“Esce l’ultima biografia su Joseph Ratzinger” di Pierfranco Bruni

L’inganno religioso e la cristianità come filosofia  spiegati da JOSEPH DOV BEER SOLOVEITCHIK nel  tempo di BENEDETTO XVI e della sua condanna dell’antiCristo
 
Esce in Germania l’ultimo libro su Benedetto XVI, ovvero il Papa emerito Joseph Ratzinger, con la sua ultima intervista rilasciata proprio al suo amico giornalista, dal titolo: “Le ultime domande a Benedetto XVI”  . E’ scritto da Peter Seewald. In Italia vedrà la luce nel prossimo autunno. Un libro molto forte e coerente con la cristianità della tradizione. Il Papa si racconta sulla crisi della chiesa mettendo “in pagina” la questione della omosessualità, dell’aborto, e sul “potere spirituale dell’antiCristo”.  Benedetto si dimise l’11 febbraio di sette anni fa (2013). Una data che ricorda molti incisi sul piano storico e politico.
Sottolinea Benedetto: “L’inganno religioso supremo è quello dell’Anticristo, uno pseudo-messianismo mediante il quale l’uomo si glorifica al posto di Dio e del suo Messia”. Molti cattolici di questo nostro tempo sono i dominatori di un pensiero radicale, relativista, debole e arrogante. Radicale perchè pensano di possedere radici antiche oltre altre civiltà. Il che non è vero. Relativista perchè sono convinti che gli aborti (terapeutici, di pensiero, di coscienza) vengono commessi sempre dagli altri. Il che è falso. Arroganti perchè sono convinti di possedere l'unica Verità. Il che è ridicolo.
Molti cattolici di questo nostro tempo si illudono di sentirsi cristiani, ma sono semplicemente affetti dal dramma di una irrilevante nostalgia. Pensano di vivere da radicali, considerano tutto relativo e sono desiderosi di non ascoltare altri se non se stessi. Il fatto è che siamo realmente dentro una storia cattolica finita. Una storia in cui l'intreccio tra gli uomini e i processi del sacro ha definitivamente segnato il crollo di un'epoca? Ma le epoche non crollano. Passano.
Gli uomini cadono dal loro palcoscenico e diventano marionette vere nella vita. Ci vorrebbe il coraggio dei pellegrini che camminano nei deserti per portar il silenzio e la voce di Cristo oltre il relativismo degli aborti combattuti dalla tradizione Paolina. Da qui bisognerebbe ripartire per condurre la pietà di Maria al centro del nostro diluvio e il Cristo nel cuore degli uomini coerenti della fede nella vita. In un tale messaggio si intravede tutto il percorso che va da, nella nostra contemporanea epoca, da Giovanni Paolo II a Benedetto XVI, il vero ultimo papa cristiano. Ma vado oltre, raccogliendo la lettura di uno straordinario filosofo ebreo tradizionalista qual è JOSEPH DOV BEER SOLOVEITCHIK.
L’uomo di fede vive di solitudine perché il suo viaggio è un viaggio alla ricerca del senso mistico in cui l’ontologia escatologica è sempre più un contatto con Dio. La solitudine ci porta costantemente a comunicare con Dio, quel Dio che non è teologico, che non è il riferimento di un modello ecclesiastico ma è sempre più una dimensione in cui l’ontologia dell’anima diventa la metafisica dell’essere.
Dio è metafisica dell’essere. Un dato centrale all’interno dell’uomo di fede in cui persiste l’umanità come “essere umanità” e l’essere umano come “comunità” dentro la propria coscienza. Temi importanti in cui rientra la dialettica biblica che ci fa comprendere come esista un uomo maiestatico e come esista l’uomo solitario della fede che diventa l’uomo dell’obbedienza nei confronti di Dio. Quando si diventa “uomo obbediente” nei confronti di Dio, questo uomo è il solitario della fede e quindi si allontana da una visione in cui dimorano le ragioni e dominano le essenze di una universalità.
Questioni molto forti che ci riportano alla costante dell’uomo di fede come il solitario, il viandante orante verso il legame stretto tra la profezia e la preghiera, perché la parola della profezia  appartiene a Dio. La parola della preghiera appartiene all’uomo ma guarda con forza a Dio. Ritorno sul concetto di visione (ossia il concetto metaforico della luce, dell’attraversamento oltre) per giungere a quella visione che rappresenta l’elevatezza della dimensione dell’assoluto.
Dobbiamo entrare in quella esperienza profonda e unica che è l’esperienza dell’”essere”, inteso come unicità della propria esistenza, della propria vita. Una esperienza molto distante dalla visione filosofica di Cartesio e di Kant perché “essere” e “pensare” non sono la stessa cosa. “Essere” non coincide mai con la sofferenza, come disse Schopenhauer, ma coincide sempre con il sottosuolo dell’anima, come ebbe a dire Dostoevskij. E questo sottosuolo dell’anima è, appunto, il processo mistico-sacrale in cui la coscienza diviene conoscenza di sé e diventa, in questo senso, la funzione che ha la bellezza.
