“A Barunissa di Carini” fra storia e leggenda - di Maria Nivea Zagarella

Fra le “storie” in versi della tradizione popolare siciliana una delle più famose, e intramontabile gioiello da rileggere, è quella della Barunissa di Carini che ha ispirato anche due sceneggiati televisivi (1975; 2007) e varie ballate di compositori contemporanei, fra cui Otello Profazio. Il poemetto fu dato alle stampe nel 1870 dal folclorista Salvatore Salomone Marino che affermava di averlo ascoltato dalla voce di un cantastorie contadino di Carini, Giuseppe Gargagliano, del quale chi lo ha conosciuto dice avesse una memoria prodigiosa. Nel 1873 Salomone Marino ne fece un’altra edizione, accresciuta nel numero dei versi, e nel 1913 un’altra ancora, che a parere di taluni avrebbe “guastato” quelle del 1870/1873, utilizzando altre “varianti” della storia. Il fatto è che lo studioso aveva raccolto quasi 400 versioni popolari della stessa “storia” (pubblicate da Aurelio Rigoli nel 1963) e il ”suo” poemetto non è perciò -come dimostrato anche da Alberto Varvaro nel libro relativamente recente Adulteri, delitti e filologia (2010)- un testo del ‘500 (G. A. Cesareo aveva addirittura ipotizzato la paternità di Antonio Veneziano), e neanche, come sosteneva lo stesso Salomone Marino, una “ricostruzione scientifica” del presunto originale contemporaneo al fatto di cronaca narrato, quanto invece una “sua” -ritengono oggi gli studiosi- ricucitura arbitraria di diversi testi orali, funzionale a una omogeneità e completezza di racconto. Afferma tuttavia Federico De Maria che il testo pubblicato nel 1870 rispecchia fedelmente i brani di trascrizioni più antiche della “storia” tramandate dal marchese di Villabianca fin dal 1780, e quella fatta fare, forse agli inizi del ‘700, da un antenato del principe di Carini, discendente della famiglia La Grua direttamente coinvolta nel fatto di sangue trasmesso dalla tradizione orale nel corso di tre secoli. Anche sull’assassinio della Baronessa gli storici hanno fatto chiarezza. La notte del 4 dicembre 1563 don Cesare Lanza, barone di Trabìa, uccise la figlia Laura e il suo amante Ludovico Vernagallo, cugino di rango inferiore del marito di lei, il barone Vincenzo La Grua, che la giovane era stata costretta a sposare quando lei aveva 14 anni e il futuro marito 16. Un delitto d’onore dunque che riscattava il nome delle due famiglie, casate potenti che imposero il silenzio ai diaristi dell’epoca. Ma oggi si sa che il padre e il marito erano a conoscenza da tempo dell’adulterio e fingevano di non saperlo. Il duplice delitto premeditato maturò perché, avendo don Cesare dei debiti con il Vernagallo, per estinguerli definitivamente, ritenne conveniente per sé ucciderlo usando l’adulterio della figlia come copertura delle vere ragioni dell’assassinio.

