Anna Maria Bonfiglio, “Liturgia dei giorni” – di Guglielmo Peralta

Nel prendere in mano il libro di Anna Maria Bonfiglio “Liturgia dei giorni”, non ci si può non soffermare sulla “Ragazza che legge” del Perugini raffigurata ben due volte: in prima e in quarta di   copertina. Il dipinto è un ‘omaggio’ alla lettura elevata a bene supremo dall’atteggiamento pensoso della donna, dagli occhi socchiusi e distanti dal libro aperto sulle gambe, che cedono all’intimità dello sguardo e lasciano intuire un momento di intensa riflessione, nonché un piacere spirituale  generato dai sogni tradotti in scrittura, trasferiti in quelle pagine probabilmente poetiche. È una copertina che ‘scopre’, che rivela l’amore della Bonfiglio per la lettura, nato in giovanissima età, come ella ha dichiarato in occasione della presentazione della sua silloge poetica. È probabile, allora, che il dipinto sia stato scelto da lei, anche non intenzionalmente, forse inconsciamente. Esso si confà al titolo e alla raccolta, ‘figlia’ dei giorni della senilità, che si ripetono uguali, senza più il trepido slancio dei sentimenti e gli entusiasmi della prima giovinezza, senza le attese, le illusioni e le promesse del futuro, nel ricordo costante del tempo perduto e ritrovato in “frammenti sparuti /di vita minima” in cui ella “stenta” a ritrovarsi perché le restituiscono solo un’immagine sbiadita di sé, di quel tempo migliore: giorni, tuttavia, resi leggeri e più sopportabili grazie alla lettura, da cui è scaturita, palesandosi, la passione per la poesia e la scrittura divenuta nel tempo più intensa, rivelatrice della ricchezza interiore e ora sempre più necessaria per spezzare, interrompere la liturgia del vivere quotidiano nella solitudine e nella monotonia delle ore striscianti come “un lungo serpente / che non incanta”, nelle quali si è consumata la favola bella della vita, divenuta un “viaggio” solo di andate, di Spartenze, titolo, questo, della prima sezione della silloge e che è un termine derivato dal siciliano spàrtiri, che, se omettiamo la «s», non lascia dubbi sui significati, legati alla dipartita dei familiari, delle persone care; alle lacerazioni provocate dai colpi mortali che la vita non risparmia a nessuno; alla ‘perdita’ di sé stessi per l’incapacità di guardarsi ‘dentro’ per ‘esserci’, per non perdere la gioia di vivere lasciandosi possedere dal dolore, dalla noia, dal vuoto; al distacco emotivo, che rende nostalgici - per dirla con Cioran - di  «qualcosa che non esiste nella vita e nemmeno nella morte, un desiderio che su questa terra niente appaga, fuorché, in certi momenti, la musica, quando evoca le lacerazioni di un altro mondo», o fuorché la poesia, nel caso della Bonfiglio, quando essa innalza l’anima alle altezze della profondità, ovvero, del mondo interiore, dove «habitat veritas» ed è solo possibile ritrovarsi, essere tutt’anima e desiderare di “poter chiudere il senno / in un’urna” e involarsi “leggera al soffio” dell’eternità senza più il peso del “tempo sulle spalle” e la voglia esigua di “guardare avanti / per essere felici”. A questo anelito alla vita piena fa da contraltare l’atteggiamento ‘anfibio’ della nostra poetessa, che, se da un lato sembra rassegnarsi alla propria condizione esistenziale lasciandosi dominare dal dolore - “Io che non ho più rose a benedire / a macerare metterò le spine” - dall’altro lato mostra di accettare gli ‘scorni’ della vita trovando nella poesia lo slancio proattivo, la volontà e la determinazione nel portare avanti la propria vita senza ristagnare nella sofferenza quotidiana, elaborando il ‘lutto’ con la liturgia della parola, la quale diventa elegia ed elogio della memoria, “salvezza alla caligine dei giorni”, contro “la malsanìa del tempo”.

