Eutanasia? No grazie! – di Domenico Bonvegna

Tra i “Nuovi Diritti” sbandierati dalle sinistre, c’è quello dell’eutanasia, il suicidio assistito da parte dello Stato. E’ stata oggetto di discussione alla Camera dei deputati, la proposta di legge per legalizzare l’aiuto al suicidio e all’eutanasia, relatore l’on. Bazoli. A sostenere le tesi eutanasiache troviamo in prima fila le sinistre e in particolare l’Associazione Luca Coscioni, che ha raccolto le firme per il referendum abrogativo della norma del codice penale che punisce l’omicidio del consenziente e quindi di rendere la vita un bene disponibile.
Nel 2021 all’interno del Centro Studi Rosario Livatino è nato un interessante saggio, Eutanasia. Le ragioni del NO. Il referendum, la legge, le sentenze”. curato da Alfredo Mantovano, con i contributi di Francesco Cavallo, Francesco Farri, Carmelo Leotta, Andrea D:M: Manazza, Domenico Menorello, Daniele Onori, Roberto Respinti, Mauro Ronco, Giuliana Ruggieri, Angelo Salvi, Aldo Rocco Vitale. Il saggio è stato pubblicato dalla casa editrice Cantagalli (pag,302, e.20,00) Gli interventi forniscono una lettura, agganciata al quadro normativo, dell’oggetto del referendum, prospettando che cosa ne conseguirebbe in caso di approvazione, e fornisce al tempo stesso un commento, articolo per articolo, della proposta Bazoli all’esame in Parlamento, confrontando le più recenti acquisizioni mediche con le categorie adoperate per privare “legalmente” della vita un ammalato, o chi formula una mera richiesta di essere soppresso. Inoltre il testo offre un quadro di quel che è accaduto negli ordinamenti europei come l’Olanda. Un testo sicuramente prioritario per gli esperti e chi opera in campo medico, scientifico e giuridico. Ma anche per chi vuole capire la deriva eutanasica a cui ci stiamo avviando anche nel nostro Paese. Ogni capitolo del testo della Cantagalli fa riferimento al dottor Lucien Israel, celebre oncologo francese, al suo testo del 2007, pubblicato da Lindau, “Contro l’eutanasia”.
“L’eutanasia legalizzata rappresenta la rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, ormai, pronipoti, visto che stiamo per diventare una società a quattro generazioni, sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi. [...] Quando i ‘vecchi’ non in grado serviranno più, che siano depressi o che ancora non abbiano trovato il reparto medico in grado di non farli soffrire, si deciderà che è tanto semplice, e persino più caritatevole, sbarazzarsene”.
Con l’eutanasia non solo si lede la vita, ma per Israel è la chiusura di un cerchio. A proposito del “suicidio demografico”, di cui ha parlato per la prima volta Giovanni Paolo II nel 1985, quando mostrava che la denatalità e la senescenza demografica, sono fonte di involuzione, di preoccupazione, “soprattutto perché osservata in profondità, essa appare come il grave sintomo di una perdita di volontà di vita e di prospettive aperte sul futuro e ancor più di una profonda alienazione spirituale”. Infatti, “all’opzione del rifiuto delle nascite corrisponde l’incremento della popolazione anziana, col correlato carico di spese e di assistenza, non soltanto sanitaria: mascherata come ‘diritto’ a morire con dignità, l’eutanasia assurge allora a strumento per rimettere a posto lo squilibrio generazionale, attraverso l’eliminazione di chi non produce ed è fonte di sprechi”.
In pratica nel saggio si parla di una corsa al “diritto di morire”, che corrisponde al “dovere di dare la morte”. Si può tranquillamente parlare di un capovolgimento antropologico, che è intervenuto negli ultimi cinquant’anni. E questo si può vedere nell’uso strumentale delle parole, così l’aborto viene qualificato addirittura come “tutela sociale della maternità” (Così intesa la Legge 194). Alla faccia della “tutela”, una Legge che ha impedito di nascere a sette milioni di bambini, quando il vocabolo più giusto sarebbe dovuto essere “uccisione”. Con l’eutanasia, avviene la stessa cosa, si ricorre ad eufemismi, o a termini edulcorati di uso orwelliano come “buona morte”, “morte dignitosa”, e perfino “dolce morte”, ma ormai si usa anche “suicidio”. E’ il cerchio che si chiude in Occidente, che dopo aver tagliato le radici del passato, ormai certifica il suo fallimento con l’eutanasia.
Aborto ed Eutanasia vanno insieme, entrambi sono “leggi” di morte. Del resto se è ammessa l’eliminazione dei bambini innocenti e “non desiderati”, perchè bisogna salvare i vecchi sempre più numerosi, “inutili” e, per giunta, gravanti sulle casse dello Stato. In Italia gli over 65, sono 13 milioni, a fronte di appena 7 milioni di ragazzi.
