Il “genius loci” nella testa dell’intellettuale militante – di Ciro Lomonte

Secondo gli antichi romani ogni luogo, naturale o artificiale che fosse, era protetto da una specie di nume tutelare. Anche Palermo ne aveva più di uno. Quello romano fu riesumato dagli umanisti. La credenza pagana nel genius loci è riconducibile a quell’aura peculiare che rende unici molti contesti. A tale fenomeno si riferisce un’opera di Christian Norberg-Schulz (Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura) apparsa nel 1979 e divenuta subito importante nell’ambito del dibattito architettonico contemporaneo. Il genius loci, lo spirito del luogo, sarebbe la sua identità perenne, caratterizzata da orientamento, riconoscibilità e carattere. L’autore norvegese indaga i rapporti tra l’architettura e l’ambiente e, più in particolare, le implicazioni psichiche ed esistenziali dell’abitare.

Debuyst, teologo e liturgista, restringe il campo di osservazione a chiese e monasteri. Il benedettino belga individua le proprietà specifiche dell’autentico luogo cristiano nelle domus ecclesiæ del III-IV secolo e nell’aggregazione di semplici case (celle) tipica dei monasteri, ben inseriti nella natura. Considera pertanto spurie tutte le architetture monumentali, in cui predomini la decorazione oppure un linguaggio troppo individualista (nel caso dell’architettura moderna). Risulta un po’ misterioso l’apprezzamento di Debuyst per le basiliche paleocristiane, che hanno assunto l’aspetto di case disadorne e spoglie a lui tanto caro soltanto dopo i pesanti restauri subiti nell’Ottocento e nel Novecento.

L’autore mostra grande interesse per le chiese di Emil Steffann e per l’opera del grande teologo italo-tedesco Romano Guardini, che anticipò la Riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Guardini ispirò la sistemazione del castello di Rothenfels sul Meno, il grande centro della gioventù cattolica tedesca, il Quickborn. La riconfigurazione venne completata nel 1929 dall’architetto Rudolf Schwarz, insieme ai suoi amici del Bauhaus. L’amore per il rigore e la scarnificazione da ogni ornamento, criteri propri della scuola diretta da Gropius, guidarono le scelte relative sia all’edificio che all’arredo.

Debuyst continua la sua analisi fino ai giorni nostri, sottolineando la qualità di alcune architetture moderne (abbazia di Mount Angel, nell’Oregon, di Alvar Aalto; monastero di Clerlande, in Belgio, di Jean Cosse; ecc.) e i difetti di altre (per es. il convento di La Tourette, opera famosa di Le Corbusier). Le opinioni del monaco belga suscitano numerose perplessità. Il nocciolo della questione è la riconoscibilità di un luogo cristiano. Dato che la fede cattolica è fondata nella storia, scritta da Dio e da uomini in carne ed ossa, essa richiede un’arte narrativa. La decorazione simbolica ha questa ragion d’essere, non è questione di monumentalità. Nelle architetture esaltate nel libro non è affatto netta l’identità cristiana, tant’è che sarebbe facile sostituire la loro funzione religiosa con una civile.

Il genius loci cristiano di Debuyst corrisponde ad un gusto minimalista per l’austerità e il nascondimento nel contesto, ma non è condiviso universalmente. Peraltro egli sembra non rendersi conto che il barocco di Borromini è molto più semplice e rigoroso del razionalismo di Steffann. Se il genio del luogo è muto oltre che invisibile, chi ne può percepire la presenza? Un nume neopagano, come quelli prodotti dal Bauhaus, è silenzioso perché non esiste non perché immateriale. Se invece il genio è l’angelo posto a guardia di un luogo reso sacro dall’iniziativa di Dio, allora ha molte cose da annunciare ed è veramente un genius loci cristiano.

È vero che in certe chiese riccamente decorate l’abitudine confonde lo sguardo, che può disperdersi nei dettagli perdendo di vista l’essenza della preghiera. Ma la soluzione è forse quella di eliminare del tutto l’ornamento? Non possiamo dimenticare che l’amore si nota nei particolari, anche nel caso dell’arte e della liturgia.

Qualche dubbio nasce, infine, sull’uso improprio nel volume del termine frate al posto di monaco, forse dovuto alla traduzione dal francese.

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