“Bartolo Cattafi, storia di un uomo e di versi” di Maria Nivea Zagarella

 

All’approssimarsi del centenario della nascita, piace tornare sulle ali della memoria storico-letteraria a una interessante figura di intellettuale e poeta siciliano oggi semidimenticato: Bartolo Cattafi. Un intellettuale dal singolare percorso esistenziale concluso con la conversione religiosa. Nato un secolo fa, nel 1922, a Barcellona in provincia di Messina, dopo la laurea in giurisprudenza Cattafi visse tra Milano (dove lavorò in una industria) e la Sicilia, viaggiando anche molto per l’Europa e in Africa. Morì precocemente nel 1979, a 57 anni, per un cancro ai polmoni, dopo avere confermato nel 1978 con rito religioso il legame matrimoniale con la moglie Ada sposata con rito solo civile nel 1967.

Annoverato fra i poeti della cosiddetta Linea Lombarda accanto a R. Rebora, G. Orelli, N. Risi, L. Erba, G. Giudici, i quali intorno alla metà degli anni Cinquanta tentano, attraverso soluzioni individuali, un rinnovamento dei contenuti e del linguaggio poetici, anche Cattafi realizza un “suo” singolare percorso letterario, intermedio tra realismo e simbolismo, e in uno stile sempre concentrato. Approda alla poesia a 21 anni, nel 1943, durante una licenza di convalescenza nella sua isola: poesia come “reazione” alla disumanità della guerra. Tutt’intorno -dichiarerà nel ’61 a  Giacinto Spagnoletti- lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire ma lui se ne andava per la colorita campagna siciliana nutrendosi di sapori, aromi, immagini in preda all’ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci… Come in una seconda infanzia -precisa- cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo. In quella primavera Cattafi “si riappropria” del mondo, di se stesso, e scopre il poetare come misteriosa urgenza biologica, come insospettato accumulo/liberazione di forze anelanti l’espressione, la “forma”. Vi sono -chiarisce quasi a se stesso- misteriose maturazioni, catalizzatori non sempre identificabili, forze e forme insospettate che si liberano rompendo lo stato di <<quiete>>, che scattano e si scatenano secondo le linee di un disegno naturale… Donde la sua definizione della poesia quale “cruento (cioè drammatico, talora lacerante) atto esistenziale” in linea con l’originaria e originale matrice ermetica e con la personale, sofferta, avventura esistenziale dell’uomo/Cattafi. La fine della guerra infatti non placa la sua inquietudine, il suo “nomadismo”, reale (i viaggi in Europa e Africa di cui si diceva) e intellettuale, un nomadismo alimentato da una tormentosa inchiesta metafisica, dalla lunga delusione dell’oggi, dal bisogno di una “misura”, di un equilibrio, di qualcosa di preciso -scrive- con un forte profilo,/ secco, bello, scattante per rispondere ai quesiti capitali: Un punto da chiarire, sangue/ d’uomo, briciola/ vile oppure grumo/ perenne, blocco di coraggio. Perciò nei versi la valenza metaforica di oggetti, immagini e colori della natura, l’arancia ad esempio (il mondo arancia nel verde domani), o degli stessi segni verbali (il neroparola sul biancocarta), piegati tutti alla denuncia espressionistica, all’esito surreale, all’allegoria, rimanendo il poeta defilato sia rispetto all’éngagement ideologico-politico degli anni Sessanta/Settanta, sia verso lo sperimentalismo della neoavanguardia e del Gruppo ’63, che tiene il suo primo convegno proprio in Sicilia, a Palermo. Ha scritto opportunamente R. Luperini che l’opera di Cattafi riassume “tutta una tradizione lirica, postsimbolista e surrealistica, non solo italiana ma europea” (Montale, Kafka, Beckett…), consapevolezza che non manca allo stesso poeta, nella cui libreria figurano anche volumi di alchimia e esoterismo, e che di sé amava dire di essere figlio, non schiavo della Sicilia. 

