“Le imprese e la vita violenta dei banditi e briganti d’Italia” di Domenico Bonvegna

Ci sono dei libri negli scaffali della mia libreria a muro che “aspettano” di essere letti, (un amico tempo fa mi diceva, nell'arco della nostra esistenza, forse riusciremo a leggere il 10 o 15% dei libri acquistati). Uno di questi libri è “Banditi e briganti d'Italia”, sottotitolo: “La storia, le imprese e la vita violenta dei fuorilegge più famosi, tra leggenda e realtà”, di Adriano Sconocchia, pubblicato da Newton Compton Editori (2020) Il tema mi ha sempre intrigato, ho già letto qualche altro libro del genere. E' un testo che assomiglia molto ad un inventario, addirittura un dizionario o atlante del brigantaggio e del banditismo del nostro Paese.

Un tema che ha avuto poco spazio nei libri di Storia, almeno i manuali scolastici, pertanto, la maggior parte degli italiani non conoscono questa storia.“Il termine 'Brigante' indica qualcuno che opera al di fuori della legge e nel linguaggio comune ha assunto una connotazione fortemente negativa”.

Il testo di Sconocchia si occupa del brigantaggio a partire del XVI secolo, tra leggende e realtà, dove non mancano gli aspetti affascinanti. Nella presentazione leggo che il “libro vuole raccontare la controstoria di quegli uomini e quelle donne che, come antieroi del passato, hanno scelto di combattere le autorità del loro tempo in nome di interessi personali, ideali politici o, in alcuni casi, persino rivoluzionari”. Attenzione però, anche per questa storia occorre sempre guardarla o giudicarla non con i parametri di oggi, ma sempre con quelli del tempo in cui si sono svolti, tenendo conto delle diverse circostanze. E soprattutto tenere conto, come scrive lo stesso autore del libro, che spesso le azioni di questi briganti o banditi sono “conditi” di tante leggende. Tuttavia, soprattutto per quanto riguarda il cosiddetto brigantaggio del 1860-65, molti di questi “briganti” credevano alla causa legittimista, di un eventuale ritorno sul trono del Regno delle Due Sicilie di Francesco II.

Sconocchia precisa che l'intento del libro non è quello di assolvere questi uomini e donne, per i loro crimini commessi, ma quello di conoscere meglio “un fenomeno la cui narrazione è stata unicamente veicolata dalle autorità che l'hanno combattuto”. Ricostruire queste pagine di storia è fondamentale per poi comprendere la storia del nostro Paese.

Il testo prima fa una analisi sociopolitica dei due fenomeni, poi passa a descrivere la vita dei singoli briganti o banditi. Il primo argomento che si affronta è La nascita del banditismo moderno e la sua affermazione nei secoli XVI e XVII. In premessa Sconocchia, fa una distinzione: “Banditismo e brigantaggio, furono due fenomeni simili ma non uguali tra di loro”. Per quanto riguarda il primo, potremmo definirlo come un fatto di delinquenza comune che interessò diverse aree della penisola italiana. Mentre il secondo, “fu più che altro una reazione violenta nei confronti del 'potere' centrale, o locale, e più in generale contro i 'potenti', attuata da soggetti espulsi dalle comunità cui appartenevano, sia per essersi ribellati a leggi ritenute vessatorie che per motivi di pura opposizione politica”. Questi furono i briganti che nel Sud Italia, vennero utilizzate, sia per la riconquista del Regno perduto di Francesco II, sia per contrastare l'avvio del nuovo Stato italiano sotto i Savoia. Nella prima parte Sconocchia dà una valutazione socio-politca ai vari fenomeni di banditismo o brigantaggio a partire dallo Stato Pontificio tra il Cinquecento e il Seicento. Ci sono alcuni aspetti che non conoscevo della lotta del Papa, in particolare Sisto V°, Il “Papa tosto”, che ha abbassato l'età a quattordici anni dalla quale si poteva essere dichiarati colpevoli, responsabili dei danni causati. Lo stesso per quanto riguarda l'età minima per essere giudicati in un processo. Furono emanate assoluzioni e grazie per gli eventuali pentiti, nella speranza che crescessero di numero delatori e traditori.

La mia attenzione si ferma sul fenomeno dell'insorgenza tra il XVIII e il XIX secolo: dall'occupazione francese al brigantaggio pre-unitario. Il fenomeno dell'Insorgenza come categoria storico-politica contro Napoleone è stato abbondantemente tracciato dall'Istituto Storico dell'Insorgenza per l'Identità nazionale (ISIN) un gruppo di studiosi nate nell'ambiente di Alleanza Cattolica. Poi si passa ad analizzare Il brigantaggio post-unitario, con la delusione di quei ceti popolari che avevano creduto in quella insorgenza armata, contro i cosiddetti “Piemontesi”. Per intenderci quello di Carmine Crocco, Chiavone, i due Caruso, Domenico Romano e tanti altri, che hanno preso le armi contro i 120mila uomini dei vari Farini, Cialdini, La Marmora, Pallavicini, quindi a quello legittimista che trasloca nello Stato Pontificio. Per concludere con gli epigoni dei briganti tra il XIX e XX secolo. Il testo di Sconocchia si occupa anche del fenomeno delle brigantesse, dette “Drude”.

