"Autobiografie e autofinzioni: La narrativa di Tommaso Romano" di Mario Inglese

La vita è una storia, un racconto. La nostra vita è la storia del sé, del nostro sé.  È per questo che Romano offre in Tempo dorato un racconto schietto e partecipe del dipanarsi della ‘trama’, degli eventi e dei personaggi che affollano questa storia. E non è per puro caso che questo desiderio di raccontare – e di raccontarsi, come recita il sottotitolo – si coagula in una fase biografica che se non è quella estrema è pur sempre collocabile oltre il fatidico “mezzo del cammin”. E quandanche la scrittura autobiografica non si limitasse all’infanzia e alla prima giovinezza ma inglobasse l’età matura e quella estrema, si tratterebbe pur sempre  di un racconto mancante del suo epilogo, di quel dénouement che solo la morte può fornire e suggellare definitivamente.

È forse per questo che il secondo racconto, Oltre il sopravvivere, mette in scena proprio una morte, sia pure una morte per propria mano, come a garantire una paternità non solo alle proprie scelte di vita ma anche alla conclusione della vicenda terrena. E questo inscenare una morte scelta liberamente è il contraltare dello squadernamento delle vicende esistenziali di un personaggio affascinante e contraddittorio allo stesso tempo e della sua deuteragonista. All’uomo sopravviveranno certamente, oltre alla memoria di chi lo ha conosciuto e amato, gli oggetti che ha raccolto lungo tutta una vita ma anche, e soprattutto, quello che egli ha creato – nel caso di Marco Colonna, il protagonista, la poesia.

Nel romanzo breve La casa dell’Ammiraglio il racconto di un personaggio maturo, delle sue ossessioni, passioni e interrogativi si snoda attraverso riflessioni, meditazioni, bilanci, intimi colloqui che cercano di dare non solo forma al romanzo della vita ma anche senso a un’esistenza che rischierebbe di sprofondare nell’entropia dell’informe o nei gorghi dell’ennui e delle tentazioni dell’effimero sopravvivere.

Ma procediamo con ordine. Il primo racconto è una sorta di polittico narrativo dove i diversi capitoli ricostruiscono l’infanzia dell’autore e la sua iniziazione alla vita, scandite da cerimonie, visite, passeggiate, villeggiature, viaggi, giochi, interessi e da quei riti di passaggio che ogni individuo affronta nella sua formazione umana, sociale e culturale. Ma queste rievocazioni leggere e spesso venate di un garbato umorismo sono anche l’evocazione di luoghi precisi – la casa in città, la campagna, i luoghi dello svago o le mete di viaggi o visite. Da questi quadri della memoria si afferma ben presto quell’ammirazione per la bellezza che sempre connoterà l’autore e la sua produzione creativa, in versi e in prosa, ma anche critica. Emerge inoltre quella sensazione di appena rattenuto fastidio verso la bruttezza, la grossolanità, la “nientificazione” – per usare un termine di Romano – che caratterizzano la società odierna. Realtà ancora più stridente se confrontata con un “tempo dorato” che  sarà magari mitizzato, attraverso la lente della memoria e la prospettiva di un’epoca irrimediabilmente perduta, irreversibile, ma che è pur sempre testimoniata storicamente da luoghi, edifici, riti, un tempo fascinosi punti fermi, poi abbandonati o, nel caso dei luoghi fisici, stoltamente distrutti. Si pensi solo a tanti edifici in stile liberty di una Palermo in parte scomparsa per far far posto a una brutale cementificazione.

In questo racconto compaiono già delle vere e proprie costanti, oltre al culto per la bellezza di cui si parlava prima. Ecco allora quell’aristocrazia dello spirito, l’amore profondo per taluni autori che ricorrerà in tutta l’opera di Romano, l’ironia, la passione per il collezionismo –che si carica di una forte tensione culturale ma anche di una valenza spirituale –, la casa “sacrario”, il gusto  – che sconfina nella sensualità – per la buona tavola, tanto più che in una città come Palermo la cucina assume quasi il valore di un laico culto.

