Luce della regalità nell’epoca dell’oscurantismo

di Primo Siena

 

Negli anni Sessanta del secolo XXº, sulla rivista Il Ghibellino (n.4, anno IIº, maggio 1963) pubblicata  da Salvator Ruta e Giovanni Allegra a Messina, Attilio Mordini sosteneva che il dramma del mondo moderno consisteva, tra l’altro, d’essere rimasto orfano d’una “élite equestre, élite di Re”; causato tutto questo da un atto di suprema emancipazione razionalista che, negando la regalità suprema di Dio, dalla quale discende la regalità umana dei  Re,  pretende esorcizzare dall’umanità dolente i mali che l’affliggono: l’incertezza esistenziale, il disordine sociale, la povertà spirituale

Con il correr del tempo verso il terzo millennio, il dramma denunciato da Mordini s’è aggravato con lo spegnimento del divino per l’imporsi d’una presunzione d’autosufficienza che vive nell’ambito della modernità d’Occidente essendo penetrata persino nella gerarchia ecclesiastica cattolica romana; come dimostra il fatto che la Chiesa cattolica non festeggia più, nell’ultima domenica d’ottobre la festa di Cristo Re.

La festa era stata istituita l’11 dicembre 1925 con l’enciclica Quas Primas, da Pio XI; il quale intendeva reagire sia agli eccessi del laicismo moderno, che intendeva emanciparsi completamente da Dio, come quelli del cesaropapismo e del clericalismo, “sempre tentati – osservava il Pontefice – di servirsi di Dio a loro vantaggio”.

Pio XI riprendeva così, in tempi moderni, la regalità di Gesù Cristo dai libri dell’Antico Testamento, dove lo stesso Gesù è chiamato “il Principe che deve sorgere da Giacobbe e che dal Padre è costituito Re sopra il Monte Santo di Sion, che riceverà le genti in eredità e avrà in possesso i confini della terra”; perché “Il tuo trono, o Dio, sta per sempre in eterno: scettro di rettitudine è il tuo scettro reale”.

Nei tempi antichi, la regalità dei Re, era il riflesso umano della Regalità suprema di Dio. E bene lo dimostrava, nel secolo XIIIº, il rito della consacrazione del Re di Francia, al quale ungendolo Re, l’autorità ecclesiastica, gli ricordava:

 “Voi divenite partecipe del nostro ministero. Come noi siamo, nell’ambito spirituale, i pastori delle anime; così Voi, per il temporale, dovete essere un verace servo di Dio. Questo potere vi à dato non per dominare, bensì per servire”.

Nella Società medievale non esisteva vera dualità tra Stato e Chiesa, come ha acutamente osservato Attilio Mordini[1] non esistendo a quell’epoca uno Stato com’è inteso nei tempi nostri. Società civile e società ecclesiale convivevano in un’unica componente (un solo gregge, con un solo pastore), con due diverse autorità e due gerarchie: la gerarchia civile e la gerarchia ecclesiastica.

A quel tempo, l’ordinamento civile era riassunto nell’Impero e l’Imperium indicava non una vera e propria società, bensì la virtù del comando esercitata su genti e territorio, cioè l’autorità temporale preposta all’ordine civile. E Roma, essendo sede della suprema autorità ecclesiastica, il Papato, era al tempo stesso la vera capitale, morale e spirituale dell’Impero in quando Urbs caput Imperii.

Mentre tutte le legislazioni dei popoli antichi precristiani, - come osservò a suo tempo Juan Donoso Cortés -  riposavano sul timore degli dei, e la massima manifestazione del potere si esprimeva come una teocrazia dove potere civile e religioso erano uniti nella stessa persona, con l’avvento del Cristianesimo si produce un cambio fondamentale.

I due poteri si separano per manifestarsi in due potestà: la potestà del “pensar corretto” (recte scire) secondo il magistero del Cristo mediante il potere religioso; la potestà del “agire correttamente” (recte agere) mediante l’esercizio della politica conforme al magistero etico-morale religioso del cristianesimo.

Romano Guardini, nel suo saggio su la fine dell’epoca moderna, agli inizi degli anni Cinquanta del secolo XXº, annotava al riguardo che durante il Medio Evo europeo, le due potestà si trovavano reciprocamente in una relazione di concordanze rette da una grande idea unitaria: la gerarchia.

Tra gerarchia civile e gerarchia ecclesiastica si svilupparono tensioni, ammette Romano Guardini, il quale però riconosce che: “La disputa tra il Pontefice e l’Imperatore assume un senso più profondo di quello che appare a prima vista; in essa più che una contesa di potere politico esteriore, si trova l’unità e l’ordine dell’esistenza”.