Cerco di presentare alcuni capitoli del libro per capire la grave deriva a cui stiamo assistendo. A cominciare dal ruolo fondamentale dei medici che dovrebbero salvare le vite umane obbedendo al giuramento di Ippocrate, invece si prestano al ruolo di sicari come ha ben detto Papa Francesco per l’aborto, ma credo che valga anche per il suicidio assistito. Sostanzialmente si è passati dalla tradizionale cultura dell’essere-per-la-vita, di matrice cristiana, alla cultura dell’essere-per-la-morte. Dagli studi e dall’esperienza dei Paesi dove è stata legalizzata la morte assistita, praticamente è impossibile impedire il cosiddetto “pendio scivoloso”, per cui si comincia a praticare la morte per chi la richiede e si finisce per praticarla anche a chi non l’ha richiesta”.
Insomma, secondo il testo curato da Mantovano, “la morte assistita, non sempre è un atto autonomo, volontario, dignitoso e consapevole, poichè spesso la richiesta proviene da soggetti che versano in particolari condizioni psicologiche, sociali ed esistenziali che mettono in dubbio proprio i requisiti di autonomia, volontarietà e consapevolezza della richiesta di morte assistita”.
Per quanto riguarda le cure palliative, anche quando il malato non può guarire, il malato può essere curato, è possibile prendersi cura della persona ammalata nella sua totalità, accompagnandola verso una morte dignitosa. Pertanto come scrive Israel, “l’esistenza stessa dell’anestesia chirurgica prova che non esiste dolore del quale non si possa venire a capo”.
Anche durante la sofferenza il malato va considerato come una persona, sempre come un fine e non un mezzo. Serve una comunicazione fondata sulla verità, fatta innanzitutto di ascolto e quindi di corretta condivisione su diagnosi, prognosi, possibile efficacia dei rimedi applicabili. Certo occorre alleviare il più possibile il dolore del malato. Occorre accompagnare una persona verso la fine della sua vita, anche con la sua sofferenza. “La persona non coincide con la sua malattia e la sua umanità è di più del suo corpo”. Il testo consiglia di vivere in un contesto ambientale che non sia solo ospedaliero, ma che abbia caratteristiche di accoglienza familiare, soprattutto per quei malati che sono costretti ad una lunga degenza.
Certamente la sofferenza fisica può risultare oggettivamente ineliminabile, tuttavia la pena che essa genera può essere accolta e accompagnata, in un con-patire, soprattutto a livello esistenziale e psicologica. Mostrare premura, vicinanza e dialogo, può fare la differenza e migliorare la qualità della vita del malato. Il testo in pratica sostiene che prima che il corpo sociale precipiti nel baratro a cui conduce la deriva eutanasica, “ciascuno è chiamato a fare la propria parte per contribuire a invertire la rotta verso la civiltà della vita”.
Due capitoli meritano una certa attenzione per comprendere la deriva antropologica a cui ci siamo consegnati. Il capitolo 11 e 12.
“Dove l’eutanasia è legge. Dal ‘diritto’ al ‘dovere’ di morire”.
“Questo rifiuto della malattia e della morte - scrive Israel - che [...] sarebbe alla base della richiesta della legalizzazione dell’eutanasia, non lo si osserva nelle persone semplici, ancora capaci di sentire il loro cuore [...] Non esistono militanti della morte legalizzata nel terzo mondo, né nelle antiche civiltà in cui persiste il senso del sacro [...] Questa idea di uccidere i malati per rispetto è una scoperta degli intellettuali occidentali.
La questione dell’eutanasia non riguarda solo la libertà di autodeterminazione dei singoli individui, il problema riguarda tutti. Una volta che viene introdotta la legge, “sarà naturale la progressiva emersione a livello sociale di una ragionevole aspettativa che il soggetto che si trovi nella posizione di ottenere il trattamento eutanasico eserciti effettivamente tale ‘diritto’ e chieda, quindi, di essere soppresso”. In questo modo praticamente il malato che trovandosi in una posizione da ottenere il diritto all’eutanasia, e se decide di non esercitarlo e di continuare ad essere curato, si trova nella condizione di “giustificare socialmente la propria scelta, che si presenta come ‘deviante’ rispetto alla soluzione ordinaria che l’ordinamento gli mette a disposizione attribuendogli il diritto a morire in sede protetta”.
Gli esempi che il testo fa di persone che si sono trovate in queste condizioni sono abbondanti. I casi Foley e Candice Lewis. I medici in più occasione avevano consigliato di accedere al trattamento eutanasico e non comprendevano perchè preferivano continuare a sopravvivere.
Sostanzialmente secondo questa logica si può immaginare che i malati soli e depressi o particolarmente fragili, cedono di fronte all’aspettativa sociale che si crea intorno a loro. “La percezione dell’’inutilità’ sociale sarà il vero parametro ultimo di esercizio del diritto dell’eutanasia [...]”. Tutto questo avviene nei Paesi di più lunga tradizione eutanasica come l’Olanda e il Belgio. Qui “il numero dei soggetti che richiedono la soppressione cresce, auto-alimentandosi per emulazione, e viene a estendersi a depressi o semplici anziani che ritengono compiuto il loro percorso di vita”.
