Mi pare di vederlo, il generale De Gaulle, a scandire sillaba dopo sillaba...
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- Creato: 18 Maggio 2018
- Scritto da Danilo Fabbroni
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Pare di vederlo, il Generale, a scandire sillaba dopo sillaba “le carneval est finit”, a suggellare l’ordine di spazzar via i moti sessantottini del ‘Maggio Francese’. Nessun dubbio che Charles de Gaulle rimuginasse nella sua testa l’appellativo spregevole – racaille –, indirizzato a quella torma di insorti che pienavano gli onusti boulevard parigini, spuntati fuori, come ratti famelici, dal sottosuolo: non quelli della metropolitana, bensì i ‘sotterranei’, le fogne di un Occidente che voleva cambiare tutto e tutti.
La domanda alla quale la Storia non risponderà mai è se de Gaulle si capacitasse che quel ‘carnevale’ non era affatto una quisquilia, un granellino insignificante di sabbia posto negli ingranaggi della grandeur francese, in cui forte albergava una visione del Nord Africa la cui geopolitica era totalmente contraria ai voleri ‘usraeliti’ nonché dei ‘British Invisibles’, élite delle élites inglesi. Eppure l’avrebbe dovuto cogliere l’impettito Generale (anche quando si accingeva al rito della petite déjeuner, sempre in divisa, austero, sommamente cattolico) il pericolo insito in quei ‘sommovimenti’, se non altro perché aveva quasi pagato con la propria pelle (con l’attentato messo in atto dall’Organisation Armé Sècrete) quella visione del Nord Africa.
Non solo. Potremmo esser quasi certi che non gli sfuggì non tanto la pagliuzza in un occhio nell’indipendenza della sua amatissima nazione, quanto la vera e propria trave che risponde al nome di Jean Monnet.
Monnet plenipotenziario, mondialista ante litteram, fu ‘infilato’ dentro l’éntourage degaulliano a forza dai voleri anglosassoni quale garante dei loro interessi. Non era il solo. Pure Robert Marjolin, sempre nell’alto giro di de Gaulle, era un ‘uomo di fiducia’ – per dirla con Ettore Bernabei – di Lor Signori. Chissà se i genitori italiani che mandano speranzosi i figli alle tante scuole superiori intitolate a Monnet sospettano che proprio a causa di personaggi come lui, precursore di un Nuovo Ordine (leggi: l’economia della carestia per tutti) vedranno tristemente i loro figli a spasso? Chissà mai se ci sarà uno Scalfari a spiegar loro, forbitamente, questo rapporto di causa-effetto…
Ma davvero quei ratti indiavolati – uno su tutti Daniel Cohn-Bendit, israelita, ‘amante’ della pedofilia – provenivano dalla feccia della società (come loro sbandieravano orgogliosi ai quattro venti)? Davvero erano i diseredati della terra?
Non si direbbe. Molte piste, molte tracce – per carità, tutte da verificare e sottoporre alla prova del nove – direbbero l’esatto contrario.
Tanto per darne un filo, esile ma al tempo stessi pregno di significanza, ecco che un “Jean-Claude Meyer […], associato della banca d’affari Rothschild, era uno dei presenziatori ai diciotto tavoli – con dodici convitati a 500 euro a coperto – a sostegno della figura dello scomparso Guy Debord”. La cena si è svolta il 15 giugno del 2009, a quanto riporta Le Monde, da Racine, nella Hall de Globes della Bibliothéque Nationale de France. Divertente leggerne il menu che non vale la pena di tradurre per non perdere il chiarissimo spirito proletario: “tartare de bar de ligne et salade d’herbes et legume croquants, filet de veau rôti au four, girolles poêlées et asparges aux senteurs de thym citron, volupté glacé fraises des bois, orgeat, compote de rhubarde, arrosé entre autres de château Dassault 2001”.
Che dire? Segno che un ‘iniziatore’ della rivolta sessantottina in terra francese, l’archistar della pamphlettistica ‘rivoluzionaria’ dell’epoca, Guy Debord (per altro divenuto ricchissimo nel farsi del ’68), calamitava simpatie ed empatie non da quattro soldi.