Allora il Pontefice, quale successore di Pietro e sacerdote supremo della Chiesa di Roma secondo l’ordine di Melkitsedeq, partecipava della stessa dignità regale dell’Imperatore, così come l’Imperatore - essendo rivestito della suprema regalità  dalla quale procedeva ogn’altra autorità civile – era egualmente partecipe della dignità sacerdotale, sia pure di un sacerdozio civile cui era commessa la trasmissione del potere con   l’ordinazione di principi e cavalieri per via carismatica, mediante l’imposizione della mani ed il rito della spada.

Perciò il Papa portava in capo il triregno tenendo nelle mani le chiavi di Pietro; l’Imperatore, nel rito dell’incoronazione, veniva vestito con un mantello azzurro trapunto di stelle che simboleggiava la volta celeste, mentre sosteneva con una mano il pomo imperiale, simbolo delle terra.

L’origine divina del potere (omnis potestas a Deo, dice il magistero paolino), era rammentata costantemente, e non solo ai sudditi per invitarli all’obbedienza civile e politica, ma essa era ricordata specialmente ai regnanti per ammonirli che non potevano piegare la potestà regale di cui erano insigniti ai capricci della loro volontà o, peggio, del loro arbitrio.

La Chiesa – osservava al riguardo, a suo tempo Bertrand De Jouvenel – chiamando i principi “rappresentatati o ministri di Dio” si proponeva di far loro intendere che l’autorità non era un dono gratuito, bensì un mandato ricevuto dall’onnipotenza divina, per cui essi dovevano usarne secondo gli intendimenti e la volontà del Signore Iddio, dal quale l‘avevano   ricevuto[2].

Simile concezione del potere era possibile, allora, solo in virtù della consonanza tra teologia e filosofia: una sintesi in cui la scienza della società si congiungeva alla sapienza della vita dello spirito, la cui solare testimonianza brilla nelle Somme di Agostino e Tommaso e nel simbolismo solenne delle cattedrali gotiche.  Un simbolismo retto dallo stesso pensiero: tutta la struttura dell’esistenza umana deve ispirarsi e procedere dalla regalità trascendente di Dio.

Fu questo il tempo in cui il principio di regalità, sia civile che ecclesiastico, si manifestò nel suo splendore. Uno splendore riflesso nel mito cristiano della figura di Re Artù, il cui simbolismo viene rinverdito, in epoca moderna, da quel grande ricreatore di miti che è stato l’anglosassone John Ronald R. Tolkien con il personaggio di Aragorn nella saga de Il Signore degli anelli.

 In Aragorn, Tolkien personifica la figura paradigmatica di un Re, la cui ignota nobiltà regale non gli è riconosciuta per eredità, per cui egli deve dimostrare d’esserne degno mediante l’azione guerriera e la regalità del comportamento.

Aragorn, infatti viene coronato Re di Arnor e Gondorn nella città murata di Minas Tirith solo dopo aver affrontato vittoriosamente con la spada i pericoli e gli eserciti mostruosi di Sauron, detentore del mortifero Potere Oscuro. In questo simbolismo tolkeniano, affiorava una constatazione: la regalità ereditaria, essendo stata svuotata nei tempi moderni della sua dignità sacrale, può ristabilirsi solo mediante il merito dell’azione e del comportamento coerentemente perseguiti.

Il riscatto della regalità, in questo nostri tempi sconsacrati, dominati dall’edonismo materialista e dal relativismo etico, non è più un obbligo della  sola nobiltà del sangue ( una regalità spesso ignorata o tradita dai suoi legittimi eredi), bensì un compito doveroso al quale  accingersi la stirpe dell’uomo comune, quand’egli sappia percorrere un cammino catartico in costante tensione tra le realtà della vita e le avventure dell’anima, e sappia elevarsi dalla routine quotidiana al gesto dell’atto eroico, perché in questo sta il recupero della regalità umana.

Una regalità che vedo risplendere, esemplarmente, nelle figure carismatiche dello spagnolo Josè Antonio Primo de Rivera e del rumeno Corneliu Codreanu.

Il primo, Josè Antonio, fondatore e Jefe nacional della Falange Spagnola, marchese d’Estella, era sí un nobile, ma d’una nobiltà giovane (la sua famiglia aveva ricevuto il marchesato nel 1877); il quale consacra la sua regalità nell’atto della fucilazione - alla quale era stato condannato in Alicante da un tribunale settario della Spagna repubblicana -  il 20 novembre del 1936, pochi mesi dopo l’inizio della sanguinosa guerra civile.

