Visita alla Casa-Museo del prof. Tommaso Romano – di Piero Montana
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- Category: Arte e spettacolo
- Creato: 25 Giugno 2025
- Scritto da Redazione Culturelite
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Ce lo aspettavamo. Da un pensatore conservatore e tradizionalista, come il professore Tommaso Romano, l’arte d’avanguardia, a ragione, è bandita dalla sua casa-museo. Una casa, che il professore, suole definire una sorta di arca, e si comprende bene il motivo, se solo riflettiamo sugli esiti disastrosi a cui sono pervenuti i tanti epigini odierni della sedicente avanguardia.
Sia però ben chiaro, Romano, che è un conservatore, ma un conservatore liberale, che si richiama ad Edmund Burke, tiene a precisare che non ha nulla contro la così detta avanguardia, che non ha nulla contro quel suo padre putativo, che è stato Marcel Duchamp, che non ha nulla contro un Lucio Fontana, contro un Burri, asserendo soltanto che se l’arte di Duchamp aveva un senso nel secolo scorso, che è stato un secolo di grandi cambiamenti e rivoluzioni, un tale senso, non può che perderlo oggi, in un tempo di postmodernità e fine dell’avanguardia, e che per questo i suoi tanti epigoni odierni non solo si limitano a spacciare aria fritta ma tradiscono il loro punto di riferimento, il loro maestro per essere di fatto nient’affatto avanguardisti ma al contrario del tutto anacronisti.
Purtroppo quel che ancora non si comprende è che lo spirito rivoluzionario non si è solo limitato a mettere in crisi, a distruggere strutture politiche e sociali, ma in campo artistico anche gli ideali e le forme eterne della bellezza.
In un suo saggio illuminante, La crisi dell’arte (1918) (1), il filosofo russo, Nicolaj Berdjaev, evidenzia come il leitmotiv dell’avanguardia è la sistematica distruzione delle forme eterne della bellezza, di cui la figura umana è uno dei suoi aspetti privilegiati. La crisi dell’arte a cui Berdjaev assiste già nel suo tempo non essendo causata d’altro che dalla rottura totale con tali forme, dalla quale l’immagine dell’uomo in particolare ne esce inevitabilmente distrutta e destinata a scomparire nell’ambito di un più vasto processo di sfaldamento e di polverizzazione degli assetti politici e sociali attuato dai fermenti rivoluzionari.
Non so se il professore Romano abbia mai letto Berdjaev ma visitando la sua casa-museo, visitando una casa, che egli definisce un’arca, è del tutto evidente che in essa si è premurato di collezionare quanto più possibile opere d’arte che le forme della bellezza hanno inteso celebrare nonché preservare da ogni tentativo rivoluzionario ed eversivo di barbarica devastazione.
In un mondo spiritualmente alla deriva, quale il nostro mondo moderno, in un mondo che ha messo al bando l’Eternità, Romano diversamente da Borges che ne scritto la storia, si limita invece a raccoglierne le forme che il potere dell’arte evoca e ricrea con la sua fascinosa magia.
La bellezza di una figura umana sovente muliebre, che costituisce il soggetto delle numerose opere d’arte raccolte ed esposte in questa casa-museo, sarebbe solo il cadavere di questa stessa bellezza, se in essa non scorgessimo anche una forma dell’Eterno.
Romano di questo è prettamente consapevole oltre che convinto. Il potere, la magia dell’arte è tutto qui: il far emergere dalla rappresentazione dello splendore e delle meraviglie della natura naturata, la natura naturans, in parole povere il far emergere dalla raffigurazione della cosa creata quel Creatore in assoluto, con il quale l’artista spesso religiosamente e con entusiasmo viene a confondersi. La vera maestria dell’arte non consistendo in altro che in questo.
E’ dunque l’elemento spirituale che è predominante in questa splendida collezione d’arte di Romano.
