“La vita economica nell’antica Roma: agricoltura, schiavitù, colonizzazione – le antiche monete romane” - ricerca storica di Giovanni Teresi
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- Creato: 28 Febbraio 2023
- Scritto da Redazione Culturelite
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La vita economica di Roma nei primi tempi si fondava sull’agricoltura. Allora il cittadino romano, anche se magistrato o generale, coltivava il suo campo, come Cincinnato, e governava la sua fattoria con un assolutismo patriarcale. Ma le conquiste della Repubblica e l’egoismo della classe patrizia crearono subito quella formidabile questione agraria che è stata il fulcro delle classiche lotte tra patrizi e plebei. Così i patrizi riuscirono ad avere i migliori e più vasti appezzamenti di agro pubblico, che essi poi coltivarono servendosi degli schiavi, sempre più numerosi. Ne scaturì un deprezzamento enorme della mano d’opera libera; i coloni furono schiacciati dalla concorrenza e assorbiti dal latifondo; perciò, cacciati dalle campagne, affluirono alle città, diventarono una turba di disoccupati irrequieti, e finirono per gravare sul bilancio pubblico, che provvide con distribuzioni gratuite di grano (frumentationes), onerose per il pubblico erario.
La situazione economica sarebbe giunta ad una grande recessione, se Roma non avesse sfruttato esageratamente il barbaro istituto della schiavitù. Nell’Oriente e in Grecia lo schiavo rappresentava la mano d’opera per i lavori più gravosi, ma a Roma era l’elemento fondamentale, l’indice regolatore di tutta la vita economica, specialmente agricola. Più gli schiavi abbondavano e più il proletariato affogava nella miseria.
E’ difficile poter calcolare il numero di schiavi: certo questi dovettero essere moltissimi al tempo delle grandi guerre di conquista, quando l’uso di vendere come schiavi i prigionieri divenne universale. Il più grande mercato di schiavi era Delo nell’Egeo; ogni emporio commerciale aveva però le sue vendite, cosicché il possedere schiavi a centinaia non era difficile per i grandi latifondisti. Però, venuti con l’Impero tempi più pacifici, gli schiavi, preda di guerra, cominciarono a scarseggiare. I latifondisti abbandonarono a poco a poco le colture costose e per evitare il rincaro della mano d’opera tennero i campi a pascolo.
Strettamente connessa con la questione agraria è la colonizzazione romana. Fin dai primi tempi delle conquiste italiche, a mano a mano che si sottomettevano nuove città e nuove regioni, si procedeva a sequestri di territori in danno dei vinti per aumentare l’agro pubblico.
Di questo la parte che sfuggiva all’ingordigia dei patrizi latifondisti si divideva in tanti lotti; ciascuno dei quali veniva ceduto a un cittadino romano che si stabiliva sul luogo per coltivarlo direttamente.
Tali colonie, che contribuivano a sfollare i grandi centri, avevano un apparente carattere agricolo, ma di fatto erano stanziamenti a scopo militare. Il sistema, se fu gravoso per i vinti, divenne per i Romani una delle cause del loro felice successo, poiché la popolazione romana che si stabiliva in colonia, vi portava la lingua e gli usi della patria, contribuendo alla fusione di tante genti di varia origine e civiltà. Ed ecco perché immense regioni, abitate da popoli di varia etnia come la Gallia, la Spagna, la Romania, hanno potuto profondamente latinizzarsi da mantenere poi, anche attraverso le invasioni germaniche e slave, intatta la loro cultura romana.
Commercio e industria nell’Impero romano
Se lo si confronta con i Greci e con i Fenici, il popolo romano non può dirsi certo un popolo mercantile; la coscienza pubblica era anzi così ostile alla mercatura, che diverse leggi proibivano alla nobiltà di professarla. Quindi, il commercio è stato dapprima in balia di stranieri, etruschi, greci e cartaginesi, poi passò nelle mani di un ceto intermedio fra il patrizio e la plebe, quello dei cavalieri, che costituirono la vera classe affarista di Roma antica, fiancheggiati spesso da un nuvolo di popolani arricchiti o di liberti intraprendenti.