Passando ai protagonisti di queste vicende si inizia con i banditi famosi tra il XVI e XVII secolo, quello più conosciuto Marco Sciarra, il flagellum Dei. Alfonso Piccolomini, il bandito nobile; Ramberto Malatesta, il barone-brigante, ed altri, tutti hanno operato nel territorio dello Stato Pontificio con le stesse più o meno motivazioni e rivendicazioni.

Interessante sarebbe soffermarsi sui briganti tra il Settecento e Ottocento che hanno operato contro l'invasione napoleonica dell'Italia. Il nome più conosciuto è quello di Michele Pezza, detto Fra Diavolo. Un mito che avrebbe travalicato il suo secolo, hanno fatto anche un film. La descrizione del personaggio che ne fa l'autore del libro è abbastanza corretta, per la verità anche in riguardo degli altri personaggi. Michele Pezza ha combattuto la sua guerra personale contro le armate napoleoniche, “in nome di sua maestà Ferdinando IV, tanto che dopo aver catturato un manipolo di francesi, invece di ucciderli li consegnò, non senza qualche difficoltà, alle autorità regie napoletane”. Michele Pezza, aveva un forte legame con la corte borbonica, in particolare con la regina Maria Carolina. Lo scenario è quello del gennaio 1799, quando un gruppo di giacobini si era impossessato della capitale, instaurando la Repubblica Napoletana, innalzando il vessillo rivoluzionario dell'albero della libertà. La reazione fu veemente, i cosiddette lazzaroni e poi tanti altri, fino a formare un vero esercito, la “Santa Fede”, guidato dal cardinale Fabrizio Ruffo con una sollevazione di massa riconquistarono il Regno e Napoli.

Altro brigante di un certo spessore di questo periodo fu Gaetano Coletta, detto Mammone. Un personaggio descritto mezzo uomo e mezzo animale, da Vincenzo Cuoco. Anche qui c'è molta leggenda. Chiaramente occorre tenere conto delle rappresaglie operate dalle truppe francesi nei confronti dei briganti e delle popolazioni che li sostenevano. Altre figure interessanti che si descrivono nel libro, c'è Nicola Gualtieri, detto Panedigrano, Antonio Gasbarrone detto Forte, Domenico Regno, detto Diciannove. Infine il Passatore, che venne immortalato dal Pascoli con l'epiteto di Passator cortese, nobilitando la figura, che veniva considerato una specie di Robin Hood.

Il capitolo più corposo riguarda il “Brigantaggio nella seconda metà del XIX secolo”.

Sconocchia lo chiama, “la rivolta legittimista-borbonica del meridione”.

Si inizia con la figura più nobile, coraggiosa e leale di tutta la vicenda del cosiddetto brigantaggio: Josè Borjes, l'hidalgo spagnolo, il generale carlista, un uomo fuori del tempo. Mi sono occupato della sua splendida figura presentando il libro di Tommaso Pedio, “Josè Borjes. La mia vita tra i briganti” (Lacaita Editore). Forse è stato l'unico ad aver “impensierito” seriamente i vertici militari del nuovo Regno Italiano. Purtroppo Borjes non è stato aiutato e capito dalle bande di Crocco, che lo vedevano come un intruso, nella loro guerra.

Altra figura importante di questa guerra è stata Rafael Tristany, anche lui ufficiale carlista spagnolo, accolto a braccia aperte dalla corte borbonica in esilio a Roma. Qui bisognerebbe aprire una parentesi, fare una digressione sui Borboni, sul Regno, e soprattutto sulla corte e sugli alti ufficiali. Il Regno Borbonico certamente è stato un attaccato deliberato di “pirateria”, perpetrato dai sovrani del Regno di Sardegna, con la supervisione degli inglesi, utilizzando Garibaldi, ma i “napoletani”, in particolare gli alti ufficiali borbonici, con in testa Liborio Romano, hanno tradito e abbandonato i giovani sovrani Francesco II e Maria Sofia.

Quando ormai tutto era perduto, in particolare, Maria Sofia ha cercato in tutti i modi di riconquistare il Regno, con i briganti, ex soldati borbonici, con un gruppo di nobili europei accorsi generosamente per aiutarla in questa disperata impresa. 