Anche in Oltre il sopravvivere ci imbattiamo in un mondo raffinato, a tratti persino estenuato, che ci riporta con la memoria ad autori come D’Annunzio o i Crepuscolari. Al primo si collega, per esempio, la visita al Vittoriale, il gusto per le occasioni mondane, l’eros raffinato – non disgiunto tuttavia da una tendenza all’ennui esistenziale – la passione per l’antiquariato. Il personaggio di Maria Selene, la donna di cui il protagonista si innamora nell’ultima fase della sua vita, sembra incarnare un ideale di femminilità ammaliante e al contempo algida e sfuggente, polo di attrazione e inveramento di uno scacco finale che lascerà Marco Colonna in uno stato di angoscia e di vuoto, preludio alla tragica fine. Il racconto ripercorre le fasi di questo innamoramento come a indicarne una sorta di precisa eziologia. E qui l’autore ricorre a tutta una serie di rimandi culturali dotti come a cercare degli addentellati che rendano conto del coacervo di sensazioni, pensieri, pulsioni e gesti che restano pur sempre enigmatici. D’altronde Marco è, come leggiamo, “un uomo complesso – nativamente solitario – forse fragile e desideroso di comprensione, di amore sincero e disinteressato”. Ma anche Maria Selene partecipa di questa vicenda che non si lascia irretire in facili coordinate chiarificatrici. Entrambi appaiono agli occhi dell’io narrante, l’amico Alessandro, “due figure tragiche, irrealizzate, forse nevrotiche e disperatamente alla ricerca di un graal immaginario, di una felicità che tutti e due non erano probabilmente in condizioni di darsi”, come leggiamo ancora. La vita di Marco, e con essa la sua storia in quanto racconto, prende forma definitiva, come si diceva sopra, con la sua morte. L’io narrante la preserva, in una certa misura, dall’informe di un inesorabile, eracliteo, divenire. Il racconto ne serberà esattamente la memoria, soprattutto presso Alessandro. La poesia che Marco ha coltivato – in segreto, per sé, come diffidando di una reale possibilità di comunicazione profonda con l’altro – è forse l’unica eredità che non sarà smembrata, bene forse più solido e inscalfibile  rispetto ai tanti oggetti raccolti religiosamente nel tempo.

Dal racconto apertamente autobiografico di Tempo dorato, attraverso l’autobiografismo del secondo racconto, con La casa dell’Ammiraglio passiamo a quel genere di scrittura che si potrebbe annettere alla categoria dell’autofinzione. Potrebbe a questo punto sembrare strano parlare di autofinzione a proposito di questo romanzo scritto in terza persona. Tuttavia se si considera che grandi precursori dell’autofinzione quali Fielding o Saba – presi a modello delle grandi autofinzioni contemporanee da parte di acuti studiosi – scrivono alla terza persona, dovrebbe essere sufficiente a giustificare questa chiave interpretativa applicata al libro di Romano. L’ammiraglio, infatti, adombra il suo autore da molti punti di vista. Il romanzo del resto incarna molte delle costanti testé menzionate. L’aristocrazia spirituale si sposa con una sorta di dandysmo d’altri tempi che mal si concilia con l’involgarimento del nostro presente; c’è una profonda cultura che si fa necessità di vita, humus senza il quale la vitalità dello spirito avvizzirebbe miseramente; c’è il collezionismo; c’è la casa-sacrario che assurge a luogo dell’anima; c’è lo spettro della noia da rifuggire pervicacemente; c’è il senso di una tradizione come ancoraggio a valori che trascendono le alterne vicende del finto progresso; c’è la compresenza di razionale e spirituale; ci sono il culto della bellezza e la sacralità della famiglia e dei luoghi che la celebrano; c’è l’autoironia.

Sembra quasi superfluo precisare che di fatto è proprio la casa, la “casanima”, a fare non solo da sfondo alla vicenda narrata, quanto da vera e propria protagonista, ancor più in quanto l’azione è ridotta all’essenziale. Se da un lato questa casa traboccante di oggetti, opere d’arte, libri, memorabilia, curiosità, sembra ricordare l’opulenza del dannunziano Vittoriale o una Wunderkammer barocca, dall’altro la dimora assume una sua sacralità dove spazio, tempo, pervasività delle cose e sogno sembrano fondersi indissolubilmente agli occhi del suo abitatore. La casa diventa l’opera creata da chi l’ha ereditata e trasformata nel tempo. In questo spazio gli oggetti, le cose, acquistano pari dignità rispetto all’uomo che li ha accolti, curati e amati, come fossero esseri viventi. La cose, per dirla con Mario Perniola, non stanno più al nostro servizio,  al di sotto di noi in una visione gerarchica teocentrica o antropocentrica, quanto piuttosto al nostro fianco. Non solo le opere d’arte presenti nella casa ma anche gli oggetti apparentemente più ordinari – almeno agli occhi di chi non ne conosca la storia o la profonda relazione con il proprietario – acquistano un’aura, per usare la categoria di Walter Benjamin, che li isola in una dimensione speciale.

Felice poi la trovata degli oggetti – statuette raffiguranti animali, figure umane o esseri soprannaturali come un angelo o la Vergine – che conversano tra loro o parlano con il loro proprietario, come a oggettivare un’intensificazione non tanto emotiva quanto spirituale, segno tangibile della compresenza di visibile e invisibile, materiale e immateriale. Compresenza che il pensiero razionale liquida come impossibile (si veda la figura dello psicanalista che ordina la dispersione degli oggetti, a suo dire causa di veri e propri stati di alterazione mentale) mentre può concepire ed esperire solo chi si apre alla forza cosmica di uno spirito che aleggia dappertutto e dischiude orizzonti percepibili alle anime educate al bello e al buono. L’illuminazione finale è un’autentica trasfigurazione della realtà che riconcilia l’ammiraglio con il mistero delle cose e con una sostanziale solitudine che non è, tuttavia, autoesclusione dall’umano consorzio quanto laica ascesi a lungo agognata e infine conquistata.

 

 

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