“Cammineremo palpeggiando i muri / verso una stagione sconosciuta / maschere denudate/ in attesa di nuovi vestimenti”. Sono, questi, versi della seconda sezione: A Palermo nessuno. Alla città adottiva, dove si trasferì ancora bambina con la famiglia, la Bonfiglio rende qui il proprio tributo senza celare due opposte facce che la caratterizzano scoprendole subito nelle citazioni di Marie Luise von Kaschnitz e di Milann Kundera poste in apertura della sezione, e cioè la rovina e la bellezza: l’una rappresentata dai sepolcri di Federico II, Enrico VI e Ruggero II d’Altavilla, metafora del disfacimento dei corpi, della transitorietà della gloria e della grandezza; l’altra espressa, implicitamente, nella seguente domanda che testimonia il fascino della città e invita a visitarla: «Come puoi vivere senza conoscere Palermo?». La città stessa con le sue contrapposizioni tra lo sfarzo e il degrado, tra gli “umori nauseanti” e gli “Antichi Tesori”, tra le rinascite e i lutti, è metafora della vita e della morte, e ‘incarna’ la disposizione d’animo della poetessa, oscillante tra il dolore e la gioia, nonché la mancata complementarità tra anima e corpo, anche se poeticamente si cor-rispondono nello specchio della bellezza, dove sono tutto spirito. La spiritualità che governa questa raccolta è una fonte feconda di piacere collegata alla sfera della sessualità e al corpo ‘offeso’, impedito nei movimenti, costretto a ‘galleggiare’ tra i desideri che ritornano sempre gli stessi, “fra canti di sirene e naufragi”. Palermo è il luogo dell’anima, “Ricchezza unica […] terra di proterva solitudine” ed è la “casa vuota”, il sentimento del tempo trascorso e custodito tra le mura domestiche, dove viva è la presenza dei trapassati, resa, epifanicamente, dai “fiori reclinati dentro il vaso” paragonati agli “abbracci /dimenticati al fondo dei cassetti”. Nessuno riempie più la casa/città. “Non ci sono più strade che portano /alla casa si sono spenti i lumi”. “Tutto riposa in pace” nella liturgia dei giorni , dove “L’anima innova / il rito quieto dell’attesa” e tutto sembra allora risvegliarsi, anche se non è concesso alla coscienza di “diradare le ombre / che insediano la luce del mattino”.

Della “certezza dell’addio” abbiamo piena coscienza. Dell’aldilà, invece, nulla sappiamo e nulla, forse, è meglio sapere, come suggerisce Pessoa nel distico che apre la terza sezione: Oracoli. La verità dell’«oltre» ci è negata, né possiamo decifrarla perché non è scritta né pronunciata dagli “oracoli ammutiti / alle nostre richieste”. Alla verità del dolore non si può sfuggire, presente e pesante come “nell’anima i sassi”, che possono bucarla profondamente e sprofondarci nel vuoto, nell’angoscia così insopportabile da desiderare di annegare, come Virginia Woolf, come Ofelia, oppure lottare per vincere “l’ombra / e la paura”, e credere “che la luce - finalmente - / sia vicina”, come auspica la Bonfiglio, che non rinuncia all’illusione e crede nella virtù poetica. Perché c’è verità nella poesia e c’è amore; perché essa è “Parola benedetta” e bisogna crederle per fede e per bellezza.

Una grande nostalgia impregna tutte le pagine della raccolta dispensando, al tempo stesso, armonia e dolcezza, che aprono il cuore alla speranza. È un libro, una poesia, che commuove e coin-volge con i ricordi: sogni che si rap-presentano nel teatro dell’anima e incantano gli occhi del lettore, al quale finiscono per essere familiari. Perché nessuno è esente dal ricordare e dai «colpi di ventura». E non c’è ostentazione in questi versi sonori, in queste raffigurazioni ‘ricercate’, ma spontaneità e intrinseca sostanza. I molti temi sono esposti con chiarezza e pathos, tra luci e tenebre, con sfumature di colore che ‘imitano’ l’azzurro del cielo e il nero della notte, mai consegnata, quest’ultima, all’ultimo tramonto, ma considerata evento, “passaggio solo transitorio” in vista del “cambio di passo”. Con la poesia la Bonfiglio riesce a fare fronte alla sofferenza, al dolore, alla nostalgia, alla solitudine, alla routine della quotidianità. Essa è il balsamo che lenisce il “tormento dell’anima sgualcita”; che la fa “ancora amante della vita” e sperare in una nuova alba, anche se questa è solo una promessa sempre rinnovata.

 

 

 

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