Mario Inglese, "Dell'assenza e della meraviglia" (Ed. Thule) - di Giovanni Teresi
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- Category: Scritture
- Creato: 02 Aprile 2021
- Scritto da Redazione Culturelite
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La poesia è un errare, è un deviare, un allontanarsi da una certa direzione, e insieme alla filosofia è proprio questo deviare dal vedere ordinario. Mario Inglese, nella sua opera poetica “Dell’Assenza e della Meraviglia”, oltre ad affrontare nei suoi versi una dimensione idiomatica dell’italiano e dell’inglese, suggella l’improvvisa modulazione analogica avocando la presenza delle cose familiari del proprio paese mediterraneo pur stando seduto nella poltrona di casa ascoltando la pioggia di Vancouver: “La pioggia è un velo di infinite/ trasparenze, esclude il cielo/ nelle lontananze dei monti/ e della baia, scopre mute, altre presenze,/alberi che abbracciano/ bassi edifici nel campus.” Altro tipo di paesaggio è quello affidato alle liriche di Meditazioni sulla notte ove si narra come, nel buio, l’io del soggetto si allarghi fino ad inglobare spazi ulteriori, sconosciuti: “L’insonnia dilata il tempo/annettendo alla coscienza/nuovi territori”.
Per questo la poesia del Nostro è un errare che sposta il punto di vista ordinario e volge lo sguardo in altra direzione, lungo un sentiero più nascosto e più impervio ma che, in quanto non già battuto, fa vedere le cose della nostra quotidianità, in un’altra luce, magari con lo smalto originario del primo giorno della creazione, per dirla come il poeta e scrittore russo Boris Pasternack. L’uomo non è, ek-siste, cioè è sempre oltre di sé, ricordando, sperando, temendo, e non c’è modo migliore per esprimere il senso dell’inquietudine umana dell’errare, ma anche quella salvifica, sia essa inserita o no in una dimensione di fede, di ritrovarsi, di ritrovare la strada verso casa, ciò è bene espresso nei versi della lirica “Natale ancora”: “Mio Dio, come sono invecchiati/ questi volti appena riconosciuti./ …/Cosa ho più di questa gente?/Straniero in patria,/ felice ma straniero/ero pure in luoghi/così diversi, lontani/…/Natale del ritorno,/ un momento di meraviglia / nel traffico scomposto,/ nella calma impassibile/ dei miei incorreggibili conterranei”.
L’essere umano “ Ek-siste”, cioè sta fuori, e questo stacco genera la disarmonia da cui nasce la ricchezza spirituale. La libertà crea, quindi, la trascendenza e la si può chiamare in mille modi: odissea, naufragio, pellegrinaggio, l’ek-sistenza: il poter stare con la mente al di fuori del proprio esserci, sporgersi oltre il proprio essere sino a provare angoscia, dolore, paura oppure gioia, amore, creatività. “Sulla grande scena della piazza/ o nel flusso familiare/di strade accecanti/appare/inatteso,irrelato/…/un’icona o un angelo/ di lancinante bellezza/un portento di luce/nella quotidiana monotonia./ Adesso vado per la via/ come se avessi perso qualcosa/d’irraggiungibile.” (in Volto); “A piccole dosi, a piccole dosi/andrà consumato/il calice onnipresente/dell’universale fato./Poco a poco torna/la lingua a distillare/i suoi umori pietosi/da un corpo lungo inaridito./A piccole dosi, a piccole dosi/accetterò l’indifferenza del mondo,/le routine dell’amicizia,/il dominio docile di immagini e memorie.” (da Elegia per la madre)
Il poeta Mario Inglese è alla ricerca di una lingua che elabori la parola, non solo con il fine oraziano del labor limae, ma soprattutto per cercare di giungere ad una lingua che non trasmetta un sentimento di esilio, ma, nell’errare, la presenza dell’io “prisma di dolore” nelle cose: “ Perché mia madre spesso,/senza volerlo,/dava vita agli oggetti,/trasfigurandoli” (Elegia per la madre”); e ancora,da Esilio: “Gesti, atti,riti,/il corso delle cose,/umile,temibile,/inesorabile,invincibile”.
La patria è nel linguaggio, in quanto “dimora dell’essere”, è nel linguaggio della parola originaria, la quale si presentava come parola poetica; ma se tale patria non si ha, è perduta anche la parola poetica, come vuole Heidegger.
Oltre il semplice “dire la cosa”, dentro il sentire più doloroso, il Nostro volge lo sguardo verso la parola nella sua forma poetica. Trama, temporalità, attorialità, causalità e tante altre strutture che caratterizzano la narrazione in prosa – strutture che sono state indagate in molti studi pedagogico narratologici – nella parola poetica vengono meno o si attenuano, per lasciare maggior spazio alle forme del verso, al richiamo sonoro.
La poesia di Mario Inglese è la storia di un’anima, una storia interiore, di chi si cerca e vuole cantarsi, di chi ha bisogno di ritrovarsi nell’espressività e creazione artistica, per fissarne un’identità.
«A differenza del linguaggio ordinario, il linguaggio poetico fa vedere le cose, facendosi vedere esso stesso» ( Baudelaire)
Il Nostro capta le immagini di ciò che più ama per decifrare la sua arte poetica: le montagne, i fiumi, la terra, i fiori, gli alberi, le rocce, le strade. In questa scelta, estrapola le essenze della propria intimità cercando un valore divino, quasi mistico, nella sua tendenza all’altrove:
“…/Si allenta la presa/ del mondo esterno/e restiamo a contemplare/la nuda natura dello spirit/nel silenzio che ci sovrast”(da Meditazione sulla notte), e ancora:
“/…/ Now it’s time to conclude: Ite Missa est,/the surge of the organ barely contained/by the metal grey,rugged asola – vork/and the amber-hued hull/of the immense celing”. (da Galway Cathedral)
Una liturgia questa che si compie attraverso l’atto poetico, volta a permettere il rivelarsi del senso non solamente della propria interiorità ma anche di tutte le cose, degli oggetti, dei dettagli, che vuole salvare dall’ombra. “Ho dunque varcato/ i confini invisibili della notte./Calmo è il risveglio,/di una calma assoluta;/cessato il vento,/per giorni dispotica presenza”.