Circondarsi della bellezza, non è entrare in rapporto, o meglio in comunione con il Trascendente? Come dimenticare che l’Ente supremo non è solo il Sommo bene ma anche il Bello in assoluto?
E se quel che San Tommaso e tutta la filosofia scolastica vengono ad asserire riguardo non ad un attributo ma alla stessa sostanza di Dio, e cioè che il Bene ed il Bello in assoluto sono Dio stesso (2), come non vedere che nella distruzione delle forme eterne della bellezza operata non solo dalle avanguardie storiche ma da gran parte dell’arte contemporanea, si è voluto attentare, più o meno consapevolmente, direttamente all’Ente supremo nel loro vandalico ed iconoclasta operato?
Non è qui il caso di approfondire l’abbinamento di estetica e teologia, che sarà invece l’oggetto di un imminente nostro lavoro.
Del resto che gran parte dell’arte contemporanea e d’avanguardia splenda di luce sulfurea di certo non lo si può negare. Lucio Fontana che nella sua arte non solo ha finito per sbarazzarsi di ogni forma e figura umana ma ha pure continuato la sua opera devastatrice infliggendo buchi e ampi tagli alle sue tele monocrome, è pure pervenuto per primo a materializzare la luce sulfurea, la luce nera e diabolica in un’opera ambientale realizzata nel 1948 alla galleria il Naviglio di Milano. Opera questa inquietante e spettrale che da un buio totale, ottenuto con la luce di Wood, lascia intravedere solo sagome informi ed angosciose.
Se non si tiene conto della disumanizzazione nell’arte (3) nel nostro tempo, al visitatore della casa-museo di Romano, sfuggirà certo il senso ed il vero proposito di una collezione di opere d’arte, che fondamentalmente è quello di essere contro corrente, ossia contro tutte quelle tendenze dell’arte contemporanea oggi di moda, che nelle loro opere hanno e continuano a mettere in atto la dissoluzione delle forme e delle figure sia umane che del creato in genere, giacché l’arte che Romano predilige è tutto il contrario, di quel che, in nome della purezza, José Ortega Y Gasset, l’ideologo del-La disumanizzazione nell’arte, in tale saggio viene a teorizzare.
Dette queste cose, parliamo allora di quest’arte à rebours, per citare un’opera di Joris-Karl Huysmans, uno scrittore assai caro a Romano.
Questa casa-museo, quest’arca, è divisa in due scoparti, nel primo sono comprese opere di artisti (pittori e scultori) dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, ma tra queste sono inclusi anche alcuni reperti del Settecento, tra i quali una pregevole scultura in terracotta di Giuditta con in mano la testa di Oloferne, opera di anonimo, nel secondo scomparto invece opere di artisti contemporanei, che però non si sono mai compromessi con tentazioni avanguardistiche e che pertanto nelle loro opere l’elemento privilegiato è assai lontano da quella disumanizzazione che è stata il vero ed unico leitmotiv di tutte le avanguardie.
Come in ogni museo che si rispetti, l’attenzione del suo ideatore è rivolta principalmente agli artisti del territorio. Di questi artisti tuttavia non troveremo in tale museo opere di grande formato ma che in compenso per le loro piccole, ridotte dimensioni possiamo considerare dei veri e propri gioielli, tanto più preziosi in quanto del loro artista sono dei pezzi assai singolari che difficilmente troveremmo riprodotti in cataloghi monografici.
Chi sono questi artisti? Anzitutto i grandi pittori dell’ottocento siciliano e tra questi non manca davvero, ad eccezione di Antonino Leto, nessuno. Da Giuseppe Patania a Francesco Loiacono, presente con due disegni, a Catti, ma ci sono anche opere dei bagheresi Onofrio Tomaselli e Domenico Quattrociocchi, nonché un bel ritratto di un giovane uomo triste e pensieroso con il capo e lo sguardo rivolto per terra, opera eccellente di Giuseppe Sciuti ed ancora delle belle grafiche di Luigi di Giovanni e lavori di altri pittori meno conosciuti.