Tra questi nobili ricordo il maggiore sassone, Edwin Kalckreuth, Ludwig Richar Zimmermann, il legittimista prussiano, Theodor Friedrich Klitsche de la Grance, i francesi Emile Teodule De Christen, Augustin de Langlais tutti come Borjes non riuscirono a organizzare una vera e propria guerriglia, forse perchè non avevano uomini sufficienti, né adeguatamente addestrati, ma soprattutto perché i briganti erano difficilmente inquadrabili militarmente.

Potrei continuare a elencare gli altri briganti più conosciuti, come Luigi Alonzi detto Chiavone, che ha operato nella zona di Sora e “non accettò mai di sottomettersi del tutto al comando di quei volontari venuti dall'estero […] come gli era sto ordinato da Francesco II in persona”. Per quanto riguarda Carmine Donatelli detto Crocco, anche di questo personaggio ho recensito un libro “Come divenni brigante”, di Carmine Crocco (Laicata Editore 1964, Manduria TA) del professore Tommaso Pedio. Certamente era un “bandito”, ma probabilmente, il carismatico brigante di Rionero in Volture, era quello, che poteva dare una certa svolta, all'insorgenza del Meridione contro il governo del nuovo Regno d'Italia. E' arrivato ad avere ai suoi ordini oltre tremila uomini. Tra questi il suo braccio destro Ninco Nanco, Giuseppe Nicola Summa. Poi collaborò con il generale Borjes, ma sempre recalcitrante nei suoi confronti, perché lo rimproverava per le stragi e i saccheggi inutili. Un'ultima segnalazione la merita il sergente Domenico Romano, un brigante sui generis per Sconocchia, no omologato agli altri capobanda. Aveva un forte senso religioso, ai confini con la superstizione. Ha operato intorno a Gioia del Colle, sapeva leggere e scrivere, quasi una rarità per quei tempi. Nelle sue scorrerie era sempre in divisa borbonica e anche la sua banda.

Romano è morto combattendo contro gli uomini del cavalleggeri Saluzzo del capitano Bollasco. Oltre al suo taccuino, fu trovato il giuramento del brigante legittimista. Gli uomini del sergente Romano giuravano fino all'effusione del sangue, Dio, il sommo pontefice Pio IX, Francesco II, re del regno delle Due Sicilie. Un capitolo a parte viene dedicato alle “Drude”. Le donne che hanno partecipato alla guerra del Brigantaggio, anche qui i nomi sono tanti. Di questo argomento a suo tempo se ne era occupato lo storico Giordano Bruno Guerri, in “Il Bosco nel cuore”. Sottotitolo: “Lotte e amori delle brigantesse che difesero il Sud”, (Mondadori, 2011), anche questo testo è stato presentato nelle mie collaborazioni giornalistiche (senza lucro). I libri sul Risorgimento hanno fatto i nomi di altre donne, la contessa di Castiglione, Anita etc, ma a queste donne nessuna menzione, non meritano per la storia ufficiale. Si comincia con la capitanessa, Francesca La Gamba, poi con Maria Giovanna Tito, detta la iena o anche la volpe. Filomena De Marco, detta Pennacchio.

Michelina De Cesare, quella più conosciuta e tante altre.

Il testo si conclude con gli epigoni dei briganti, tra il XIX e XX secolo, tra questi Giuseppe Musolino, Salvatore Giuliano, detto Turiddu. Infine Graziano Mesina, grazianeddu.

Il testo di Sconocchia presenta una discreta bibliografia, peccato che non c'è Francesco Pappalardo dell'Istituto Storico per l'insorgenza e l'Identità italiana, che ha pubblicato un interessantissimo libro “Dal banditismo al brigantaggio. La resistenza allo Stato moderno nel Mezzogiorno d’Italia”, D’Ettoris Editori, (Crotone, 2014), forse non è a conoscenza del testo.

Il testo di Pappalardo nella trattazione riunisce insieme, banditi, gl’insorgenti e i briganti, figure apparentemente molto diverse fra loro, “per di più accomunati non dall’aspetto eversivo che comunemente evocano nell’immaginario collettivo ma dalla resistenza, più o meno consapevole, da essi opposta in tempi diversi allo Stato moderno nascente o in via di affermazione”.  Naturalmente distinguendo tra i diversi fenomeni. Chiaramente l'insorgenza popolare contro la Rivoluzione e contro il regime napoleonico (1792-1814) è tutta un'altra cosa, soprattutto rispetto al banditismo.  Anche il brigantaggio postunitario è una realtà complessa, in cui rientrano
la fedeltà dinastica e la resistenza all’invasore, l’opposizione alla coscrizione obbligatoria e alla pesante fiscalità, antiche tensioni sociali e l’inevitabile delinquenza. Tuttavia per Pappalardo, sono tre momenti distinti ma collegati fra loro e importanti per la storia della nostra Penisola.

 

 

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