Il testo di gran lunga più famoso di Guy Debord, scrittore e cineasta, è stato La società dello spettacolo, per i tipi di Champ Libre (casa editrice di proprietà di Gérard Lebovici, mentore di Debord). Scrisse il libro dal 1966 al 1967 a Parigi al n. 169 della rue Saint-Jacques. Sebbene l’autore si piccasse di un manto di estrema originalità, le tesi propugnate erano dei boli ben rimasticati che prendevano largo spunto dalle opere del sagace Henri Lefebvre, che con la sua Critica della vita quotidiana anticipò non di poco le tematiche ‘situazioniste’. Una volta che quelle linee guida si affermarono, tale autore fu lasciato ai margini ed addirittura sbeffeggiato come retrogrado marxista, con il solito metodo della calunnia. Ma un altro autore fu saccheggiato a fondo da Debord, anche grazie al suo ponderoso lavoro fatto sulla costruzione dell’Immagine nella società, che costituiva un ghiotto materiale per questi indossatori delle idee altrui. L’autore era Daniel J. Boorstin. Nel 1962, infatti, pubblicò The Image: A Guide to Pseudo-events in America, che fu ripreso in larga misura da Debord per intessere il suo testo. Debord, a sessantadue anni, si suiciderà nella casa di campagna nel centro della Francia.
Serge de Beketch, provocatorio giornalista parigino, commentando un’altra morte violenta capitata a questo entourage, ovvero il misterioso assassinio di Gerard Lébovici, il benefattore di Debord, sosteneva che quest’ultimo avesse un conto in una banca sovietica, e che fosse un agente della CIA sotto estrema copertura.
In effetti «tutte queste illazioni che sempre avevano accompagnato l’Internazionale Situazionista e i suoi membri, riguardarono in modo particolare la provenienza del denaro, poiché l’accusa maggiormente sostenuta contro i situazionisti era quella di essere molto ricchi per via ereditaria e di aver ottenuto la ricchezza attraverso l’Internazionale Situazionista; di esser finanziati con oscure risorse e di essere dei banditi. Il fatto che l’Internazionale Situazionista pubblicasse una rivista patinata, confezionata elegantemente ed in modo assai curato, tanto da discostarsi platealmente dagli illeggibili ciclostilati, zeppi di testo e privi di immagini che allora andavano per lo più nell’ambiente della sinistra extraparlamentare e soprattutto che questa fosse venduta ad un prezzo che fin dalla sua nascita era sempre stato di tre franchi, aveva suscitato forti dubbi circa il suo finanziamento, così da far sospettare che un lusso simile non potesse trovare altra giustificazione che la provenienza di finanziamenti dalla Germania dell’Est o da Boris Souvarine (che però pare aver avuto qualche difficoltà per continuare la sua rivista) dalla massoneria, e persino dalla CIA».
È mercoledì 7 marzo del 1984, 3 del mattino. Il vigile del parcheggio dell’avenue Foch a Parigi sta effettuando la sua ronda quando si insospettisce di un’autovettura, una Renault 30 TX, ferma al primo piano inferiore davanti ad una porta taglia-fuoco con tutti i fari accesi. Il conducente è chino sul volante, con delle tracce di sangue sui suoi vestiti. La polizia allertata fa i suoi primi accertamenti. La vittima è stata freddata da quattro pallottole calibro 22 lungo nella nuca, a distanza ravvicinata. Tre bossoli sono sui tappetini della macchina, mentre il quarto è posato sul vetro posteriore: il messaggio è chiaro, il crimine è stato fatto per contratto.
Uomo del mistero, Lébovici è morto come ha vissuto: nel mistero appunto. Chi chiese a Lébovici come avesse fatto ad impadronirsi della potente agenzia di spettacolo sua principale concorrente, appartenuta ad André Bernheim (qualche parentela per puro caso con il ramo della famiglia Bernheim che ebbe anche un presidente delle assicurazioni Generali?), rispose: Mi sono arrangiato.
