“Il coronavirus e la caverna di Platone” di Daniele Fazio

Le misure eccezionali varate dal governo per fronteggiare l’esplosione del contagio da coronavirus hanno senza ombra di dubbio limitato le libertà dei cittadini italiani. Siamo – fatte salvo le eccezioni previste dall’ultimo Dpcm – sostanzialmente invitati a stare in casa, quindi in una sorta di “salvifico” incatenamento nella nostra spelonca. E visto che in maniera metaforica parliamo di “caverne”, l’allegoria può servire in questo momento di “costrizione” a ricorrere a qualche spunto filosofico tratto da uno degli astri dell’antichità: Platone (428/7-348/7 a.C.).

Il fondatore dell’Accademia, discepolo di Socrate (470/469-399 a.C.) da cui subì sia per l’insegnamento che per la coerenza di vita un fascino sconvolgente, nella Repubblica – una delle sue opere fondamentali – ci offre uno tra i miti più suggestivi della sua filosofia, che, tra l’altro, può essere considerato una sorta di sintesi del suo insegnamento. In breve, Platone ci invita ad immaginarci una caverna in cui sono incarcerati degli schiavi. Essi sono incatenati in modo tale che guardino il fondo della spelonca. Sul fondo della parete appaiono delle immagini che sono il frutto di una proiezione di statuette issate su bastoni dietro il muricciolo che sta dietro le loro spalle. La proiezione è possibile grazie ad un fuoco acceso che illumina le statuette proiettando quindi la loro ombra sulla parete. Ipotizzando che uno degli schiavi riesca a liberarsi, gradualmente avviene che quanto aveva creduto come verità prima, ossia la proiezione delle immagini delle statuette, diventa semplicemente un’immagine di una realtà più vasta e quindi che vale la pena esplorare. Così, il nostro schiavo liberato procederà – oltre le ombre – verso l’imbocco della caverna. Progressivamente quindi prima rivolgendosi verso il muro penserà che le statuette siano la realtà e non le immagini proiettate sulla parete, ma poi scavalcando il muro vedrà che anche esse sono false perché semplici statue issate su aste da uomini. Procedendo ancora giungerà alla vera realtà, ossia all’imbocco della caverna in cui scoprirà la luce abbagliante del sole, cui man mano dovrà abituarsi. Prima vedrà le cose rispecchiarsi nell’acqua, poi riuscirà a fissare le costellazioni e il firmamento e quindi finalmente un giorno sarà in grado di fissare il sole e dunque godere della vera realtà, ossia di un mondo di straordinaria bellezza, tant’è che mai più vorrebbe ridiscendere nel luogo d’inizio del suo processo di liberazione. E tuttavia, Platone fa notare che, nel desiderio di far partecipi i suoi antichi compagni di prigionia, lo schiavo liberato ridiscende nell’oscurità della caverna proprio per raccontare quanto di bello ha visto. La risposta dei compagni, però, sarà tutt’altro che entusiasta, infatti, abituatisi all’oscurità questi ultimi prima derideranno il loro compagno e poi – infastiditi dal suo tentativo di liberarli – giungeranno anche ad ucciderlo.

Qual è l’interpretazione di tale mito? Nel corso del tempo si sono succedute varie ipotesi. Tuttavia, in via ordinaria, essendo fedeli all’enorme ricchezza della simbologia filosofica di Platone, possiamo dire che la caverna sta ad indicare il nostro mondo e lo stato di ignoranza in cui l’uomo vive, ritenendo come vero ciò che vero non è, ossia l’opinione. Gli schiavi sono naturalmente gli uomini che sorbiscono ciò che altri vogliono far credere loro come vero (e questi altri nell’ottica platonica sono soprattutto i sofisti). Le catene sono le passioni e l’ignoranza che offuscano la vera conoscenza, mentre le statuette sono semplicemente le cose sensibili e il fuoco – la conoscenza sensibile – ossia il principio grazie al quale può essere esperita la conoscenza delle cose terrestri. La liberazione dello schiavo avviene grazie alla filosofia, che quindi lo guida verso la conoscenza vera – sopra il sensibile – e quindi nel mondo al di fuori della caverna che è il mondo delle Idee. Le immagini riflesse nell’acqua – secondo la gerarchia platonica – sono le idee matematiche, mentre il sole si erge tra tutte le idee a simboleggiare l’Idea del Bene, che rappresenta lo sforzo e il culmine della formazione filosofica. Lo schiavo che torna nella caverna, allora, sarà il filosofo che ha un compito ed un dovere pedagogico nei confronti degli altri uomini. Ma questa dedizione sarà ricompensata? Nient’affatto! La sorte dell’uomo di pensiero sarà quella di essere deriso – come lo fu Talete dalla servetta trace – e ancora di più sarà ucciso, come avvenne a Socrate.