Se Dio non diventa dentro di noi la bellezza, non può esistere la ricerca e non può esistere l’affidarsi. “Ricerca” e “affidarsi” sono due aspetti separati ma obbligati, perché quando non ci si affida o non si ha questo stato mistico o magico dell’affidarsi, occorre entrare in una dimensione in cui la ricerca diventa fondante.
Un grande pensatore del mondo ebraico è stato Beer Soloveitchik. Proprio in una sua elaborazione sulla solitudine dell’uomo di fede ebbe a scrivere: “ Mentre la solitudine ontologica dell’uomo di fede consegue da un ordito voluto e teso da Dio ed è in quanto parte del suo destino esperienza integrante e salutare, il particolare genere di solitudine esperita oggi dal contemporaneo uomo di fede a cui si è fatto riferimento all’inizio di questo viaggio è di natura sociale e risulta quindi essere esperienza malsana e frustrante”. Naturalmente il viaggio a cui si fa riferimento è quello alla ricerca della fede, alla ricerca di Dio, perché la ricerca di Dio è la ricerca della fede.
Beer Soloveitchik pone all’attenzione due aspetti di Adamo: il primo Adamo e il secondo Adamo. Egli sostiene che la dialettica biblica scaturisce dal fatto che il primo Adamo, l’uomo maestatico avvezzo al dominio e al successo, e il secondo Adamo, l’uomo solitario della fede, dell’obbedienza e del fallimento, non sono due persone diverse imprigionate in un eterno confronto tra un “io” e un “tu” che gli sta di fronte, bensì un’unica persona intimamente calata nel confronto con se stesso.
Secondo questo studioso esperto di sionismo, che ha saputo cogliere il senso dell’assoluto tra l’uomo errante e il pastore errante, è possibile constatare come, in termini anche psicoanalitici, in ognuno di noi convivano sempre due persone: il primo Adamo, quello maestatico e avvezzo che è lo stesso dell’Adamo creativo, e il secondo Adamo che è l’uomo umile, docile e dolce.
In questo cammino, che diventa un viaggio verso l’elevatezza alta dell’assoluto, si incontra il percorso definitivo che ci porta a Dio, il Dio dei credenti, della tradizione, il Dio divino della creazione. Questo Dio vive dentro l’uomo perché l’essere umano non può che scoprire la propria solitudine offrendo il suo sguardo e i suoi occhi, appunto, a Dio.
La solitudine ontologica dell’uomo che crede, dell’uomo di fede, è la solitudine dell’errante. Quell’errante che porta sempre verso la casa del padre, verso un ritorno. Ecco allora l’escatologia. Ecco, dunque, il viaggio mistico, l’errante che nel suo viaggiare, nel suo fallimento di restare tra la partenza e il ritorno (metaforicamente fermo su un porto, ma metaforicamente oltre), non fa altro che vivere la grande visione di Dio. La grande visione della luce.
Alla domanda “Chi è l’uomo di fede?” diventa sempre più complesso rispondere. È sempre più complicato dare un senso a questa prospettiva che si apre in un dialogo costante con Dio. L’homo faber e l’homo religiosus hanno la necessità di dialogare e in questo dialogo la solitudine diventa la persistenza escatologica verso la fede.
Il mistico, il filosofo, il teologo. Tre aspetti dell’uomo dentro la fede e queste atmosfere, questi riflessi che sono e danno la capacità di elevarsi oltre la persona stessa, non fanno altro che condurci e condurre loro stessi verso una parola in cui profezia e preghiera ci dicono che Dio e l’uomo devono comunque vivere profeticamente il senso escatologico.
Il mondo profetico deve confrontarsi con quello orante e in questo confronto c’è la connotazione di trovarsi di fronte a questo Dio. Soltanto in questi termini possiamo condividere l’idea che Dio non muore, che Dio c’è. Solo davanti a queste connotazioni mistiche, che non sono teologiche, possiamo avere la responsabilità, l’umanità, la regalità nei confronti di una universalità che si chiama “essere nel credo” senza affidarsi al vivere perché penso.
Il fascino del mistero e la solitudine dell’uomo di fede sono dentro questo paradigma in cui Beer Soloveitchik ha ritrovato la sua dimensione. Quella grande dimensione che è parte integrante dell’esistenzialismo cristiano di Kierkegaard e che trova poi nel pensiero dialogico di Buber l’eco di un pilastro in cui la chiave non è solo la riflessione, ma è la tradizione religiosa vivente. Questa tradizione religiosa vivente è, appunto, l’uomo di fede che centralizza Dio e che si centralizza in Dio per restare nella solitudine della contemplazione perché in essa c’è sempre la visione dell’erranza di un Dio che sta al di là di tutto.
Dio universale. È in questo la solitudine dell’uomo di fede. Benedetto XVI ebbe a scrivere: “La vera minaccia per la Chiesa (…) non risiede in queste cose, bensì nella dittatura mondiale di ideologie apparentemente umanistiche, contraddicendo le quali si resta esclusi dal consenso sociale di fondo”. Un messaggio che entra nell’uomo di fede con grande misticismo e fede.
 
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