitture (opere di Mirone, Prassitele, Zeusi), razziati prima dal console Claudio Marcello con la conquista di Siracusa (212) e poi da Verre. E nel capitolo VI Vigo ribadisce che quanto di prezioso albergavano Siracusa, Catania, Messina, Agrigento… si versò a Roma adducendovi il tesoro letterario, artistico, scientifico (ad esempio anche lo gnomone e la clessidra sconosciuti ai Romani) fra noi cumulato da’ remotissimi tempi dei pelasgi fino all’epoca gloriosissima di Gerone e Archimede. E si compiace di precisare che il “secolo d’oro” di Cesare e Augusto si deve ai greci servi e maestri dei Romani, con una postilla che ripropone la tesi a lui cara e al suo sogno combattuto di una sicilianità/italianità recalcitrante al “piemontesismo” postunitario:<<Le genti del Lazio -scrive- erano originariamente siculi (vedi prima Muller), unica l’origine di questi e di quelle; pertanto il loro ricongiungimento verificatosi dopo tanti secoli sollevò quelle (i latini) all’altezza di queste (i siculi) creando il secolo d’oro>>.

Nei capitoli VI e VII l’autore passa in rassegna invece tutti gli aspetti e le “prove” civili e militari della lunga inesorabile decadenza della Sicilia, le insulari miserie come le definisce, sotto l’avida Roma repubblicana e imperiale, sotto i bizantini (il pretore costantinopolitano Giustino supererà nelle depredazioni lo stesso Verre), durante le invasioni dei Vandali e dei Goti, e sotto la dominazione araba. Ci furono sì illustri personaggi, ma poiché prosperità e civiltà -ammonisce- sono indissolubili, e la prosperità attecchisce solo nel campo dell’indipendenza, la “luce” di quegli intellettuali fu pari a quella delle stelle, incapace di diradare le tenebre: da Filino di Agrigento (III sec. a.C) ad esempio a Cecilio di Calacta (I sec a.C), da Diodoro Siculo (I a.C) a Calpurnio Siculo (I. d.C.), da Flavio Vopisco (IV sec. d.C.) a Elpide di Messina (V/VI sec.), sorella -sembra- di Simmaco e moglie di Severino Boezio che dettò dei canti in greco, volti in latino dalla Chiesa, o ancora le molte figure di papi, vescovi, chierici, monaci, martiri, perché la ”sapienza” greca e latina coniugatasi alla fede cristiana trovò rifugio nei monasteri (basiliani e benedettini) e all’ombra della Chiesa, dando in quei tempi bui il sacerdozio fama e onore, perché soprastava agli altri ordini sociali. Ma le popolazioni erano decimate, affrante, affamate, il suolo immiserito. Il declino della Sicilia cominciò subito per le spoliazioni dei Romani, i quali la ridussero a predio e provincia. Se la nostra sventura elevava qualche siciliano ai supremi gradi o lo collocava accosto ai regnanti  -scrive caustico Vigo- costui per libidine di servitù, di lucri, o per vilezza d’animo “inferociva” sui conservi… perché gli oppressori fiutano e insediano tra i corrotti i corrottissimi… come tra Scinà e Franco -aggiunge l’autore- tra Ruggiero Settimo e Pietro Ugo, per toccare esempii vicini… i Borboni sapeano chi preferire (sic!) pel ministro o pel viceregnato. E all’altro estremo cronologico, sotto il dominio degli Arabi (IX-XI sec), dopo il doppio intermezzo della mala signoria dei bizantini e delle invasioni barbariche, il quadro non appare meno fosco. Pur usando come fonte l’arabista Michele Amari, suo amico prima della rottura del loro rapporto, Vigo da lui dissente, rimarcando il negativo a suo giudizio di quella fase storica: saccheggi, dispotismo, stragi a sangue freddo, miseria, spoliazioni, profanazioni, la schiavitù, la poligamia, la doppia decima, il cozzo delle [due] religioni, l’assolutizzazione del Corano, la rabbia intestina delle fazioni islamiche, le secenterie (per il classicista Vigo!) della letteratura araba e la monotonia della monorima nell’akasida (poemetti), l’umiliazione di dover portare i cristiani sulle spalle la toppa bianca con la figura di un maiale... cosicché nel capitolo VIII, che è rimasto incompleto, l’impresa di Ruggero I e dei suoi pochi Normanni viene definita