Dei primi tempi poco sappiamo; tuttavia un certo movimento commerciale dovette determinarsi presto, se già nel 348 a.C. e di nuovo nel 306 a.C. Roma e Cartagine stipulavano i primi loro trattati commerciali. Ma il punto di partenza per la formazione del grande commercio romano è stato la distruzione della potenza cartaginese e il conseguente estendersi del dominio di Roma su tutto il bacino del Mediterraneo. Popoli diversi per civiltà, per tradizioni, per ricchezze, per produzione, si trovarono d’un tratto legati da un vincolo comune, che sorpassando le antiche barriere nazionali, faceva da pleiade di Stati uno Stato solo. Il movimento commerciale si determinò subito, facilitato in Oriente dall’ancora florido traffico ellenistico, a base di lingua e di monete greca, in Occidente dal progressivo diffondersi del latino e della moneta romana. La conquista dell’Egitto allargò il campo, includendo nell’orbita mediterranea anche il commercio del Mar Rosso e legando così l’Occidente all’India e ai più lontani paesi orientali.
Il commercio terrestre si esercitava lungo le grandi vie militari che il popolo romano aveva tracciate per tutto il mondo, guadagnandosi la fama del più grande costruttore di strade tra i popoli antichi.
Famosa era la via Appia che partendo da Roma raggiungeva Benevento, attraversava l’Italia e finiva a Brindisi, porto d’imbarco per l’Oriente. La via Flaminia procedeva invece verso nord fino a Rimini, dove incominciava la via Emilia, che per Bologna e Piacenza conduceva nella Gallia Cisalpina, da dove irradiavano le grandi strade alpine. La via Aurelia partiva pure da Roma, attraversava l’Etruria e costeggiando il Tirreno raggiungeva la Liguria, di là passava in Provenza, entrava in Spagna e sboccava a Cadice, mentre di fronte, lungo la costa dell’Africa, una via costiera attraversava l’Africa latina, dalla Mauritania alla Sirtica.
In Egitto vecchie e nuove strade allacciavano il continente africano alle antiche vie dell’Oriente e alle carovaniere dell’Arabia. L’Italia aveva oltre 5000 chilometri di strade, e quasi altrettante ne possedevano la Gallia, la Spagna, l’Africa latina. Le maggiori erano lastricate, ben tenute, con alberghi e stazioni per il cambio dei cavalli. Vi era un servizio postale riservato allo Stato e ai suoi funzionari.
La navigazione interna era attiva nei fiumi. Comunissima invece è stata la navigazione marittima, nella quale però i Romani non fecero progressi notevoli in confronto con i Greci.
La nave, sempre piccola, difficilmente caricava 300 tonnellate di merci; si serviva di vele e solo in certi casi di remi. Con il tempo buono si ottenevano velocità notevoli; si andava da Ostia a Cartagine in due giorni, in tre a Marsiglia, in quattro a Cadice; da Pozzuoli ad Alessandria si impiegavano otto o nove giorni. Il porto principale di Roma era Ostia, ingrandito da Claudio, poi da Traiano, porto esclusivamente d’importazione, che serviva per vettovagliare Roma di grano. Di maggiore movimento per passeggeri era Pozzuoli in Campania, centro industriale notevole; nel Mar Ligure era Genova e nell’Adriatico Aquileia. Nella Gallia era sempre fiorente Marsiglia, sbocco di tutta la produzione della valle del Rodano con il grande centro di Lione; nella Spagna primeggiava Cadice, nell’Africa Cartagine, ricostruita da Cesare e divenuta centro di una regione tra le meglio colonizzate dell’Impero. Nelle provincie illiriche Salona era il miglio porto; nella Macedonia Tessalonica (Salonicco); in Grecia non più Atene ma Corinto, risorta dopo il saccheggio dei Romani; nell’Asia Minore Smirne, arricchitasi per la decadenza di Efeso e Mileto; nell’Egitto Alessandria mantenne la sua importanza e è stata, anche per popolazione, la seconda città dell’Impero dopo Roma.
Le merci che formavano oggetto di traffici erano le stesse del periodo ellenistico. Solamente per i generi alimentari era aumentata la quantità a causa dell’accrescimento della popolazione nei grandi centri. L’Oriente ellenistico rimase sempre il paese classico dei prodotti pregiati, poiché solo là prosperavano industrie molto progredite. Alessandria, che era il primo porto del mondo per l’esportazione dei cereali, era anche il centro manifatturiero più importante del Mediterraneo, e vi si lavoravano non solo i prodotti locali ma anche quelli del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano. Nell’Occidente predominavano le industrie agricole; non mancavano però notevoli industrie minerarie, nella Spagna specialmente, e anche industrie tessili, che lavoravano la lana, e, raramente, sete asiatiche importate nel bacino del Mediterraneo attraverso il Tibet e la Persia.
