Giacomo Calvaruso, "Un costante divenire più che diventare" (Ed. All'insegna dell'Ippogrifo)

di Giovanni Teresi

 

 

 

L’autore Giacomo Calvaruso con  “Un costante divenire più che diventare” riconduce l’individuo al suo normale approcciarsi con l’ambiente circostante e fa scoprire che l’età, non quella biologica, è solo un fatto di testa.

Il percorso di riflessione su come si sviluppa e diviene il soggetto nel corso della propria esistenza,  intesa come "movimento verso il prendere qualitativamente in mano la propria vita", si intreccia inevitabilmente con il divenire del percorso di formazione teorica, di esperienza clinica, ma anche di analisi e vicissitudini personali.

L’io-soggetto, metaforicamente definito come un sistema complesso in costante attività di auto-eco-organizzazione, provvede a riequilibrare la sua stessa coerenza nel corso del divenire della sua esistenza e nella reciproca interazione con altri sistemi.

L’autore, nel paragrafo “Colui che ricerca”, asserisce che “siamo noi che vediamo, noi che mangiamo, noi che facciamo la crociera, e non la crociera che ci rapisce. Diventiamo un tutt’uno con le cose. non ci facciamo adoperare ma adoperiamo … Dimenticando chi siamo, si stravolge tutto il corso dell’esistenza, finendo per rimanere continuamente insoddisfatti.”

L’uomo libero  è quello che non si chiude alla libertà, situazione nella quale scaturisce invece l’angoscia per la possibilità infinita. Da ciò consegue che la forma più alta di educazione deve essere ispirata dalla possibilità, poiché solo un’educazione del genere prepara ad accettare le conseguenze dei propri atti. L’educazione deve essere dunque sempre in funzione del possibile e non del reale, nel senso che si deve operare rimanendo fedeli alle proprie scelte che non dovranno essere calibrate sulla dimensione finita delle cose.

Il Nostro continua a pensare che “ è folle colui che dimentica se stesso, colui che apprende un sapere senza appartenere ad esso. Più ci si dimena in nuove e complicate spiegazioni e maggiore sarà il nostro grado di insofferenza”.

Lo stesso Aristotele, studiando l’essere in quanto essere, l’essere in generale, abbraccia e scruta dall’alto di un orizzonte più ampio le altre scienze.

Aristotele definisce l’uomo come zoon logon echon oltre che politikon: come sono scandagliabili questi aspetti, attraverso la nuova scienza della mente e i suoi prodotti. Da una parte l’Animalitas, dall’altra la razionalità che si estrinseca attraverso il linguaggio, che a sua volta è sempre teso verso altri, è socialità e condivisione di uno spazio comune. La scienza allora comincia a elaborare e a esprimere le proprie teorie sull’uomo attraverso gli artefatti, le simulazioni o i robot: la robotica è dunque uno strumento di ricerca della nuova scienza della mente, oltre a essere una tecnologia utile per una serie di applicazioni pratiche. 

Il cervello infatti “non interagisce soltanto con l’ambiente esterno […] ma anche con quello che sta dentro il corpo, e il comportamento, specialmente nelle sue componenti dinamiche, motivazionali, emotive, più che in quelle strettamente cognitive, dipende dalle interazioni del cervello con gli organi e i sistemi interni del corpo”.

Giacomo Calvaruso afferma che “Se fermarsi deve essere una necessità, parlare di “sapere di sapere”, impone necessariamente prendere atto di qualcosa che ferma il pensiero … Occorre avere una nuova visione delle cose, per poi rivedersi allo specchio in maniera più serena, confermando a se stessi che in fondo le cose già le sapevi. … Percepire se stessi e comprendere di sapere. Sei lo stesso di prima, ma non come prima. Sereno, armonico, affabile, almeno verso di te.”

 La tesi della pluralità degli io svolge un ruolo decisivo nella critica al modello cartesiano dell'ego sostanziale, al quale Nietzsche contrappone l'attività anonima del cogitare. È il corpo che produce l'io: "'Io' dici tu, e sei orgoglioso di questa parola. Ma la cosa ancora più grande, cui tu non vuoi credere - il tuo corpo e la sua grande ragione: essa non dice 'io', ma fa 'io'" (Z, 36 = 34).

Da qui, riflessioni, dubbi, domande, ipotesi che mi hanno portato l’autore a riavvicinarsi alle opere di filosofi come Nietzsche e Heidegger nel cercare di trovare una mia posizione teorica e clinica nel difficile equilibrio tra il preservare un’idea di Io-soggetto come presente a se stesso e attivo e il rispettare con onestà il ruolo dell’altro, del mondo e della ‘realtà’ nel sostanziare la nostra esistenza.

Così, il Nostro, nella sua riflessione filosofica, scrive “… riflettendo, scopro che quel poco o tanto delle cose che ho scritto s’intrecciano l’una con l’altra. Come una sequenza musicale … Se la meta trovata era colui che cercava, viene da se nel comprendere che in questa nuova fase di se stessi, è la mente che regola il corpo e non viceversa. L’io prima che il corpo guida la mente. La gioventù in contrapposizione alla vecchiaia ha dato il senso di questo testo …”

Quindi, non un semplice affermare punti di vista o un'indagine su chi ha torto o chi ha ragione per affiliarsi poi al pensiero che sembra il migliore, ma, nell'ottica del partire da se stessi, come sottolinea Giacomo Calvaruso, un tenere aperta la possibilità processuale del divenire di un pensiero in movimento, affermato con onestà e rispetto per sé e per gli altri: “La sfida era “combattere il buio e uscire dal niete”. Quel niente era credere che si diventa vecchi, che vent’anni rappresentano il meglio, che il tempo guarisce le ferite, poi però ne cancella le tracce dalla storia.”

 

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