Di questi artisti di fine ottocento va senz’altro segnalata l’opera raffinata di un non siciliano, Luigi Polverini, un delizioso ritratto di signora con cappello ed abito con scollatura ornata di pelliccia.
Tra gli scultori sempre di fine Ottocento e primi decenni del Novecento infine non possiamo non menzionare una piccola scultura in bronzo di Mario Rutelli raffigurante una donna alata con in mano una corona.
Tutte queste pitture, sculture e disegni di insigni maestri sono esposti in un ambiente in cui arazzi, terrecotte, porcellane finissime, coralli ed avori di pregevole fattura, tutte opere di un’arte a torto definita minore, non sono solo pezzi di arredamento ma veri gioelli artistici, che in questa casa-museo del professore Romano, trovano la loro vetrina.
Se passiamo a parlare delle opere degli artisti contemporanei a noi più vicini, esposte nel secondo scomparto di quest’arca museale, non possiamo che trovarci in imbarazzo.
Già perché esse sono davvero assai numerose e noi qui, nella nostra recensione, non possiamo ricordarle tutte, correndo il rischio, nel far questo, di fornire un semplice e noioso elenco.
Ci limiteremo pertanto a segnalare quelle che, a nostro avviso, più meritano di essere ricordate.
Degli artisti del così detto gruppo dei quattro (Franchina, Barbera, Lia Pasqualino Noto, Guttuso) in questa splendida ed esauriente collezione, mancano solo le opere di Nino Franchina.
Quelle di Lia Pasqualino Noto sono tre pitture nelle quali è evidente una certa inquietudine che porta l’artista palermitana a rompere con i rigidi canoni della scuola del Novecento. E’ la stessa inquietudine che porterà Guttuso a fuori uscire da clima culturale fascisteggiante, a cui ingenuamente aveva aderito nella sua giovinezza.
Delle opere di Giovanni Barbera, presenti in questa collezione, non si può dire altrettanto.
Del loro comune maestro Pippo Rizzo (4), la collezione di Romano possiede invece due ludici e sportivi bozzetti.
Ma tra i tanti bozzetti di questa collezione vanno menzionati una figurina di donna in costume , opera di quello straordinario e assai trasgressivo pittore, che è stato il mago ed entomologo palermitano, Raniero Alliata di Pietratagliata, di cui di recente ci siamo occupati in un nostro libro (5), e quello di un volto di una signora, disegnato di sbieco, di quell’altro esoterista imparentato con l’Alliata ma di questi rivale, che è stato Casimiro Piccolo di Calanovella, fratello dell’assai più noto, in quanto insigne poeta molto apprezzato da Montale, Lucio.
Bozzetti ragguardevoli sono poi i nudi di donne del bagherese Silvestre Cuffaro, che tuttavia è stato un valente scultore, meritevole tutt’oggi di tutta la nostra attenzione, e di Saro Mirabella, pittore catanese molto stimato da Guttuso, che lo definiva un vero maestro, ed ancora il busto di un uomo, che potrebbe benissimo essere, a motivo della forte somiglianza, quello del poeta Castrense Civello, opera di un concittadino di Civello, e cioè del pittore bagherese Nino Garajo, d cui negli anni scorsi il museo Guttuso ha allestito un’ottima mostra antologica.
Per concludere, di tutte le altre opere, tra le quali dipinti e disegni di Corrado Cagli, Emilio Greco, Migneco, Fiume, Porzano, Vespignani etc. qualcosa va detto di un buon e corposo dipinto di Bruno Caruso e di una lirica figura femminile di Ernesto Treccani. Anzitutto queste due opere assai diverse tra loro stanno, per così dire, agli antipodi. Quanto il dipinto di Caruso per il suo consistente e solido realismo risulta assai pesante, tanto più lieve e poetica è la figura di donna dipinta ad acquerello da Treccani.