Dai testi, nella sua tentata decifrazione del mondo e…nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, emerge un repertorio di temi e immagini per lo più in negativo: dalla “città” nebbiosa, piovosa, con case/celle e noi incastrati nell’ombra, dove l’erba avanza maligna, verde fuoco velenoso, e dove drappelli di uomini e bestie tornano a imprimere il loro transito nel mondo su una sempre vergine lapide di melma, alla visione di un universo “asimmetrico” in cui un divino problematico non muta mai in biada l’erba triste e agra. Dagli ossessivi ricordi militari e di guerra: quando snidarono la nostra/ colonia di pidocchi/ con l’orrenda parabola dell’obice/ fummo appena in grado/ di rigirare in mano le macerie/ contemplarle/ dedicare a noi stessi molta pena, alla “illusione” (sic!) di spazi aperti e liberi (esotici, primaverili o all’alba) dove però si annidano, vivo epitaffio nel cuore delle cose, microbi, o calano mosche al meriggio, o volano anatre verdi umide grigie/ impagliate…/ mille volte travolte dalla morte, per tornare infine alla lucida, ciclica, intuizione della “prigione metafisica” (Non si evade da questa stanza/ da quanto qui dentro non accade) che rende impossibile ogni uscita. Ricacciata l’ingorda/ l’ignorante speranza, una strana, visionaria, geometria unisce pertanto i rombi visibili sulla pelle del tonno ucciso a quelli della coltre domestica trapunta, così come l’aquilone ai quattro lati della solitudine del poeta (silloge Il buio,1973). In una intervista del 1976, Cattafi sottolinea opportunamente che la definizione più pertinente della sua poesia è quella che fa riferimento al problema esistenziale presente in tutti i suoi libri, problema che fra le altre metafore -possiamo aggiungere- ne registra una fra le più pregnanti nei “fichi invernali” che giunti inaspettati/ se ne vanno così/ come son venuti/ frammenti erranti/ nel vuoto e nel buio/ per un attimo colpiti dalla luce (“I fichi dell’inverno”).   

Anche la Sicilia nella raccolta de L’osso e l’anima (1964), con le sue matriarche dalle chiome corvine (“Le donne di Bagnara”), vive nei testi nella sua contraddittoria e dolorosa realtà: se il mare manda lampi di freschezza e la terra generosa di uva e frutti di stagione (“Un 30 agosto”) ambiguamente acceca con il bianco della camelia, del giglio, della magnolia, del gelsomino (“Colori del sud”), se l’omerico Ulisse incontrò nei suoi viaggi un’isola a tre Capi, ricca, fiera, boscosa dove poi vennero le agavi e le arance/ i paladini di Angelica/ i sonni sull’amaca (“Trinakie”), essa si mostra tuttavia decaduta rispetto al glorioso passato greco, arabo, normanno. Ridotta a semicolonia, a triangolo arido e natura brulla con monti che evocano tignose/ tarlate schiene d’asino (“Dal ferry-boat”), la Sicilia annovera fra i suoi abitanti e fra quelli delle vicine isole Eolie, un tempo attivi centri commerciali, o zappatori di terre malandate e pescatori di pesci marci (“Gli Eoliani”), o emigranti che arrancano portando via squallide masserizie (“Eredi della Grecia”). Emigranti che il poeta paragona altrove a lumache piccole tozze scure che cercano all’estero (e al Nord) mezza foglia di lattuga, velociste di una vana corsa ad ostacoli e di una dura integrazione: fanno i mille ad ostacoli/ con sempre più ostacoli/ finché muoiono (L’aria secca del fuoco, 1972). L’odissea spirituale di Cattafi non si blocca però sulle antinomie. E se per i siciliani si chiede: Possono ancora avere/ un posto nella City?, concludendo che dovranno penare, camminare,/ conoscere la Grecia (cioè “faticare” per tornare allo splendore di una volta), quanto alla tematica esistenziale nella poesia “Chi mi insegnò qualcosa(da L’aria secca del fuoco), pur se spolpata dalle labbra del mare e denudata nelle sue più intime fibre, all’autore appare non marcescibile (in metafora) “l’anima” dell’agave regina, simbolo del “continuum” misterioso dell’esistenza; e in “Costrizione(dalla raccolta postuma L’allodola ottobrina, 1979) considera Cattafi, in ossimorica analogia, solo “transitoria” la sosta terrena dell’insetto/uomo nel divampante segreto del papavero: Siamo ora costretti -scrive- al concreto/ a una crosta di terra/ a una sosta d’insetto/ nel divampante segreto del papavero. Il fiore purpureo dei prati siciliani, nella vivida accensione del suo colore, diventa per lui una espressiva, e per così dire “cruenta”, immagine figurale del mistero dell’Essere nella sua duplice dimensione di “visibile” e “soprasensibile”.

