Antonio Bruno futurista ribelle definito “Il Leopardi siciliano” – di Giovanni Teresi

Antonio  Bruno, anche se  accetta la definizione di futurista, è incline ad un leopardiano pessimismo, e con le sue opere letterarie costituisce una personale ed eccentrica presenza culturale nel panorama letterario della Sicilia e della Catania dei primi decenni del ‘900.
Nato a Biancavilla, grosso centro vicino a Catania, nel 1891, formatosi al nobile e insigne convitto Cutelli di Catania, poi studente a Firenze all’Istituto di studi superiore di Scienze Sociali,  frequenta, naturalmente incline alle lettere, i poeti, gli scrittori, l’ambiente variegato della città , delle riviste, dei caffè, dei ritrovi futuristi, del teatro: qui  assiste nel 1917 allo spettacolo della Compagnia dei Balletti Russi  di Diaghilev, assieme a Picasso e Palazzeschi, tra gli altri: in programma c’è un numero dallo scintillante titolo di ‘fuochi d’artificio’; da questo presumibilmente prenderà l’ispirazione per scrivere il suo ‘Fuochi di bengala’: diario, raccolta di poesia, testamento, lamento, esercitazione di arte d’avanguardia, pubblicato nel 1917 dalle edizioni di ‘Italia futurista’ con la prefazione di Emilio Settimelli.
Espressione maggiore del suo poetare da futurista, è, nel libro, la poesia-manifesto ‘dolly ferretti’, grafica rappresentazione della donna amata; canto dell’amore-passione e libero contro le limitazioni morali piccolo-borghese e pesantemente provinciali, quali aveva potuto sperimentare Bruno, nella sua Biancavilla, su se stesso, anche solo a causa del suo corpo, deformato all’età di cinque anni da una mal-caduta: ‘in questa tribù albanese dove sono il figlio del sindaco per antonomasia sorrido soltanto ai bimbi che mi sgambettano dietro cinguettando: Antonuzzo!...Antonuzzo!....
Il libro, scritto tra Firenze e Biancavilla contrappone  gli umori, effervescenti, le speranze e gli incanti della città d’arte alle orridezze e agli sgomenti del paese d’origine: 
‘Moro, il cavallo che scalpita mentre studio la notte, nitriva a tutte le giumenta. Turi, il cocchiere, sonnecchiava col cappello sugli occhi e gli abbandonava le redini. Mi lasciavo portare. Per non addormentarsi Turi mi raccontò fra molti Voscenza e sull’onor mio ,la storia del suo primo amore. Sullo stradale divenuto cretoso non si vedeva più sole e campagne. Una donna colle boccole di negra passò trascinando per le corne una capra. Poi, bigio e squallido, Regalbuto si disegnò sull’orizzonte. Dall’altro lato Centuripe pareva una cattedrale gotica sospesa nello spazio - e man mano che la meta del mio viaggio si precisava spezzando fosca la sinfonia azzurro e oro......’ 
 