La versione poetica più vulgata e più lunga della vicenda dietro la quale, se si confrontano  diverse edizioni di vari studiosi, si indovina un testo base su cui nei secoli la “voce”, il gusto, la memoria dei singoli cantastorie hanno depositato modifiche anche qualitativamente ineguali (sostituzioni e spostamenti di parole, di versi, di strofe, o tagli e aggiunte), ruota sulla bellezza della Baronessa, sulla passione dei due “giovani” (ma Laura quando venne uccisa aveva 34 anni e vari figli), sul tormento d’amore e il rimorso di Vernagallo che si farà frate, e sul rimorso del padre. I versi, al di là del loro autore/autori, hanno vaghezza immaginativa e musicale, soprattutto dove sono di scena la bella Baronessa (la megghiu stidda chi rideva in celu…la megghiu stidda di li sarafini) e la passione/tragedia d’amore giocate prevalentemente su immagini della natura. Ma non mancano di forza drammatica nella rappresentazione del delitto, nella espressione del dolore per la morte della donna (Oh, Diu! Ca mancu l’ummira nni resta…del gran curuzzu chi cchiù nun t’arrisetta, degli ucchiuzzi, e della vuccuzza biniditta) e del rimorso, nella richiesta di vendetta (Ma c’è lu sangu chi grida vinnitta/ Russu a lu muru, e vinnitta nn’aspetta), data l’intensa partecipazione del cantore ai fatti narrati (Haju la menti mia tantu cunfusa, lu cori abbunna, la menti stravasa), cantore che non si esime qua e là, come era normale nella recitazione al popolo, di moraleggiare. Al compianto sono chiamati ciumi muntagni arvuli, suli e luna ai quali la stessa bella Barunissa apprestava li raj nnamurati, gli acidduzzi (uccelletti) di l’aria che inutilmente cercano ora la loro gioia, e le varcuzzi (barchette) che dovrebbero accostarsi alla riva alzando viliddi alluttati (vele a lutto). In una variante suggestiva del testo si legge l’ampliamento che la povira barunissa di Carini/ quannu affacciava pareva la luna/ chi spicchiava (luccicava) marini marini, una Signora che beneficava chi ricorreva a lei (arriparava ogni mala sfurtuna) ed era amata da li so genti, ma ormai (si noti la crudezza di parole e immagini) è spaccatu ddu filici cori e sono sangu la turri e l’atari (gli altari). Il dolore del poeta è così nero che per dipingerlo avrebbe bisogno della sapienza di re Salomone e si paragona a una varcuzza che resta fora portu, senza timuni ‘mmenzu la timpesta,/ la vila rutta e lu pilotu mortu. I versi tramandati, chiunque -ripeto- ne sia l’autore/autori, riescono a comunicare in generale lo smarrimento, il senso di vuoto e quasi spoliazione di ogni bellezza del mondo per l’enormità e l’ingiustizia del delitto commesso. Vengono infatti ricostruiti con trasporto il corteggiamento del Vernagallo, beddu Cavaleri, che girava sotto il Castello dall’alba all’imbrunire, come girìa l’apuzza di l’aprili/ ‘ntunnu a li ciuri a surbiri lu meli, e ora appariva per la piana su un cavallo baio che “volava senza ali”, ora in chiesa “sfavillava” con gli occhi innamorati, ora di notte cantava nel giardino suonando il mandolino; e le resistenze iniziali della Baronessa, gigghiu finu/ chi l’uduri spanni/ ammugghiateddu (avvolto) a li so stissi frunni, che vorrebbe evitare (scansari) gli affanni d’amore, ma dentro -e si veda la densità dei termini e dei suoni- arde di putenti ciammi (fiamme), va strasinnata e tutta si cunfunni, e sempri lu senziu cci smacedda (si strugge). In un’altra versione è invece di scena anche Lui, l’amante (con un effetto però di esteriorizzazione e banalizzazione del dramma intimo), il quale viene recriminando: M’hai misu ‘ntra sti ciammi/ e di darimi aiutu ti cunfunni?