Molto diffuse erano le industrie artistiche come l’oreficeria, la vetraria, la ceramica, l’arte del mobilio, del marmo, del bronzo, spesso dirette da artefici greci, fenici, alessandrini. La ricca suppellettile trovata a Pompei ci dà un’idea della varietà e della finezza industriale dell’età romana. Naturalmente l’industria era organizzata al vecchio modo fenicio e greco, sulla base dell’artigianato; ma spesso con lo sfruttamento di schiavi si dovettero costituire aziende grandiose e con forti capitali. Prestissimo sorsero in Roma, poi nelle provincie, le associazioni di artigiani (Collegia opificum), simili alle Arti del Medio Evo, ma con scarsa importanza politica; molte volte non erano che società di mutuo soccorso o associazioni di carattere funerario. Grande importanza ebbe Roma anche nel campo strettamente finanziario. La moneta romana è stata inizialmente coniata in bronzo: la più famosa era l’asse, grosso pezzo di metallo che pesava una libbra romana (grammi 327), e che venne utilizzata finché il traffico commerciale è stato di articoli di scarso valore e prezzo. Nel 268 a.C. sono state introdotte le monete d’argento, di cui la più comune era il sesterzio (lire oro 0,21); quattro sesterzi formavano il denaro (circa lire 0,84). Al tempo di Silla vennero battute le prime monete d’oro, tra cui la favorita era l’aureus, che valeva 100 sesterzi (lire 21). Il diritto di battere moneta era dato spesso a città e provincie. Augusto riservò al sovrano il diritto di battere moneta d’oro e d’argento per tutto l’Impero, lasciando al Senato la coniazione del rame. La monetazione decadde quando incominciarono a circolare monete coniate con povere leghe, indecorose truffe perpetrate dal governo impoverito, che determinarono un vero e proprio corso forzoso con relativo rincaro di tutti i generi di consumo.
I traffico di danaro è stato fiorentissimo, e a questo si dedicò gran parte dell’aristocrazia che, per mezzo dei suoi liberti, collocava così gli enormi guadagni fatti nel governo delle provincie o durante le guerre. Il capitale circolante divenne quindi molto grande, e l’usura è stata praticata sfacciatamente persino dagli uomini che nella storia passarono per un modello d’integrità. Verre è stato descritto come un ladro perché prestava al 24 per cento; pure Bruto e Catone esigevano il 48 per cento, e Pompeo più di una volta pretese il 50 e fino il 70 per cento
Lo scandalo divenne poi così grave, che Augusto, riformando i costumi, volle riformare anche l’usura fissando il tasso d’interesse normale al 4 per cento. Inutile fatica: Tiberio dovette elevarlo al 12 per cento.
I bamchieri, detti argentarii o nummularii, esercitavano il cambio della moneta, facevano prestiti, accettavano depositi, effettuavano pagamenti per mezzo di lettera, alla maniera dei banchieri greci.
Il mercato finanziario di Roma imperiale è stato l’unico in tutto il mondo antico che abbia avuto proporzioni ed esigenze non lontane da quelle dei nostri giorni.
LA STORIA DEL DANARO PRESSO I ROMANI
- Il sistema del baratto.
Anche i Romani, come tutti i popoli antichi, fecero dapprima i loro commercio con il sistema del baratto. Ma per la determinazione del valore si sentì presto il bisogno di una unità di misura, così si ricorse al bestiame grosso (buoi) o al bestiame piccolo (pecore). L’uso del bestiame come mezzo di scambio diede origine alla terminologia del danaro: dal latino pecus (bestiame) venne infatti la parola “pecunia”, cioè danaro; da peculium (bestiame minuto) il termine “peculio”; da peculatum (furto di bestiame) la parola “peculato” nel senso di concussione; da capita (capi di bestiame) il nome di “capitale”.
Dopo si cominciò a introdurre come misura negli scambi il metallo. Il metallo scelto fu il bronzo. Esso fu usato dapprima in forme grezze (aes rude o infectum, cioè non lavato) e lo si valutava a peso. Di questa rudimentale tecnica degli scambi è rimasto un ricordo nelle parole derivate dal latino pendere (pesare) ed entrate nel nostro linguaggio come “spendere”, “stipendio”, “pensione” o i termini “stima”, “stimare” o “estimo”, che vengono dal latino aestimare e hanno la radice in aes (rame).
Quanto durasse questo sistema primitivo non sappiamo: probabilmente poco perché incomodo, data la necessità della pesatura. Si pensò allora di preparare pezzi di bronzo di peso uniforme: lo Stato, e in principio forse anche privati ed enti riconosciuti, facevano sul bronzo un’impronta (aes signatum). Si ebbero così metalli di bronzo oblunghi, ovoidali o rettangolari, con impronte di ancore, di tripodi o di animali, come il bove o il cavallo alato.
