Corrado Calabrò, "L’altro" (Ed. Thule) - di Domenico Defelice
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- Category: Scritture
- Creato: 07 Gennaio 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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A chi non è mai successo, almeno una volta, inavvertitamente, guardandosi allo specchio, di scoprire il proprio volto talmente mutato da risultare irriconoscibile, quasi quello di un altro? “M’incontro appena sveglio nello specchio/ed allibisco/dinanzi a un altro volto che mi guarda”, scrive Corrado Calabrò nel suo consueto stile evocativo.
È “L’altro”, il primo brano di questo piccolo gioiello che il poeta calabro/romano pubblica con Thule di Palermo a meno di due anni da che, nel luglio 2018, “l’Unione Astronomica Internazionale, su proposta dell’Accademia delle Scienze di Kiev, ha dato all’ultimo asteroide scoperto il nome di Corrado Calabrò per avere rigenerato la poesia aprendola, come in sogno alla scienza” (p. 38). La breve composizione reca la data dell’agosto 2019. Tutte le poesie sono datate, anche se non progressivamente; ce ne sono altre sei dello stesso anno e poi del 1992 (due), del 2007 (due), 2009 (l’ultimo brano del poemetto “Roaming”), 2012 (due), 2016 (uno); tutti gli altri sono del 2020, anno assai funesto per l’intera umanità, perché l’anno del Covid-19, nel quale – come scrive Win Wenders su Robinson del 31 ottobre – “è co me se i nostri sensi fossero parzialmente disattivati. Non è appagante vedere volti coperti dalle mascherine ed essere capaci di capire se stanno sorridendo o no (…) credo sia molto significativo, quasi ironico, il fatto che il coronavirus come primo effetto provochi la sparizione dell’olfatto e del gusto”; e Marco Belpoliti, sullo stesso periodico del 14 novembre: “Il Covid è la perfetta metafora di qualcosa che colpisce senza che noi possiamo vederlo, il corrispettivo di una economia guidata da regole invisibili che condiziona da lontano le nostre vite e a cui sembra non poterci in alcun modo sottrarre”.
Covid-19 non viene mai nominato in questa silloge di Corrado Calabrò, ma se intuisce la presenza da termini quali “staminali”, “c’immunizza”, “occhi smarriti”, “attoniti”, per cui si coglie una drammaticità latente, subdola, impalpabile, scioccante, proprio per la sua intangibilità, la sua imponderabilità. In “Manca qualcosa”, quel “fruscio di fondo che persiste/oltre le voci e gli occhi dei presenti” ha la potenza terrificante di quell’ombra biblica che, in Esodo (cap. 12) – ma forse anche altrove - striscia per le strade recante morte agli abitanti delle case che non siano segnate dal sangue dell’agnello; sembra serpeggiare inquietudine, per non dire terrore.
La presenza della morte è continua nei versi di questa raccolta; abbiamo quella della madre del poeta; quella futura, inevitabile – tutti siamo destinati a morire – del poeta stesso, giacché la morte è “il non senso della nostra esistenza”; quella della terra, che ineluttabilmente “Viaggia (…)/con la luna di scorta/verso la sua sorte”.
Ci sono, naturalmente, anche la donna e l’amore, nonché il fascino panico di certe sintetiche, solari descrizioni di fenomeni naturali, come nel brano “Self sense”, che riportiamo per intero, essendo anche breve: “Scrosciare ipnotico di pioggia/tutta la notte;/e adesso inonda il cielo, limpidissima/- et lux fuit! – l’alba.//Oh quant’è bella e improvvisa la vita!/Perché dovrebbe pure avere un senso?”.
“20 marzo” 2020 ci ricorda la primavera (il dannunziano “Ariete durocozzante”) che si annuncia prepotente come sempre e che - come scrive Quasimodo - “picchia la sua/ testa maschia contro alberi e rocce” e, anche in presenza del terribile Covid-19, rinnova la terra, incurante delle pene e degli affanni dell’uomo, spaurito da tutto quello che, ogni giorno, l’aggredisce e lo sciocca, costringendolo a mascherarsi, a tapparsi in casa, a scansare il proprio simile perché visto quale veicolo di morte; “l’ultimo giorno d’inverno” – dice il poeta alla madre – “s’aggrappa ai tuoi occhi smarriti”, occhi che sono il simbolo di tutta una umanità dolente e quasi senza speranza di riscatto e di ritorno al normale; occhi, che Covid-19 sembra, finora, non sia riuscito a aggredire.
Un libricino di poche pagine, questo di Corrado Calabrò, nel quale, a ben scavare, si incontrano assai più temi di quelli da noi fugacemente rilevati; una poesia sempre e comunque ad ampio spettro, niente affatto narcisistica, che investe molte problematiche, compresa - come da noi dimostrato - la pandemia che ormai da troppo tempo ci avvelena la vita; una collana confezionata in parte con brani tratti da altre opere, come il già ricordato poemetto Roaming, o La scala di Jacob, con la quale Calabrò ha vinto, nel 2017, la XXVII Edizione del Premio Letterario Internazionale Città di Pomezia,
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