/ Di quantu strata haiu fattu, li me’ gammi/ su’ stracchi, e li balati su’ cchiù funni (consumate). Segue l’evoluzione del reciproco amore, che da ciuriddu (piccolo fiore) nato con gli altri fiori, a marzo comincia a uscire dal boccio (spampinava di marzu a pocu a pocu), se ne inebriano dell’odore aprile e maggio, e “prende fuoco“ a giugno, un gran focu, che a du’ cori duna vita,/ li tira appressu comu calamita. Il crescendo di gioioso pathos culmina nel verso a un tempo di augurio e felice constatazione: gudirila (goderla) a lu culmu di la rota la vita/felicità (condizione anticipata nell’altra versione prima citata dall’esclamazione: Chi vita duci, ca nudda la vinci), al punto che anche il sole passando nel cielo ‘mpinci (sosta) e i suoi raggi fanno ruota agli amanti (in una variante a fare ruota sono le stelle), na catinedda li curuzzi strinci (i diminutivi aggiungono tenerezza!), e battinu tutti dui supra na nota, l’amore cioè li regge. La felicità sta tingendo per loro tutto di oro e di rosa, ma il cantore ammonisce disincantato. L’oro -dice- suscita l’invidia di cento, la rosa è bella e fresca solo per poco: l’oru a stu munnu è na scuma (spuma) di mari,/ sicca la rosa e spampinata mori. Un monaco infatti, bollato come cani tradituri, va a raccontare al barone della relazione e quello, afferrati spada e elmo, con i suoi fedeli cavalca da Palermo a Carini. Nelle strofe risaltano sia la contrapposizione fra il monaco/cani che va via malignamente “ridendo” e il barone che resta solo a “sdilliniari” (delirare di rabbia), sia la notazione naturalistica (assente però in qualche versione) che, avvenuta la delazione, la luna s’ammugghiau di nuvuli e lu jacobu onomatopeicamemte cucculau e sbulazzau sinistramente. Seguono la bellissima descrizione di un “fragile” albeggiare sul mare e su Ustica (‘Ncarnatedda [rosata] calava la chiarìa/ supra la schina d’Ustica e lu mari) e l’altrettanto splendida similitudine della rondinella e dello sparviero prefigurazione dell’assassinio. La rondinella vola e ciuciulia per salutare il sole ma uno sparviero, che l’ugnidda si voli -ferocemente- pillicari, le rumpi la via e quella a stento salvatasi a lu so nidu s’agnunìa e non pensa più a lu filici cantu. Simile il terrore della baronessa, che affacciata per diletto al suo balcone e immersa nei pensieri d’amore, termini ’stremu di li so’ disii (in una variante si era affacciata per guardare l’amante che andava via), vede arrivare la cavalcata. Terribile è il distico successivo (Signuri patri, chi vinistu a fari?/ Signura figghia, vi vegnu a ‘mmazzari) che vede precipitare la situazione. Il padre nega alla figlia il confessore (in una versione con “l’improbabile” scusa del ritorno a Palermo perché li cumpagni ‘un sentinu dimuri) e le “cassa“ il cuore con la spada (in una variante, con il coltello che cci sminnau lu cori e li vini), e l’anafora e il parallelismo siglano con il feroce martellamento l’uccisione: Lu primi corpu la donna cadìu,/ l’appressu corpu la donna murìu;/ lu primu corpu l’happi ntra li rini,/ l’appressu cci spaccau curuzzu e vini!  E il termine spaccau risulta più tragicamente violento e crudo di sminnau! Una variante piange la donna morta com’un gigghiu a lu giardinu. Drammatica anche la strofe della corsa vana della Baronessa che di sala in sala si vulìa sarvari gridando invano aiuto ai Carinisi (Ajutu, ajutu, mi voli scannari). Dopo l’invito del poeta a li pirsuneddi boni (una variante: paisaneddi boni) ad accorrere con una tovaglietta per asciugare alla morta la facciuzza (una variante: la vuccuzza) azzola, cioè violacea, e la descrizione delle reazioni della gente di Carini (il ronzio/chiacchierio che corre il paese come un lapuni ammiscatu di rucculi e di chianti), e della disperazione/compianto funebre delle sorelle e soprattutto della madre nel palazzo di Palermo (la so matruzza di l’occhi annurvau), compianto in alcune versioni più amplificato e enfatizzato popolarescamente (‘ntra na nuttata so’ figghia spirìu/ idda -quasi pugnalata al cuore- ‘ntra na nuttata abbianchiau…. o soru mia ch’eravu brunna e bedda/ eravu carni ed ora siti terra!...), c’è un’altra vibrante, e certamente più suggestiva sul piano poetico, nota naturalistica sui garofani che seccano nei vasi, le finestre che restano solitarie, il gallo che non canta più: va sbattennu l’aluzzi e si nni fuj.