La solida rappresentazione di un gruppo familiare, costituito in primo piano da due coniugi, da Caruso ritratti con il rosario in mano, intenti di certo a recitate delle preghiere, contrasta con una spiritualità meno esibita, che è quella che emerge dalla limpida e diafana figura femminile del Treccani. E’ qui che la spiritualità è più presente con il suo alito di trascendenza. Nel farsi più lieve, meno gravosa e pesante, nel farsi meno materiale o materica la spiritualità è l’essenza stessa della poesia. Molti purtroppo non ci arrivano a comprendere che la vera arte è un’operazione alchemica, che la vera arte è trasmutazione o conversione della materia pittorica in luce dello spirito, ma che tuttavia una tale luce per irradiarsi ha bisogno di un corpo, ha bisogno di figure e forme che tale corpo possano incarnare. La dissoluzione delle forme e delle figure specie quelle del corpo umano, proposta ed incentivata da tanta arte contemporanea e d’avanguardia ha finito dunque per dissolvere questa poesia, ha finito per dissolvere l’arte stessa.
Quando ai nostri giorni in un museo tra i più noti di arte contemporanea, il Centro Pompidou di Parigi, si esibisce come un trofeo un semplice telaio senza neppure la sua tela, che incornicia soltanto il pezzo di muro bianco della parete, su cui è stato appeso, lo spettatore certo meno sprovveduto ha ragione di esclamare: << Ecco a cui porta l’arte pura, l’arte d’avanguardia, l’arte della disumanizzazione ossia della distruzione, della perdita della figura umana e di ogni forma del creato: alla distruzione totale dell’arte stessa! >>
Per amore dell’arte, per amore delle forme eterne della bellezza e dei suoi trascendenti valori noi tutti dobbiamo essere grati a Tommaso Romano per aver creato con la sua casa-museo un’arca che possa anche in futuro preservare dalla devastazione quel che davvero rende degna di grande ammirazione l’arte: la creazione della bellezza nell’infinita varietà delle forme e figure di ogni essere creato.
Ma per amore di questa vera e grande arte, ci permettiamo di dare un consiglio a Romano: << Professore lasci perdere i Croce Taravella e i Giovanni Leto, che da una delle ultime avanguardie, l’informale, hanno ereditato e hanno finito per incarnare nelle loro opere lo spirito anarcoide della devastazione e del disastro. Tali opere, professore, infatti non hanno niente in comune con lo spirito che informa i suoi ideali ed i suoi interessi prettamente estetici, ideali ed interessi che noi ammiriamo tanto più quanto più oggi sono anacronistici, e à rebours. >>
Piero Montana
Note
- Nicolaj Berdjaev, La crisi dell’arte in S. Bulgakov- N. Berdjaev Il cadavere della bellezza, ediz. medusa, 2023, Milano.
- Sul rapporto del Bello con Dio si leggano i tre testi che Ananda K. Coomaraswamy ha raccolto in un unico e prezioso volume, La teoria medievale della bellezza, ediz. Lo studiolo, Sanremo MMXXI.
Il primo testo è quello del De pulcro et bono, tratto dal De divinis nominibus di Dionigi l’Aeropagita. Il secondo il De pulcro è invece tratto dall’opera Summa de bono di Ulrich di Strasburgo, il terzo Del bello divino e la sua attribuzione a Dio è tratto dall’opera di S. Tommaso, Commento ai Nomi Divini di Dionigi.
- La disumanizzazione nell’arte è un noto saggio di estetica di José Ortega Gasset, nel quale la perdita della figura umana è addirittura considerata come la condizione necessaria per pervenire alla così detta arte pura.
Il libro è sto edito in Italia dall’edizione SE nel 2016.
- In diversi suoi articoli pubblicati negli anni 30-40 dal giornale L’Ora Guttuso menziona il pittore Pippo Rizzo di essere stato il suo maestro.
- Piero Montana, Eresia e magia nell’opera erotica di Raniero Alliata Principe del Sacro Romano Impero, ediz. Centro d’Arte e Cultura Montana, Bagheria , 2025.