Al tempo del coronavirus, in questo Marzo nero, che insegnamento possiamo trarre dal mito della caverna di Platone? La prima riflessione che abbiamo da fare è che l’eventuale isolamento fisico – o riduzione dei rapporti umani ordinari – non ci imprigiona nella nostra interiorità. In essa – scriveva Ernst Jünger – ossia nel «proprio petto: qui […] sta il centro di ogni deserto e rovina. Qui sta la caverna verso cui spingono i demoni. Qui, ognuno di qualsiasi condizione e rango, conduce da solo e in prima persona la sua lotta, e con la sua vittoria il mondo cambia» (E. Jünger – M. Heidegger, Oltre la linea, a cura di F. Volpi, tr. it. di A. la Rocca e F. Volpi, Adelphi, Milano 1989, p.104). La seconda riflessione da fare è che la nostra interiorità ha bisogno di essere liberata, e ciò implica un combattimento spirituale, un riordinamento del nostro essere. La liberazione avviene così attraverso il tentativo di innalzarci dal sensibile, transeunte, secondario all’intelligibile, ossia a ciò che è l’essenza della realtà, della nostra vita, del mondo, ciò che più conta e che veramente è vitale. Dunque saper discerne l’opinione dalla verità. Ed in questo cammino sinceramente tutti possiamo giungere alla parola Bene, o perché no al sintagma Sommo Bene. Naturalmente un tale discorso in tempi di relativismo imperante può risultare ostico o forse incomprensibile, ma, mutatis mutandis, tale è stata la stessa atmosfera culturale dei tempi di Platone. Egli, infatti, non ebbe timore nel proporre contro il relativismo dei suoi tempi una riforma della politica che avesse quale fulcro una riforma della mentalità e quindi della conoscenza, per giungere a principi gnoseologici e morali oggettivi. Fulcro di tutto ciò fu la considerazione che bisogna partire dalla parte più sublime che l’uomo ha, ossia l’anima. Essa non può che essere immortale, in quanto «è il più divino di tutti i beni […] che possiamo considerare come nostro nel senso vero della parola» (Platone, Leggi, 726 a).

Tali principi, allora, saranno esplicitati nel sistema delle Idee ed in particolar modo nell’Idea del Bene, espressa attraverso una misura – diremmo matematica – che implica una proporzione tra passioni ed intelligenza. In altri termini, possiamo dire che per Platone il Bene – che può essere contemplato e conosciuto è misura: «l’anima di ciascuno ha in sé questa potenza d’apprendere ed il suo relativo strumento, e quest’organo come l’occhio che dall’oscurità non si può volgere alla luce se non al tempo stesso volgendo tutto il corpo, quest’organo deve essere volto via insieme all’anima tutta da quello che è il mondo del divenire, fino a che sia capace di resistere e contemplare quello che è l’Essere in sé, e dell’Essere il punto più luminoso: e questo noi diciamo il Bene» (Platone, Repubblica, 518 c). In altri termini, dobbiamo imbarcarci con Platone sulla barca della “seconda navigazione” alla scoperta dei sentieri dello spirito, di tutto quanto non vediamo e non tocchiamo, ma che è essenziale per lo stesso uomo, anzi ne caratterizza le radici, che non sono poste nella terra, ma nel cielo.

Andrà tutto bene? Lo speriamo! Ma fin quando non ci sforziamo di incontrare il vero bene, la semplicistica “salvezza della pelle” non colmerà certamente la sete di assoluto che l’essere umano porta in sé, perché la sua essenza, la sua anima è il baricentro di ogni prospettiva etica e il principio della riforma di ogni ambito della vita personale e sociale.

 

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