Tanto legato agli amici letterati fiorentini e parigini, quanto pronto a  denunciare il clima ottuso, viscido e retrò della provincia catanese, dove, circondato dall'autorità  di Rapisardi e Verga, Antonio Bruno è refrattario al primo, ma dà giusto riconoscimento  a Verga (‘creatore di capolavori immortali che portano l’anima dell’Isola colorata’). Sebbene a Catania sperimenta collaborazioni a riviste e partecipazioni ad imprese culturali-editoriali (animò la rivista ‘Il circolo Pickwick’), queste esperienze comunque non gli servono a cementare i rapporti con l’ambiente letterario etneo e sono episodiche e di breve durata.  Se è ben disposto verso qualcuno, come  Giovanni Centorbi (‘umorista aggressivo e penetrante’), ben presto, però, gli strali polemici investono, nell’astio che mostra verso lo scrittore catanese Villaroel, tutta quanta la provincia letteraria e retrograda del territorio catanese. E non solo la società dei letterati ma la società ‘tout court’, prima di tutto nei ‘ceti produttivi’. Non è la condizione personale dello scrittore, non è la deriva esistenziale a far vedere a Bruno l’orridezza della provincia, questa lo è oggettivamente: la sua è semplicemente una disperata constatazione, greve, seria, laddove in Francesco Lanza, scrittore per tanti versi simile, la ricollocazione letteraria della vita di provincia, diventa caricatura ironica e spassosa e i personaggi, comici mimi, rappresentati nelle loro convinzioni tanto radicate e primitive quanto incolte e regressive da poveri che lottano disperatamente contro pezzenti in un mondo che vive ai margini di tutto, condannati  ad una disperata centenaria solitudine.
Sulla possibilità di redenzione e di salvezza nei ‘valori’ degli ‘umili’, Bruno, annota : ‘Eppure questa mia terra dal nome gaio ,con l’oscurità delle sue origini e il suo umile presente potrebbe guarirmi. Borghesi e campagnoli vanganti la terra prosternati all’altare del dio centesimo: chiese senza arte, case senza stile, aristocratici e matrone da teatro dei piccoli’ 
La ferocia descrittiva  di Bruno sembra voler liquidare come falsa qualunque idilliaca rappresentazione e prelude ad una scomposta e dissociata e ultima produzione delirante e de-lirica (Canti nuziali all’alba della terra nuova ),che accompagna la sua  solitudine e il suo esasperato estetismo decadente , fino al compimento, che aveva paventato: una fine simile a quella della Madame Bovary di Flaubert (‘madame bovary  se moi’ aveva detto) ,vittima della provincia normanna, morire  da maledetto, nel 1932, in uno squallido albergo catanese.
Antonio Bruno fu affascinato dal “mal de vivre dei maudits” francesi. Amava nascondersi dietro la maschera congeniale di Stefano Mallarmé. I suoi modelli furono: Rimbaud, Verlaine, Flaubert e soprattutto Baudelaire, con cui condivideva la poetica dello spleen.
 Una forma particolare di disagio esistenziale, che determinava una fertile creatività poetica, capace di rendere concrete le sensazioni e gli stati d’animo in numerose immagini visionarie,  prodotte dall’inconscio. Bruno, nei suoi scritti, riesce a fondere lo spleen di Baudelaire con la noia tipicamente leopardiana, ma la prima sopraffà  notevolmente la seconda.
 Seppe congiungere mirabilmente questi due poli contrastanti ricorrendo all’ironia.
Elegante e coltissimo, passeggiava per le vie di Catania con un ramo di rose o garofani.
Un dandy impregnato di cultura francese che si era innamorato perdutamente di una ragazza fiorentina, Dolly Ferretti appunto, che ne apprezzava la statura intellettuale ma quanto al resto non era disposta a concedergli nulla. E la risposta di Bruno fu di tappezzare le vie con una poesia parolibera che la incensa e la rimprovera: un amore messo in piazza, il primo della storia con la tecnica futurista pubblicitaria del manifesto.
Essere all’avanguardia in letteratura non significa automaticamente esserlo anche in amore. E Antonio Bruno in amore è quanto mai reazionario e non  molto furbo come si capisce dalle 50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti (Catania, Tirelli, 1928), che compendiano la storia, dal 24 marzo 1916 al 16 aprile 1917: lui cerca di irretirla intellettualmente, lei apprezza lo spirito ma la carne è tutt’altra cosa.
Lo scrittore catanese pubblicò numerose opere di varia natura: Come amò e non fu riamato G. Leopardi: studio letto all’Università di Roma il 7 maggio 1912 (1912), More di macchia(1913, poesia), Rottami (1913, diario), Balocchi (1915, poesia), Fuochi di Bengala (1917, traduzioni e atmosfere orientali), Un poeta di provincia: schiarimento catanese in difesa della poesia (1920), Ritratto dell’amica Morella (1919-1920, narrativa), 50 lettere d’amore alla signorina Dolly Ferretti (1928), un romanzo epistolare dedicato ad Ada Fedora Novelli, sua amata musa. Vi sono anche: L’immorale signora Bovary: studio letto a Parigi al circolo di letture italiane ricorrendo il 1° centenario della nascita di Gustave Flaubert (1930), la traduzione de Il corvo di Poe (1932) e altre traduzioni.
 
 
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