Il silenzio del balcone e le finestre chiuse ossessionano pure l’amante (Ci vinni lu silenziu e la scurìa,/ com’un marusu va lu cori a mia), al quale prima la madre, e poi la Morte (che senz’occhi e bucca parrava e vidia) diranno che “la bella” che cerca è suttirrata, e la Morte insisterà, nel dialogo con lui ostinatamente incredulo, sull’orrore macabro del cadavere della baronessa, giustapponendo al tema d’amore un elemento didattico di sapore a un tempo medievale-jacoponico e manieristico-barocco: la donna di li vermi arrusicata, mangiata dai topi negli ucchiuzzi niuri, nelle nichi mani, nella bella gola dove luceva la bella cinnaca (collana); e in una variante la Morte aggiunge che è anche nidu di surci la capiddatura che prima si ornava di ciuri e di perli, e che quella è stata murata cu la quacina (calce) frisca, ed è avvolta in una veste bianca e calzata di scarpuzzi bianchi, quasi a marcarne ulteriormente l’immobile gelo distante, mentre l’amante viene teneramente chiedendo al sagrestano di non lasciarle la lampada spenta perché si scantava di dormiri sula e di metterle na balata marmurina con quattro ancileddi che reggono una corona e pregano piangendo. E poiché ancora l’amore/dolore lo arde (Comu la frasca a li venti purtata…), il Cavaliere -e qui tinte e timbri quanto alla cavalcata sul Serpi diabolico per la scura via, tra veglia e sonno, sembrano più preromantici e romantici che di fine Cinquecento- prega il diavolo di portarlo all’inferno per parlare all’amata, che gli rimprovera il peccato che hanno commesso (chisti su’ peni chi patu pri tia), ma Lui continua a dichiararle appassionato il suo amore, e con esiti diseguali fra le varie versioni, quanto alle quali è da notare che la discesa all’inferno è narrata ora in prima persona ora in terza, e la rinnovata professione d’amore suona ora più intima (Ed eu rispusi: Si ‘un t’avissi amatu,/ mortu nun fora lu munnu pri mia) e con qualche cascame letterario quale il nome stampato nel petto (Apri stu pettu e ci trovi stampatu lu bellu nomu…); ora più teatralizzata e convenzionale: Mancu ccà ti lassu sula,/ cu’ tia mi dannu ntra l’eternu scuru/ e mi cunnannu a li to stissi peni,/ ma vicinu pri sempri a lu me’ beni; ora atteggiata più popolarescamente e con collocazione invero poco congrua, cioè dopo la monacazione di lui: Ucchiuzzi beddi chi nun mi lassati,/ ch’ogni nuttata ‘nsonnu accumpariti,/ pri quantu vi nni detti di vasati/ vui lu me’ amuri ancora lu viditi. Contro il pericolo della dannazione palesato dal sogno/visione della discesa all’inferno interviene il poeta, riflettendo che li guai sunnu assai/ e lu tempu è curtu,/ Chi cci addimuri? votati cu Cristu. Così Vernagallo per espiazione e penitenza si farà frate (L’haju vistu cu na tonaca ‘nfilici/ ca scippa l’arma li cosi chi dici) e penserà addirittura, per rendere più dura l’autopunizione, di isolarsi nel deserto, sperando il perdono del Cielo. Il tono moraleggiante di questa parte conclusiva, alquanto estraneo rispetto a quello lirico-sentimentale che sembra caratterizzare e segnalare, appunto nel contrasto tonale, il “nucleo” genuino originario dell’ispirazione del poemetto, torna, e dentro una temperie più cupa, nell’episodio finale del rimorso del padre, il cui sogno e lamenti- scrive F. De Maria- mancano quasi per intero nella trascrizione conservata dal principe di Carini, donde è ipotizzabile che siano posteriori al testo primitivo, come -per alcuni- pure il viaggio all’inferno dell’amante. Il padre, turcu spiatatu, con sullo sfondo della vicenda ormai il castello maledetto, da tutti sfuggito e abitato dagli spiriti, invano invoca la terra di inghiottirlo: fulmini chi m’avvampa e chi m’atterra!/ Scippatimi stu cori di lu pettu/ cutiddata di notti ‘ntra lu lettu. Incapace di dormire perché il suo letto si è fatto di spini e di chiova, va vagabondando con gli occhi scasati per vie morte perseguitato dalle ali agghilati (ghiacciate) della notte, da una voce interiore che va dicennu: turmentu turmentu!, e dai balletti e scaccani (sghignazzate) di spiriti diabolici. Vinto infine dalla stanchezza e da un sonno popolato di fantasmi comu la negghia chi la negghia aggiungi, tornerà il barone, dopo la riflessione del poeta sulla precarietà delle umane smanii ardenti/ d’amuri e pompi e cumanni putenti e sul girare della fortuna, attraverso un “sogno” di duluri (variante: di tirruri) al Castello, e sarà ora Lui, il padre, con singolare capovolgimento, a cercare di stanza in stanza la figlia viva, ma gli risponderà solo l’eco, che pare dire tuttu finìu. E quando una strega gialla e vecchia gli indicherà la stanza, dicendogli anche, in una espressiva variante: Curri… cerca lu so lettu/  è dda cu ’n ciuri russu ‘ntra lu pettu, il padre messa la mano sotto la coltre la ritirerà insanguinata, l’occhi scasati e tuttu si cunfunni, perché è sangu fumanti chi la vencia (vendetta) grida. Una delle più efficaci chiuse proposte dagli studiosi, che hanno “ricostruito” il poemetto, riflette sull’ira che rende schiava la nostra ragiuni, mettendoci sugli occhi na manta di sangu, e sentenzia con severità sulla inevitabile punizione divina che raggiunge sempre quelli che fanno il male (qui il Barone e i suoi discendenti) e che non tengono conto della “mano di Dio”. Il poeta invece la invoca con ardore: Cala, manu di Diu, ca tantu pisi,/ cala manu di Diu, fatti palisi!

 Concludendo, e prendendo come punto di riferimento le coincidenze testuali più vistose e/o stilisticamente più efficaci delle varie versioni e seguendo per così dire “lo svolgimento” più snello e stringato della “storia” che resta il più convincente sul piano estetico (percorso che qui non si è potuto fare in tutti i dettagli), sembra assai probabile una originaria matrice “colta” del pur sfuggente componimento originale, sul quale nel corso dei secoli, passando di “bocca in bocca”, sono venuti depositandosi e giustapponendosi residui di “fattura” e qualità le più diverse, dislocandolo verso una dimensione/direzione di fruizione/elaborazione più popolareggiante e popolare. 

 

 

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