“Ahi serva Italia, di dolore ostello” (Canto VI, Purgatorio) – Analisi e commento di Giovanni Teresi

 

 

 

Veramente a così alto sospetto                             (Canto VI, Purgatorio)

non ti fermar, se quella nol ti dice

che lume fia tra 'l vero e lo 'ntelletto.                

  Non so se 'ntendi: io dico di Beatrice;

tu la vedrai di sopra, in su la vetta

di questo monte, ridere e felice».                           48

  E io: «Segnore, andiamo a maggior fretta,

ché già non m'affatico come dianzi,

e vedi omai che 'l poggio l'ombra getta».

Non appena Dante riesce a liberarsi dalle anime che lo pressano, si rivolge a Virgilio e gli ricorda come in alcuni suoi versi egli nega alla preghiera il potere di piegare un decreto divino.

Virgilio esorta Dante a non tenersi il dubbio e ad attendere più profonde spiegazioni da parte di Beatrice, che illuminerà la sua mente e lo aspetta sorridente sulla cima del monte. A questo punto Dante invita il maestro ad affrettare il passo, essendo molto meno stanco di prima e osservando che il monte proietta già la sua ombra (è pomeriggio). Virgilio dice che procederanno sino alla fine del giorno, quanto più potranno, ma le cose stanno diversamente da come lui pensa. Prima  di arrivare in cima, infatti, Dante vedrà il sole tramontare e poi risorgere.

 

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello,                           (Canto VI, Purgatorio)

nave sanza nocchiere in gran tempesta,

non donna di provincie, ma bordello!                        78

  Quell'anima gentil fu così presta,

sol per lo dolce suon de la sua terra,

di fare al cittadin suo quivi festa;                              81

  e ora in te non stanno sanza guerra

li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode

di quei ch'un muro e una fossa serra.                       84

  Cerca, misera, intorno da le prode

le tue marine, e poi ti guarda in seno,

s'alcuna parte in te di pace gode.                             87                     

  Che val perché ti racconciasse il freno

Justiniano, se la sella è vòta?

Sanz'esso fora la vergogna meno.                            90

  Ahi gente che dovresti esser devota,

e lasciar seder Cesare in la sella,

se bene intendi ciò che Dio ti nota,                          93

  guarda come esta fiera è fatta fella

per non esser corretta da li sproni,

poi che ponesti mano a la predella. 

 

 

 

Dante paragona l’Italia a un luogo di dolore, a una nave senza guida in mezzo a una tempesta («Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di provincie, ma bordello!», vv. 76-78)

 

La drammatica situazione dell’Italia fa persino ipotizzare a Dante che Dio abbia distolto il suo sguardo dalla penisola e che tutto ciò, alla fine, rientri in un disegno divino incomprensibile alle capacità umane («E se licito m’è, o sommo Giove / che fosti in terra per noi crucifisso / son li giusti occhi tuoi rivolti altrove? O è preparazion che ne l’abisso / del tuo consiglio fai per alcun bene / in tutto de l’accorger nostro scisso?», vv. 118-123).

 

A cosa è servito, si chiede Dante, che l’imperatore Giustiniano (imperatore dal 527 al 565) abbia creato il Corpus Iuris Civilis – raccolta di tutte le leggi esistenti fino a quel momento – se poi nell’Impero non c’è nessuno che le faccia rispettare? L’accusa di Dante si rivolge alla Chiesa, che ostacola il potere imperiale con le sue continue ingerenze («Ahi gente che dovresti esser devota, / e lasciar seder Cesare in sella, / se bene intendi ciò che Dio ti nota», vv. 91-93), e all’imperatore Alberto d’Asburgo, che ha rinunciato al potere sulle regioni italiane, in lotta fra loro.

Dante conclude l’invettiva in modo sarcastico, appellandosi a Firenze e ai suoi cittadini, che sono spesso pronti ad assumere cariche pubbliche, senza alcun senso della giustizia ma solamente spinti dall’ambizione e dalla cupidigia.

All’epoca i disaccordi erano tra filopapali e filoimperiali (Guelfi e Ghibellini); nei versi sopra riportati, Dante definisce l’Italia “serva”, ovvero “schiava dei tiranni”, lasciata in balìa dei signori locali, che approfittavano della caoticità del momento per trarne ricchezza e potere; “luogo/sede di dolore”, e “nave senza nocchiere”, ovvero senza pilota che la guidi, in una tempesta. Non è più un’Italia signora dei popoli, ma donna di postribolo, pronta a offrirsi a chiunque la corrompa.

L’accusa è pesante; la situazione lamentata è di instabilità, dubbio, conflitto e malessere. La sofferenza è causata dalle continue battaglie, senza che si giunga a un accordo che possa pacificare la situazione. L’Italia che Dante accusa viveva in una condizione di incertezza, data dall’assenza di un potere stabile, e aggravata dai veri e propri scontri bellici tra le fazioni.

Sembra incredibile, a volte, quanto possano risultare attuali questi versi di ante scritti secoli fa.

 

 

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