2. La monetazione dell’età repubblicana
Si attribuisce al saggio re Servio Tullio il merito di avere organizzato un regolare sistema di pesi e misure. Perciò non è improbabile che anche il sistema monetario romano debba a lui il suo primo ordinamento. Tuttavia nessuna moneta romana pervenuta fino a noi può assegnarsi con sicurezza all’età regia. Anche le più antiche sono certamente di epoca repubblicana.
Dapprima non si ebbero che monete di rame. La più nota era l’asse, del peso approssimativo di una libbra romana (327 gr.); era detto perciò aes librale o aes grave; aveva forma circolare, spessore lenticolare, e portava sul recto l’immagine di un dio (Giove o Giano bifronte), a tergo una prora di nave.
Moneta incomoda, perché troppo pesante, l’asse librale fu spesso sostituito dalle monete divisionali (semiasse o mezzo asse, triente o terzo di asse ecc.), tutte simili al librale, ma naturalmente di peso minore. Però non mancarono i multipli dell’asse ( dupondio ,tripondio ecc.) che erano ancora più incomodi dell’asse. Per i pezzi più grossi si usava la fusione, mentre soltanto per e monete più piccole fu introdotta la coniazione.
Intanto avevano cominciato a circolare in Roma e nel territorio le monete d’argento delle città greche dell’Italia meridionale, di tipo ellenico.
Ciò indusse Roma ad adottare la moneta d’argento: i primi esemplari apparvero in circolazione nel 268 a.C., all’indomani della vittoria su Pirro.
La moneta classica d’argento fu il denaro (nummus denarius) che valeva dieci asse: portava sul recto la testa galeata di Roma con la sigla X (dieci assi) e nel verso i Diòscuri a cavallo con la leggenda Roma. Erano monete divisionarie del denaro il quinario del valore di cinque assi e il sesterzio di due assi e mezzo, popolarissima moneta del diametro di appena un centimetro, che per la sua comodità divenne la moneta di conto per eccellenza.
Le tasse, le multe, le somme dei contratti si conteggiavano sempre in sesterzi.
Essendo piccolo il valore della moneta, nei calcoli si andava presto a migliaia e a milioni di sesterzi. E allora si passava ai talenti, grossa misura di conto di origine greca.
L’oro fu noto ai Romani dell’età repubblicana, ma lo si custodiva in verghe nel tesoro pubblico, e non lo si coniava. Circolavano però, come per l’argento, monete d’oro campane e siciliane, tutte di tipo greco, finché al tempo di Silla (87 a.C.) in Roma s’incominciarono a coniare monete d’oro: di esse la più nota era l’aureus di gr. 6,822, che valeva 100 sesterzi. Le monete d’oro costituivano però una rarità e spesso erano coniate da generali (Silla, Pompeo, Cesare), che per le spese di guerra ordinavano una coniazione temporanea dell’oro conservato in verghe nel tesoro pubblico.
Incostante fu poi il rapporto fra il rame, l’argento e l’oro: l’estendersi delle conquiste e la scoperta di nuove miniere contribuirono spesso ad abbassare il prezzo dei metalli preziosi. Come media, si può dire che l’oro stesse all’argento nella misura da I a II, l’argento al bronzo da I a 250; l’oro al bronzo da I a 2750.
La cura della fabbricazione e del controllo della moneta era affidata in Roma a speciali magistrati, i Triunviri monetales, così detti perché avevano il loro ufficio presso il tempio di Giunone Moneta, dove era depositato il pubblico erario. Questi tre magistrati avevano il diritto di apporre il loro nome nelle monete.
3. La monetazione dell’età imperiale
Durante l’età imperiale la monetazione romana mantenne l’ordinamento dell’età precedente. Le monete portarono però spesso l’immagine degli imperatori e delle imperatrici con il ricordo delle maggiori loro imprese in pace o in guerra. Augusto avocò a sé il diritto di coniazione dell’oro e dell’argento, lasciando al Senato quella del bronzo. Durante la decadenza avvenne il caratteristico fenomeno della svalutazione della moneta. Allora, si coniarono monete apparentemente d’argento, che in realtà erano monete di bronzo con un leggerissimo rivestimento di argento, per pagare i soldati. Questi denarii suberati o pelliculati costituivano mediocri escogitati dallo Stato a danno soprattutto dei paesi conquistati. Esse però non intaccarono la solidità della valuta romana. Ciò non si può dire dei tempi della decadenza. Al disordine monetario cercò di porre riparo Diocleziano, che ritornò a metodi corretti e a leghe oneste. Ma fu un rimedio provvisorio, perché ormai la frisi monetaria non era che uno degli aspetti della formidabile crisi politico-econimica dell’Impero romano.