Pertanto il “pendio eutanasico” riguarda tutti. Poiché si passa dal diritto individuale a quella sorta di generica “doverosità” sociale, in cui si traducono i passaggi  precedenti, “a un vero e proprio dovere giuridico di morire”.
Il libro insiste su questo punto. “Già il trovarsi a motivare la propria scelta è un passaggio socialmente gravoso e spiacevole per l’interessato, chiamato a rendere conto e a giustificare il proprio comportamento”.
Addirittura nel momento in cui si attribuisce a certe tipologie di malati il diritto all’eutanasia, di conseguenza “si genera l’aspettativa sociale che tale diritto sia esercitato”.
Il testo fa riferimento alla possibilità che si dia forma ad una specie di sindacato pubblico per verificare la scelta “deviante” dei soggetti, che potendosi avvalere del diritto di essere soppressi, decidono di non avvalersene e di rimanere in vita fino alla morte naturale. Così il sindacato si interessa del soggetto che vuole essere mantenuto in vita, nel momento in cui la sua vita non è ritenuta più degna di essere vissuta, il sistema lo qualifica come indegno, e quindi si mette in contrasto con l’ordinamento dello Stato. “Da diritto, la morte dei soggetti indegni di vivere diviene così direttamente un dovere di morire nel momento in cui essi perdano le capacità di intendere e volere e siano, così, suppliti nelle loro manifestazioni di volontà da amministratori, medici e giudici”. I casi a tutti noti dei bambini  soppressi con l’odioso argomento che ciò sarebbe avvenuto nel loro stesso migliore interesse come Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup e Pippa Knight. Morire per il miglior interesse pubblico, perché così si risparmia la spesa sanitaria. Il malato che non si avvale dell’eutanasia diventa un egoista. Come chi ha contratto il Covid, senza essere vaccinato, si pensa di imporre loro il pagamento delle cure. Il malato “è colpevolizzato come “egoista”, nella misura in cui richiede alla collettività di impegnare risorse per accompagnarlo nel tempo a un percorso mortale lungo che, con l’eutanasia, potrebbe essere accellerato con conseguenti risparmi di risorse e soldi per il sistema sanitario”.
Pertanto, la persona che persistesse nel proprio proposito contro l’eutanasia, lo Stato potrebbe sentirsi legittimato a ugualmente negargli le cure considerate inutili, anche contro la sua volontà di riceverle. Così secondo questa logica, porterà a termine la propria vita, solo chi potrà permettersi assistenza e cura a proprio carico. Quindi “l’ordinamento eutanasico renderà la morte, non più ‘una livella’, ma l’ennesima occasione di discriminazione tra ricchi e poveri”.
Le basi ideologiche della deriva eutanasica sono da individuare nel darwinismo e nella cultura del T4, nazionalsocialista della Germania hitleriana.
Chiaramente “l’obiettivo che si pone la legalizzazione dell’eutanasia è quello di ingenerare nella popolazione la convinzione che scegliere l’eutanasia sia una sorta di ‘dovere morale’ nel momento in cui la persona comune non è o non si percepisce più come utile per la collettività e, quindi, si sente un peso per gli altri e per il sistema sanitario pubblico”.
Del resto perché mai sottrarre risorse pubbliche per questi “egoisti”? Che si ostinano  a voler sopravvivere in una condizione di vita comunemente ritenuta non degna. Comunque come abbiamo sostenuto prima la legalizzazione dell’eutanasia individuale volontaria è una questione che attiene alla sicurezza e all’affidamento di tutti, è una questione che riguarda anche i malati che vorrebbero sopravvivere. Fino ad oggi, il malato che giunge in una struttura di cura ha la sicurezza che il personale sanitario è tenuto per quanto gli è possibile per salvargli la vita. “Se verrà legalizzata l’eutanasia, questa basilare sicurezza verrà a mancare, per tutti i malati: anche per quelli che vorrebbero continuare a sopravvivere”. Non posso troppo dilungarmi, le pagine che seguono del libro sono le agghiaccianti testimonianze che provengono da quei Paesi (Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, Svizzera, negli Stati americani) dove è presente l’eutanasia e il suicidio assistito. Questi ordinamenti dimostrano emblematicamente come dal diritto di morire si passa all’aspettativa del suo esercizio e come dall’aspettativa sociale del suo esercizio si passa “alla imposizione giuridica dell’eutanasia anche contro la volontà personale dei malati ‘inutili’”.
Il testo curato da Mantovano si chiude con il capitolo (Ideologia eutanasica, sacralità della vita) “I malati si aggrappano alla vita - scrive Israel - si deve sperare che anche le società malate tengano alla loro sopravvivenza, e che nasca una terapia sociale basata sulla prevenzione attraverso l’educazione e la trasmissione dei valori”. Giovanni Paolo II nella Lettera Enciclica Evangelium Vitae, ha scritto che il valore della vita ha subito nella società contemporanea  una specie di "eclissi" e in molti casi si può parlare benissimo di una vera “cultura della morte”.
 
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