E qual era dunque l’arte di “arrangiarsi” di questo uomo-ombra Lébovici all’interno del milieu situazionista — benché persona al centro delle luci della ribalta in quanto manager di stelle del cinema internazionale del calibro di Catherine Deneuve o di Jean-Paul Belmondo? Quella di condividere in pieno gli état d’ésprit che si andavano affermando prepotentemente.
La pornofilia senza limiti alcuno, ad esempio. Il sesso era capitale per Lébovici: lo si appellava come “culo” tout court, a detta di Gérard Guégan, un suo diretto conoscente. O l’essere «attirato da tutto quello che è illegale: l’incesto tra fratello e sorella, la droga, l’abuso di alcool […] le fanciulle in minore età, le case di correzione, la prigione». O l’affinità – tutta da spiegare – con i burattinai della cosiddetta cultura francese, quale il potentissimo editore Daniel Filipacchi, patron di un gruppo di stampa capitalista.
Quale rapporto esisteva, semmai ce ne fosse stato uno, con la casa editrice Adelphi (quindi col fior fiore delle Oligarchie Iniziatico-finanziarie nostrane…) in cui Floriana, la moglie di Lébovici, aveva mosso i primi passi nel mondo editoriale? Che dire della cinese di Shangai, Alice Ho, moglie di Debord dal 1970, di cui la madre teneva un ristorante sospettato dai servizi francesi d’essere un riparo per i corrispondenti della Cina comunista? Trecce, orditi e filamenti di una stessa costellazione o solo casualità apparente?
«Lunedì 5 marzo 1984, Gérard Lébovici si trova nel suo ufficio, 11 bis, via Kepler, piano AAA. Alle 13 egli fa colazione al ristorante dell’hotel George V con Serge Siritzky, potente patron della sala. Alla fine del pomeriggio, verso le 5 e mezza, la sua segretaria Régine Cordelier riceve una chiamata telefonica di un uomo che le chiede di parlare con Lebovici. Egli rifiuta di dare la sua identità, precisando che si tratta di un affare personale. Lo stesso richiama tre volte, e alla fine lascia questo messaggio: “Dite a Lébovici che è da parte di Sabrine...”. Gerard Lébovici prende il messaggio […]. Qualche minuto più tardi, egli lascia l’ufficio, e chiama sua moglie per dirle che arriverà in ritardo per la cena. Le chiede di scusarsi con i loro invitati e congeda il suo autista. Lébovici non ama guidare. Sono le 18 e 30. Prende la direzione de La place de l’Etoile al volante della sua Renault 30 TX».
Dieci anni più tardi anche Debord morirà (suicida), con una pallottola di carabina in pieno cuore nella sua casa di Champot.
Qual è stata dunque la causa scatenante dell’esecuzione di Lébovici? Si avanza l’ipotesi nel libro di Jean-Luc Douin che Lébovici fosse un produttore di cassette VHS porno e che il suo operato nel settore cinematografico fosse nient’altro che un modo per lavare il danaro sporco guadagnato nel circuito pornografico. Qualche mese più tardi anche il distributore di film Jacques Navas sarà assassinato.
Poi, uno strano romanzo, firmato a quattro mani da François Caviglioli e Marc Francelet Master per i tipi di Filipacchi, racconta di un produttore ed editore, stratega tortuoso, legato al terrorismo internazionale, il quale dirige una sorta di loggia P2 francese. La vicenda del libro si dipana con impressionanti rassomiglianze con la vita reale di Lébovici, e si conclude con la stessa sorte subita da quest’ultimo, mettendo l’accento su un oscuro traffico di cassette di film di successo. Pudicamente non si accenna che tra i film di più grosso successo ci sono quelli a contenuto hard.
