Marco Fortuna, “Mondonuovo” (Leonida Ed.) - di Lorenzo Spurio

Una scrittura spensierata e felice questa di Marco Fortuna, apprezzato poeta fermano con vari lavori pubblicati (ricordo in particolare Dimmi le parole del 2017 e In te ho nascosto un lago del 2019), che torna ora con una nuova pubblicazione dall’avvincente titolo Mondonuovo. L’opera, pubblicata dalla nota Leonida Edizioni di Reggio Calabria, ha precedentemente meritato il Premio Speciale della Giuria al XXVII Premio Nazionale “Ossi di Seppia” di Arma di Taggia.

Fortuna, che ha dato modo nel corso del tempo di esplicare il suo fermento creativo e l’estro funambolico tra meraviglie intellettive atte a stupire – ricordo a tal riguardo il progetto e la relativa costruzione della stravagante e green “Macchina del perdono”[1] – in Mondonuovo propone un percorso fatto attraverso sezioni successive e progressive indicate quali “Appartenenze” dell’io lirico.

Si parte con le “Appartenenze prime”, quelle più importanti, viscerali e genetiche, per giungere poi alle “Appartenenze seconde”, alle “Appartenenze terze” e, in conclusione, alle “Appartenenze ultime”. È un modo per raccontare se stessi, svelarsi al mondo di fuori, ma anche accogliere la voce dell’interiorità spesso inespressa o inascoltata e farla vivere mediante un processo di autolettura e di vera auscultazione. Troviamo così liriche che riflettono sul tempo che passano e soprattutto la rievocazione di momenti di un’età precedente che ha contraddistinto l’infanzia e l’adolescenza dell’Autore. Scorrono dinanzi agli occhi dell’io lirico momenti vissuti con grande compartecipazione, che risalgono ora alla mente in maniera forte e magmatica, in un continuo flusso di ricordi e di esperienze che si mescolano al caos dell’ordinario, ai doveri del presente.

Vi è ritratta la semplicità della vita di campagna delle famiglie di allora, tra costumi ormai tramontanti e la dovizia di gestire le bestie, dandone il nutrimento per farle crescere ma occupandosi anche della loro morte nell’apice del climax di maturazione per garantire la normale sussistenza alla famiglia – spesso numerosa – proprio con quei piccoli animali da cortile. Varie liriche di Fortuna sono concentrate proprio su questo, sul rievocare le attitudini della provincia nella casa di campagna dove i nonni si davano da fare tra i campi e la gestione degli animali, fino alle più impressionanti scene per un ragazzino (dobbiamo credere) dinanzi alla macellazione di capi avicoli (“Mia nonna ha ucciso / il papero”). Scene che, unitamente al clima di concordia familiare e al senso di coralità tra gli abitatori della casa, sono rievocate in un quel climax di calore e di appartenenza alle origini, alla terra, alla genuinità di un’esistenza condotta in sintonia con l’elemento naturale.

Arricchiscono le pagine di questo libro, fresco e dinamico, ricco di spigolature differenti, riflessioni, fotogrammi di episodi vissuti, una serie variegata di citazioni tanto da esponenti letterari quali i poeti nostrani Milo De Angelis, Giorgio Caproni e lo spesso enigmatico Valentino Zeichen, che filosofici come è il caso di Leopardi e Nietzsche, evidenti riferimenti per un discernimento continuo e approfondito in Fortuna. Nelle “Appartenenze seconde” fa capolino anche un cameo di Walt Whitman, capostipite della poesia americana, che ha a che vedere con il pensiero e il senso dell’assenza e che così recita: “se non mi trovi più, in fondo ai tuoi occhi, / allora vuol dire che sono dentro di te”. Una chiosa che fa pensare anche al pensiero cristiano che, forte del passaggio e dell’insegnamento morale dell’uomo sulla terra, fa di lui una presenza assidua e concreta per chi lo ha amato in vita e interiorizzato come esperienza viva, ineliminabile da cuore e ragione.

La poesia è una lunga malattia / e starò in quarantena su di un’isola” scrive l’Autore nel corso del libro, impiegando un lessico ormai molto in voga in questo tempo di post-pandemia. Il contenuto dei suoi versi è sibillino e prammatico, frutto di un argomentare l’esistenza dell’ordinario con un occhio spesso critico quando non addirittura un po’ stanco verso mode, vizi, atteggiamenti che esulano da quel senso di concretezza e sincerità che nello ieri rappresentavano la normalità.

In un’altra lirica leggiamo: “Tu non sai di quel posto dove non c’è più la neve, / dove le seggiole della funivia sono rimaste / appese in alto / come carne da macello”. C’è spesso una tendenza poetica che predilige l’esplicitazione (piuttosto che l’evocazione o la possibilità) di vere e proprie scene dinamiche, una sorta di sketch con sequenze in cui il Nostro dà risalto alla sequenza narrativa. Componimenti che a volte, pare di credere, travalichino un po’ i limiti – in realtà mai tali e circoscritti – della poesia propriamente detta, per aprirsi a un verso più ampio e dal carattere prosastico, per fornire dettagli e la consecutio di quel che è stato a un determinato evento, più o meno fisico, sempre comunque d’impatto emozionale.

Versi come “I miei occhi sono come delle tasche / contengono solo te / non sono mai stato oltre” ci danno il senso della matrice amorosa della sua poesia, del sentimento che, forte, si radica in una totalità di sguardi e di motivi.

Marco Fortuna ci parla di un mondo di ieri, che sembra in qualche modo perduto, descritto e rievocato sulle modulazioni dell’imperfetto. È un passato certamente, eppure non così lontano, sembra in qualche modo sospeso o fermo lì, pronto per essere ripreso e riannodato, continuato, reiterato nel tempo.

L’esergo iniziale tratto dal regista serbo Emir Kusturica nella pellicola Underground ci parla di quella pazzia diffusa e collettiva, che ci riguarda e che non consideriamo tale, nella quale chi più chi meno siamo immersi. Le sue poesie si annodano senz’altro a questa dimensione allucinata ma anche a un recondito mondo infantile, con echi rodariani, a un’età giocosa e fatata dove i ragazzini potevano ancora rimanere stupiti, impressi ed esterrefatti dinanzi – non tanto alla stramberie dell’informatica – alla potenza del reale.

Ecco, allora, che il “Mondo nuovo” di Fortuna forse non è realmente così “nuovo” come l’inaffidabile (nel senso di buono, di sornione, di funambolico artigiano delle parole) poeta vuol farci credere e guarda piuttosto all’incanto del passato, di quell’età dolce che tutti abbiamo vissuto e che, come una spugna gravida, portiamo sempre addosso. La novità sta, allora, forse nella capacità di districare, nella disarmonia dell’oggi che funge da altare slavato dello ieri, l’idiosincrasia di fondo di una società che muta (non sempre in meglio) e nell’evidenziare (agli altri ma in primis a sé stessi) il groviglio sentimentale che da inespresso e isolato si fa cangiante e prospettico.

 

 

 

[1] Per un approfondimento sulla “Macchina del perdono”, l’innovativo progetto ecologico di Marco Fortuna si rimanda a un precedente articolo disponibile qui: https://blogletteratura.com/2021/11/15/la-macchina-del-perdono-di-marco-fortuna-un-progetto-ecologico-di-rinascita-e-guarigione/

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