non conquista straniera, ma emancipazione nazionale. E torna ad affermare lo scrittore con determinazione che l’unificazione italiana concretamente attuatasi in quegli anni era opera della “Sicilia”, che nel XIX secolo compì quello che aveva tentato nell’XI con alla testa i suoi magnanimi principi (i due Ruggeri), i quali sin da otto secoli addietro assunsero per titolo Rex Italiae, preparando il terreno a Federico di Svevia sotto il quale -sottolinea, citando Emiliani Giudici- se i papi non gli avessero opposto infiniti…insormontabili inciampi, il regno delle contrade meridionali si sarebbe esteso a tutta la penisola, e sarebbe diventato principato italiano… Negli ultimi capitoli l’autore da un lato si ostina a dimostrare e sviluppare con particolareggiate schede linguistiche sul latino plebeo e l’attuale lingua rumena, nata -dice opportunamente- dai coloni romani mandati da Traiano nella conquistata Dacia, comparati l’uno (il latino plebeo) e l’altra (la lingua rumena) con il dialetto siciliano, la sua idea di un idioma italiano figlio del siciliano, cioè l’originaria parlatura atalanta conservatasi nel latino parlato conforme, se non uniforme, al siculo degli isolani, ridiventato nello sfasciarsi dell’impero e della religione etnica pagana, nell’uso delle persone colte, aulico e quindi base della nuova lingua romanza italiana. Dall’altro esamina entusiasta l’ordinamento politico normanno, da cui cotanto bene derivò all’isola e per essa all’Italia nell’XI, XII e XIII secolo. Merito di Ruggero e dei Normanni fu, a parte un sistema feudale, frenato da un forte governo centrale che ripopolò la Sicilia e le campagne (i feudatarii.. richiamarono uomini, alberi, sementi), e un Parlamento in cui i Pari (cioè i baroni) quasi condividevano col Principe la suprema potestà legislativa e imparzialmente l’esecutiva [e] stando tramezzo del popolo e del trono, li conteneano entrambi, “merito” -scrive- fu soprattutto l’universa tolleranza. Ruggero conservò ai nativi, ai saraceni, agli ebrei, ai greci, ai lombardi, ai franchi piena libertà di magistrati e codici, usi, religione. Conservò e rispettò le “diversità”; invece -polemizza Vigo, il quale non voleva che la Sicilia fosse di nuovo degradata a terra conquistata e divenisse una provincia di Torino- i viventi nostri legislatori del 1860… dislogando e violentando le belle [diverse] membra dell’Italia, la costrinsero a giacere peggio che nel letto di Procuste, in quello dell’ex feudale Piemonte, incapaci di costruire una nazione davvero unificata entro un unico corpo ben armonizzato. La conciliazione sperava Vigo della “Nazione” con la “Regione”, guardando pare -secondo un suggerimento critico fornito da Grassi Bertazzi- anche al recente esempio americano. Invece i sedicenti fratelli del Nord continuavano, come i Borbone, a disprezzare quali “barbari” e “selvaggi”, e in passato ladri, briganti, irreligionarii, demagoghi, filibustieri (1820,1837,1848,1860) i siciliani, quei siciliani che, dalla prima remota espansione nella penisola della civiltà atalanto-sicula (nautica, astronomia, religione, governo, lingua, arti) ai guerrier del ‘60, avevano invece gettato e “maturato” il germe della nazione italiana, l’Italia -si legge nel Proemio della Protostasi- di Cesare e di Napoleone, di Camillo e Garibaldi, di Colombo e Galileo, di Archimede e di Volta, di Dante e di Alfieri, di Raffaello e Bellini… Sembra pertanto opportuno -quale memoriale attivo anche per le giovani, “italiane”, generazioni di oggi- concludere citando quanto Vigo scriveva in una lettera a Capuana del 12 agosto 1859. Informandolo che stava completando il III capitolo e che in inverno, a Dio piacendo, si sarebbe occupato dei Sicani e dei Siculi, gli confessava -e confessava a se stesso- fra speranza e accoramento: Non so se colgo nel segno, ma almeno morirò inebriato di un magnifico sogno. E la vita è altro che sogno?

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