Inoltre apparve un dossier, Lébovici, le piste secret-défense, in cui si afferma,
«che la scomparsa del più potente produttore del cinema francese sia stata legata a quella di un’avventuriera di cui le attività galanti sono crudelmente terminate nel deserto dello Yemen. Il 10 ottobre 1977, Véronique Troy, ventisei anni, è uccisa nello Yemen del Nord con la sua compagna di viaggio, Françoise Scrivano. Conosciute dai servizi di polizia come due mannequin o hostess del quartiere Champs-Elysées, queste due donne erano andate nello Yemen per un preteso servizio di moda. Le hanno ritrovate in una vettura, nude e decapitate. Paris Match rivela che in realtà la Troy lavora per i servizi speciali francesi. Russa d’origine […] figlia di un ufficiale […] che a sua volta era infiltrato nei servizi segreti cinesi […] avrebbe incontrato Lébovici durante gli anni Sessanta».
La scia di sangue continua con il suicidio di Gèrard Voitey, un altro della compagine, nella notte tra il 2 e il 3 dicembre 1994. Jean-Luc Douin si domanda: «[…] perché, venti anni dopo la morte brutale di Gérard Lebovici, tanta gente si rifiuta di parlarne? Di che cosa hanno paura? […] Sanno cose che li spaventa?».
Debord, prima di spararsi, nei suoi Commentari sulla Società dello Spettacolo alludeva ad una rete di maghi del segreto e della comunicazione, «allorché avviene che la transizione dei mass media faccia da copertura tra molte imprese, ufficialmente indipendenti, ma, di fatto, collegate segretamente grazie a varie reti ad hoc».
Cosa voleva dire Debord scrivendo che «la massima ambizione dello spettacolare integrato è pur sempre che gli agenti segreti diventino dei rivoluzionari, e che i rivoluzionari diventino degli agenti segreti»? Cosa sapeva ed ha taciuto? A cosa alludeva quando scrisse: «Da vent’anni a questa parte niente è stato sommerso da tante bugie imposte quanto la storia del maggio 1968. Tuttavia sono state tratte lezioni utili da alcuni studi privi di mistificazioni su quelle giornate e sulle loro origini; ma questo è un segreto di Stato»?
Nello scrivere che «c’è un numero sempre maggiore di luoghi, nelle grandi città come in alcuni spazi riservati in campagna, che sono inaccessibili, ossia sorvegliati e protetti da tutti gli sguardi; che sono tenuti lontano dalla curiosità innocente, e al riparo dello spionaggio» alludeva forse alle safe house che abbiamo visto usare dai servizi per drogare a loro insaputa dei poveri ignari in guisa di cavie umane?
Cosa ne sapeva e come faceva a sapere Debord che «c’è un numero sempre maggiore di uomini formati per agire nel segreto; istruiti ed esercitati a non far altro. Sono distaccamenti speciali di uomini armati di archivi riservati, cioè di osservazioni e analisi segrete. E altri sono armati di varie tecniche per lo sfruttamento e la manipolazione di questi affari segreti»?
Il “palco” della scenografia d’oltralpe, del resto, non sarà avaro negli anni a venire, nel riservarci altri fantasmagorici “spettacoli” della (supposta) sovversione e del terrorismo (sintetico). In particolare giova ricordare che Parigi valeva ben sempre una “messa” nell’universo spettacolare, come solevano dire i Situazionisti stessi.
Di nuovo ad agire, a far da agitatore politico, è una compagine che parrebbe la più lontana da ogni scenario del ‘Teatro delle Ombre’: una scuola di lingue. L’Hypérion, così si chiamava questa scuola, era piazzata proprio dinanzi alla basilica di Notre Dame, ed era stata, del tutto insospettabilmente, il “centro magnetico” che aveva orientato le faglie del sequestro Moro. Nella scuola militava Innocente Salvoni, coniugato ad una signora francese, tale Françoise Tuscher, nipote prediletta dell’Abbé Pierre, religioso notissimo in Francia come altrove, fondatore della comunità di Emmaus. L’Abbé Pierre aveva preso a “buon cuore” l’Hypérion, tanto che quando il Viminale fece pubblicare sui giornali foto di brigatisti sospettati del sequestro Moro, tra cui appunto il Salvoni, l’Abbé si recò a Roma dal ministro dell’Interno per coprire suo genero con un alibi.