 Prima d’avviarsi alla morte, all’età di 33 anni, egli aveva scritto nel suo testamento, tra l’altro: “Dio voglia che il mio sangue possa essere l’ultimo versato in lotte civili. Dio voglia che il popolo spagnolo, così ricco di profonde buone qualità, possa trovare nella pace, la Patria, il Pane, la Giustizia [...] Quanto alla mia prossima morte, l’spetto senza iattanza, perché non è mai lieto morire alla mia età, Ma senza protesta. Accettala, o Dio Signor Nostro, per il sacrificio che rappresenta, a parziale riparazione di quanto vi è stato d’egoista e di vano in molta parte delle mia vita. Perdono con tutta l’anima quanti hanno potuto recarmi offesa, senza nessuna eccezione, e chiedo a tutti coloro cui debba la riparazione di qualche torto, grande o piccolo, d’essere perdonato”.

 Generose parole, queste, che dalla politica pur vigorosamente e lealmente combattuta senza risparmio, raggiungono la regale nobiltà della metapolitica, la quale trasfigura l’umanità solare di José Antonio nel momento tragico della fucilazione, cui s’avvia dopo d’essersi confessato e comunicato cristianamente, mantenendo sotto la tuta azzurra del prigioniero lo scapolare della Vergine del Carmelo.

 Dinnanzi al plotone dei fucilieri, composto da otto tra anarchici e miliziani rossi volontari, egli pronuncia con voce alta e chiara l’ultimo suo: Arriba España. In quel momento, senza attendere l’ordine di fuoco, si scatena una fucileria “a capriccio”, ad appena tra metri di distanza dal condannato, come riferirà, poi, un testimone oculare dell’esecuzione.

 Le pallottole colpiscono José Antonio alla gambe, con l’evidente intenzione di umiliarlo e farlo morire lentamente, ma egli cade sulle ginocchia senza un gemito, con gli occhi chiari rivolti al cielo. E quando il capo plotone, prima di inferirgli il colpo di grazia, gli intima rabbiosamente di gridare” Viva la Repubblica”, ripete: Arriba España. Il secondo, Corneliu Codreanu, figlio di un professore di Liceo, è il capo carismatico della Legione dell’Arcangelo Michele, da lui stesso fondata il 24 giugno 1927. In lui la regalità rifulge sia nella vita personale, austera all’inverosimile (praticava strettamente due volte la settimana un digiuno santificante), come nella sua capacità di comando politico e guida spirituale. Il suo movimento ha le caratteristiche di un moderno ordine spirituale (i capi legionari pronunciavano un voto di povertà cui si attenevano fedelmente), assai lontano dal modello del partito politico. Si trattava infatti di un movimento che puntava a rivoluzionare le anime per formare un uomo spiritualmente nuovo.

Codreanu predicava e praticava una etica ascetica e guerriera, che era simultaneamente eroica, dove un nazionalismo costruttivo si congiungeva con lo spirito e la religione cristiano-ortodossa. In tutto questo rifulgeva il carisma di una regalità ecumenica che riprendeva l’idea dell’unione tra i vivi ed i morti in stretta comunità con Dio, supremo Pantocrator: una regalità che s’incorona con il serto eroico del sacrificio estremo, quando viene assassinato con tredici suoi legionari, nel bosco di Tangabesti il 30 novembre del 1938.

 Sono, queste, figure esemplari d’una regalità nuova che vive il senso del sacro in dimensione metapolitica ed unisce due mondi modernamente incomunicanti: il religioso e il politico; due mondi dove la nobiltà regale dell’uomo di fede, cavaliere e legionario, si trova in un rapporto di costante polarità con un realtà in cui prevale quasi sempre il deprezzamento dei valori trascendenti e spirituali che aspirano perennemente all’Unico necessario che è Dio: Rex Regum et Dominus Dominantium.

La luce di questa regalità impulsa tutti noi, oggi, non a rifiutare la modernità, ma ad affrontarla con spirito guerriero per poterla attraversare vittoriosamente nei tempi bui, vincendone la caliginosa oscurità e le aggrovigliate contraddizioni.

 

 


[1] A.Mordini, Il tempio del Cristiamesimo, Dell’Albero Ed. 1963, p. 87

 

[2] B. De Jouvenel, Il potere, Rizzoli Ed. 1947, p.29.

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