“Dal poeta al filosofo: il simbolico ermetismo e l’emblematico esistenzialismo nella scrittura creativa di Giuseppe La Spina” di Maria Patrizia Allotta

 

 

Giuseppe La Spina - ufficiale dell’Esercito Italiano, professore presso la Facoltà di Ingegneria, appassionato di letteratura e di fotografia, più volte, meritatamente, premiato per la sua scrittura creativa - quasi in punta di piedi, ci fa dono della sua ultima raccolta poetica dall’emblematico titolo Per aspera … alla mia Bufera, edito da Leonida Edizioni, con un’attenta e puntuale prefazione di Jana Carcara.

    Un dono, si diceva, prezioso e raro, elargito sia a ogni possibile lettore, sia ai piccoli sordo-ciechi e pluriminorati che si trovano sotto la tutela della Lega Filo d’Oro, considerato il fatto che l’intero ricavato relativo alla vendita del sopracitato testo poetico sarà devoluto a questa nobile realtà che si prende amorevole cura di quei delicatissimi piccoli che non vedranno mai il sole.

    Va subito detto che Giuseppe La Spina è un poeta autentico, libero, vero. La sua poesia ditta dentro e non conosce giravolte, né orpelli, neppure artifizi, fronzoli e maschere.

    Siamo in presenza di una scrittura chiara, limpida, semplice, immediata, a volte ermetica ma mai banale.

     Nei suoi versi non troviamo nessuna rigida impalcatura morfologica e sintattica di stampo esageratamente classicheggiante, mentre si denota, di contro, una significativa libertà stilistica fatta, oltre che da parole ricercate sussurrate a fior di labbra - che, tuttavia, gridano forte - anche di ritmi armoniosi, di pause necessarie e di silenzi che, comunque, urlano in uno spazio e in un tempo indefinito.

    Nella scrittura di Giuseppe La Spina, dunque, non c’è posto per le mode letterarie bizzarre, né per le voghe alternative ma inconcludenti, neppure per le forme d’intimismo esasperate fine a sé stesse, piuttosto, rintracciamo autentico pathos e autorevole ethos. Inoltre, non si scorge l’interesse per il parziale o per il particulare, né per il soggettivo, oppure per l’individuale. Certo, tutte le liriche partono da ricordi individuali, da nostalgie personali, da un dissidio intimistico privato e segreto, ma divengono poi parola universalmente appassionante, unanimemente coinvolgente, totalmente toccante.     

     Dal particolare si arriva all’universale secondo una prospettiva in verticale, di certo non orizzontale, che partendo dall’immanente giunge al trascendente. E, in effetti, non c’è spazio per il relativismo, ancor meno per il sensismo e il materialismo, né per l’ottuso criticismo negatore di ogni istanza metafisica, o per i facili entusiasmi falsamente egalitari, democratici e libertari.

     La parola lirica di Giuseppe si basa su una sorta di Idealismo di stampo trascendente che vede nell’io un’entità creatrice unica e infinita capace, se vuole, di conoscere e praticare e, soprattutto, d’immaginare e sognare.

    Ma non è tutto. In Giuseppe La Spina ciò che più piace è quell’insolita metamorfosi che si coglie lungo le pagine del libro. E, infatti, da poeta il Nostro si trasforma in filosofo. Sembrerebbe, più esattamente, uscito dalla scuola di Mileto e, quindi, concentrato circa la ricerca dell’archè, ovvero di quel principio capace di spiegare la genesi di ogni ente e del suo contrario: la gioia e il dolore, il bello e il brutto, l’unione e l’abbandono, la compagnia e la solitudine, la vita e la morte. Importante, risulta l’invocazione gli elementi naturali quali il sole “che non sorge”, il mare “ormai stanco”, la luce “che lenta, infinita, esplode là nel buio muro di spazi”, le stelle e, ancora, l’alba “che ha invertito il suo andare” e quei tramonti che “ormai mancano”, tramonti capaci di “spiegare l’illusione di un sogno, il senso dell’abbraccio e il percorso di un bacio” e quel vento che “spinge l’ardire” capace di “ascoltare il sussurro di un bacio!”.  

     Un filosofo cosmologico, ma anche un esistenzialista capace di soffermarsi sulla incomunicabilità, sul desiderio mai appagato, sulla verità sempre in fuga, sul sogno irraggiungibile; un filosofo capace anche di ricordare che “la felicità abita nelle piccole cose percorse con animo innocente”, quasi a volere dimostrare oltre la sacralità del sacro percepibile in qualunque ente, quel certo panteismo insistente che nobilita gli stessi versi.

  Infine, degno di nota appare quell’evanescente messaggio etico, mai dichiarato tale, eppure straordinariamente costruttivo ed epifanico.

    E in effetti, la ricerca del senso e del nonsenso, l’importanza delle rimembranze, l’esaltazione dei veri valori umani, la sublimazione dell’“io” e del “tu” e la ragion d’essere di ogni ente, ci riconducono, inevitabilmente, ad un significativo messaggio morale. Infatti, nonostante “le monotonie ossessive e perverse sempre”, “la strada che è solo pietra sassi e sabbia arida”, la “rabbia di non essere” e, ancora, “avevo scordato di vivere e “ho ammirato albe ma vissuto tramonti”, rimangono vivi quei versi fortemente propositivi ed epifanici quali: “dipingerò finché avrò tela e colori, canterò finché avrò scampoli di voce, sussurrerò finché … finché avrò il tuo coro”, “un attimo che diviene, un dono, una vita”, “abbracci di galassie lontane” e, ancora, “coprire il tuo corpo di sguardi o di carezze o di baci o riempirti di me”, “l’amore vince anche quando perde”, “l’eco dell’anima e l’intermezzo dell’Amore”, “una carezza lunga, lunga, bianca, lasciva” e “corpi abbracciati dalla sabbia che intrecciano meridiani di stelle”, “domani sarò ancora per rinascere fenice” e, infine, “domani sarò ancora polline ricco di futuro”

   E, poi, quel verso che cancella ogni dissidio interiore che così si innalza: “vorrei solo te mia Amata”.   

  Al di là di un possibile nichilismo, quindi, troviamo il desiderio di vivere, di contemplare, di amare - comunque e nonostante - in una visione ancestrale che diviene alto magistero d’impareggiabile bellezza.  

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