Ecco cosa riporta “Hyperion”, un documento anonimo trovato in rete:
«Questa storia parla di un passato recente che ancora oggi si fatica a raccontare nella sua sconosciuta interezza (sconosciuta per noi comuni mortali); questo anche grazie alla complicità dell’industria dell’informazione che da sempre si diletta a gestire il teatrino delle pseudo-verità occultando, per motivi più o meno leciti, la complessità di certi fenomeni storici in cui i contorni dei personaggi sono chiari ma al tempo stesso enigmatici e sfuggenti, dove le comparse, spesso scambiate per protagonisti (e viceversa), sembrano guidate da un’immortale regia che cambia volto ma non scopo: l’uso del terrore […]».
Tipico di queste situazioni era vedere tali personaggi vivere di niente. Guy Debord, esempio lampante di ciò, rispose ad una precisa domanda sul tema postagli da un amico di Henri Lefebvre (“Da dove trovi da vivere?”) dicendo che lui “traeva da vivere dal suo spirito, dal suo humour”! Condurre la famosa bella vita, senza un vero e proprio lavoro retribuito, questo era l’arcano. I soldi comunque si trovavano, per così dire, con “spontaneità”. Accadde difatti che un imprenditore avesse sottoscritto una fidejussione a favore della scuola di ben venti milioni di allora. Così, di punto in bianco. O quasi. Il quasi, il discrimine, stava nel piccolo particolare che suo fratello era stato rapito dalla ‘ndrangheta calabrese, e il “caso” ha voluto che lui trasferisse questi soldi all’Hypérion.
La vita poi, in generale, era facile. Se uno espatria per lavoro, specie in tempi quando Schengen era di là da venire, avere i documenti in regola per vivere stabilmente in un Paese straniero non era una bazzecola. Facile lo diventava se si poteva usufruire di permessi di soggiorno redatti dall’ambasciatore italiano presso l’OCSE, l’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico. Cosa c’entravano dei sovvertitori/terroristi con l’OCSE? Cosa c’entravano i medesimi con il CRISE (Centro di ricerche socioeconomiche), esperto in ricerche sugli Stati imperialisti, il quale godeva di sovvenzioni dal Governo francese? Nel CRISE albergava anche Félix Guattari, filosofo autore del famoso testo Anti-Edipo nonché amico di Toni Negri.
Gran Burattinaio dell’Hypérion era Corrado Simioni, che aveva debuttato in politica come socialista e poi espulso dal Partito per ragioni “morali” di cui non si è mai saputo la vera natura. Approdò nelle accoglienti braccia dell’USIS, lo United States Information Service. Infatti, «la modernizzazione della repressione ha finito col mettere a punto, in primo luogo con l’esperienza pilota dell’Italia e sotto il nome pentiti, degli accusatori professionisti giurati», come ebbe a dire Debord.
Ma in che cosa consisteva dunque questo ‘esperimento pilota’ montato ad arte in Italia?
Potremmo allora seguire le tracce di Ronald Stark nel suo turbolento passaggio in nel nostro Paese – fatto di intrecci in svariati ambienti quanto inaspettati ed insospettabili – per capire quale genere di esperimento si stesse tracciando da noi. Curioso, se si vuole, il fatto che ci imbatteremo di nuovo, come nel caso di Lebovici, in un’agenzia giornalistica quale copertura per attività dei servizi, a conferma – se mai ce ne fosse bisogno – che scrittori, giornalisti ed editorialisti possono essere figure di primo piano nel tourbillon della mistificazione.
Tant’è vero che la già citata Organisation Armé Sècrete, braccio armato dei Poteri delle Oligarchie Iniziatico-finanziarie dell’ESTREMO Occidente, una volta sgominata si rialzò, araba fenice, concretizzandosi nell’Aginter Press, appunto agenzia di stampa fungente da copertura per il Piano NATO/Stay Behind di cui, purtroppo, conosciamo a menadito sulla nostra pelle di italiani l’annichilente azione negli immondi fatti degli anni di ‘Piombo di Destra’ (ma in realtà in un infinito gioco di rimandi con lo schieramento del terrorismo di Sinistra come dimostrato estesamente da Paolo Cucchiarelli).
