Fabio Granata, "Oltre" - di Marco Iacona

La filosofia nasce politica, ovvero maritata alla politica. Con Platone, perfino col suo “maestro” (e maestro di tutti noi), il greco che sapeva di non sapere e che per ciò stesso era il più sapiente tra i mortali. “Politicare” senza sapere anzi senza amare il sapere equivale a “leghizzare” la politica (ricordo ancora con… fastidio la visita di Matteo Salvini a Catania – lo ricordo in Comune con Salvo Pogliese – il quale “sicuro” di trovarsi in uno spazio da tribù e non nella terra del logos espettorava sciocchissimi e applauditi mantra del tipo: “noi siamo per la politica del fare…”, “noi facciamo…”, “noi faremo…” eccetera), equivale cioè ancora a svendere la politica al peggior offerente e al primo blablaista sul mercato delle non-idee.

Fabio Granata, assessore a Siracusa, che fa della cultura la sua ragione di vita tutto questo lo sa bene. E nel suo ultimo libro - “Oltre”, Apalόs 2024 - affronta taluni argomenti scottanti della contemporaneità, il mondialismo livellatore in primis, giovandosi della forza del ragionamento e della moderazione dialettica. Moderazione dialettica appunto – per Platone la dialettica era la “pericolosissima” arte del… macellaio: tagliare la carne seguendo le nervature e con la dovuta perizia – ma im-moderatezza e originalità nelle idee. Gli stessi filosofi cattolici insegnano che l’interrogazione filosofica o s-peculativa fa a pugni con talune “mode” (le chiamo così) della modernità; tra queste la cosiddetta glorificazione del lavoro, lavoro inteso come dispotica organizzazione del tempo personale (che di personale non ha nulla però) o per dirla con Spengler e con Jūnger era della civilizzazione assoluta.

Anche se di difficile svolgimento e soluzione l’equazione modernità = liberismo è presto fatta e in luoghi e tempi nei quali il mercato (con le sue… regole) sembra tutto, il tutto alternativo della bellezza non svanisce dalle prose degli intellettuali sensibili e responsabili per natura. Anche per questo il libro di Granata presenta se stesso come atto riflessivo poggiante sui solidi pilastri argomentativi del re-incantamento del mondo. Max Weber molti anni fa accarezzava il pensiero che detto re-incantamento fosse viepiù necessario intendendo il fare burocratico come tomba della nostra stessa ragione. La politica (meglio: il potere) si è facilmente impadronita di tale parola d’ordine – cioè del dis-incanto – e ha creato una società di enti macchinizzati (cioè gestibili) privati delle ragioni “ideologiche” delle più comuni identità, vale a dire dei tradizionali antidoti alla cosiddetta cultura o mercato del “nuovo”.

Di due “generi” possono essere le reazioni a tale stato di cose (io direi: mortale): la chiusura in un solipsistico culto della propria personalità, l’auto-adorazione della propria purezza ovvero l’auto-sovranità del proprio Io (empirico e da individuo assoluto) nell’attesa che… qualcosa muti (magari qui e lì proponendo le soluzioni di un passatismo… miracoloso), oppure l’idealistica creazione di un “qualcosa di nuovo” epperò in linea con una tradizione che ha fatto (e fa) dell’Italia – di questa si parla – un paese unico al mondo. In primo luogo lo stile (letterario e artistico) e l’inventiva italiana che affondano la loro origine nell’Umanesimo e nel Rinascimento. È lì che l’Italia è diventata… Italia, ben prima cioè che perniciose correnti moderne scagliassero su un corpo impreparato le forze tutte dei venti e delle tempeste. L’Italia è (vera) Italia ben prima di quello “strambo” 1861 (un 1861 che non seppe affatto renderle… giustizia); Granata da apprezzabile studioso lo sa bene e in centocinquanta pagine lo dice e riconosce con l’eleganza (innata) di un pensatore del sud.

 

 

 

 

  

 

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