La lunga istanza religiosa dell’io del poeta, che già nel componimento “Dovunque” della raccolta Il buio (1973) confessa la presenza dell’essenza divina dentro di sé e nelle cose circostanti (sei in me e dovunque/ come un salnitro/ da gran tempo abiti anche i muri), e, parallelamente, la paziente ricerca della sua “scrittura” poetica (definita cespuglio a piccole foglie/ con alti e bassi di tono/ con cangiante divisa di stagione…), sempre minuziosamente e fedelmente indagante nel procedere del tempo il senso prossimo e ultimo della vita umana (mettere in linea retta/ le linee spezzettate), si ancoreranno alla fine entrambe a Dio, mistico centro ritrovato (tutto -scrive- ti è stato ammonticchiato dentro). Cattafi conosce molto bene il tormento novecentesco della inanità della “parola” a sgombrare la solitudine e l’angoscia esistenziale, tema qua e là affiorante e riaffiorante fino ai versi estremi della raccolta postuma Segni (1986): dalla mosca/bisillabo, semplice inchiostro-sulla-carta e perciò nostra aleatoria compagna, a tutte quelle altre parole di cui l’autore negli anni si è sempre circondato e continua a circondarsi (mi effondo mi circondo di parole/ copro colmo comando/ parole/ l’assenza certifico,/ attesto la finzione) e che gli restituiscono spicchi di mondo esterno/ scritti da cima a fondo/ con l’inchiostro e i caratteri dei nostri sentimenti, parole cioè delle quali ci nutriamo tautologicamente, noi sotto i denti di noi stessi. Tale tormento tuttavia sembra trovare il suo positivo superamento in un’altra serie di testi dell’ultima fase della vita, nei quali finalmente oltre ogni “illuministico ragionare” si illumina di altro fuoco e, in una dolce chiarezza, pare rendersi serenamente percepibile all’uomo e al poeta Cattafi, l’altro lato della vita: la “trascendenza”. Nasce così la poesia “Oltre”, in cui Dio si configura come l’unica meta appagante oltre l’inquieta tensione vitale e la morte: L’alfa e la beta per cominciare/ e va oltre/ troppo oltre l’omega/ l’anima inquieta. E si susseguono altri componimenti, nei quali l’autore “abbassa” programmaticamente le sue ali, umanamente raziocinanti ma a vuoto, e ora si mette ai piedi di Dio: libero lieve occhi socchiusi/ aspetto assorbo accetto/ dall’ultimo al primo i Tuoi soprusi, ora si rifugia, quasi in mistica attesa, nei simboli evangelici: tutto è lieve e smussato/ pane e vino/ con un mezzo sapore di eternità. Dopo averlo in passato inseguito attraverso altre allusive, controverse, simbologie (tra cui collocherei anche l’icona, l’idolo, la cara calamita dei versi finali della poesia “Tabula rasa, e quelle più domestiche e rusticane, ma di ”sacra aura”, del sapore di semi, della ruga che si spiana sull’arco della fronte, del pane sparito e rifiorito nel forno presenti ne “Il senso giusto, e simili…), Dio gli si rivela alla fine come il “centro” in cui si riavvolge, attraverso l’esperienza ultima della morte, il lungo filo del viaggio esistenziale del singolo individuo: e l’enigma è sciolto/ tutto in un filo/ il cammino allungato. Un individuo il quale può agostinianamente scoprire, alla maniera dell’ultimo Cattafi (e pacificarsi in tale verità), di essere nella propria sostanza/essenza di “uomo” -come si legge in “La Grazia”- schiatta di legna da ardere al buon Dio. In adorante offerta!

E va aggiunto a chiusura di questo breve excursus che all’attività poetica, vissuta novecentescamente come avventura, viaggio, scoperta, Cattafi accompagnò quella figurativa, con produzione di acqueforti e disegni quale sfogo compensatorio -afferma nell’intervista sopra ricordata del 1976- quando tacque in lui inspiegabilmente per otto anni, dal ’62 a un mattino di marzo del 1971 (per pazzia, blocco psichico, nevrosi, astenia, grafofobia? -si chiederà egli stesso), la poesia. Opere che sono state anch’esse espressione “biologica” -dice- di energie accumulatesi e sprigionatesi, questa volta, nella direzione delle forme e dei colori. I colori come equivalenti di quell’inchiostro che nella poesia “Creazione” viene metaforizzato quale una vena arteria in cui scorre/ a occhi chiusi (sic!) il mondo. 

 

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