Da ultimo, la dottrina Mitterand, che ha auspicato e permesso il buen ritiro in quel di Parigi di figure di spicco del terrorismo nostrano, è una chiara affermazione del ruolo giocato dagli eredi diretti del ‘Maggio francese’ a copertura di quella autentica svolta geopolitica che ha virato d’émblée la Francia, da Nazione certamente non pro-Israele a Nazione pro-Israele tout court.
Guarda caso quello che è successo pari pari da noi. L’affare Moro ha tacitato da noi una grandissima figura di politico, cattolico, pro-famiglia, pro-edilizia popolare ma soprattutto non pro-Israele. Sarà un caso, un altro della lunga serie, che plurime testimonianze inconfutabili stabiliscono Israele come la Mecca ambitissima e la Patria di ogni orgoglio stile Gay Pride?
In Germania lo stesso, identico, spettacolo, stessi attori, stessi registi con l’eliminazione di Alfred Herrausen – eminentissimo banchiere tedesco, presidente di Deutsche Bank, oppositore aperto delle cricche finanziarie, pro-sviluppo, anti-globalista, pro-Patria, avverso al Fondo Monetario Internazionale, cattolico, ‘kennediano’, fautore della mano tesa verso la Russia – per mano degli utili idioti della Rote Armee Fraktion, anni di Piombo in salsa crauta.
Finito de Gaulle, finito Moro, finito Herrausen, il ‘Maggio’ e tutto il coté sessantottino europeo – compreso la sua coda virulenta, gli anni di Piombo – si è sciolto come neve al sole.
Forse la sceneggiatura era arrivata alla sua pagina conclusiva?
Forse gli obiettivi della sceneggiatura erano stati raggiunti?
Oggi ne leggiamo, in questo sito, quando illustra cosa accade nella Francia coeva, un ennesimo, tragico, capitolo, ma le coordinate operative rimangono immutate da allora
Per spezzare l’avvento del tempo dei Giaguari e delle Aquile – la terribile ferocia atzeca – quel terribile miscuglio di sensualità e crudeltà, come ebbe a dire Nietzsche, questo Theatrum Diabolorum che coagulò sincreticamente – grazie a mani sapienti – nel Sessantotto e da lì impestò destra e manca, sotto e sopra… beh, si deve partire a comprendere l’Oggi attraverso la disincantata lettura dei prismi deformanti di quella magia esoterica-eversiva che risponde al nome di ’68.
Se l’ha capito un fan del rock’n’roll come Gary Herman, non dovremmo capirlo noi?
1) Osmar Wisyam, Con le peggiori intenzioni…, “Il Covile”, n. 657, p. 3.
2) È morto Guy Debord, Fabio Gambaro, “la Repubblica”, 3 dicembre 1994, p. 37.
3) Omar Wisyam Con le peggiori intenzioni…,, “Il Covile”, n. 657, Anno XI, 14 settembre 2011, p. 2.
5) Gianfranco Marelli, L’amara vittoria del situazionismo, BFS Editore, p. 326.
6) Jean-Luc Douin, Les jours obscurs de Gérard Lebovici, Stock, p. 9.
7) Ibid., p. 53.
8) Ibid., p. 110.
9) Ibid., p.193.
10) Ibid., p. 223.
11) Ivi.
12) Ibid., pp. 257, 258.
13) Ibid., p. 262.
16) Ibid., pp. 283,284, 288.
17) Ibid., p. 337.
18) Guy Debord, Commentari sulla Società dello Spettacolo, Sugarco, p. 19.
19) Ibid., p. 21.
20) Ibid., p. 51.
21) Ibid., p. 52.
23) Marco Nozza, Il pistarolo, Il saggiatore, pp. 148, 149.
25) Henri Lefebvre on the Situationist International. Printed in October 79, Winter 1997, in http://www.notebored.org/lefebvre-interview.html, 18 novembre 2012.
26) Ibid., pp. 150, 152.
27) Guy Debord, Commentari sulla società dello Spettacolo, Sugarco, p. 29.
30) Norman O. Brown, La vita contro la morte, Il Saggiatore, p. 260.