Mario Inglese, "Dell'assenza e della meraviglia" (Ed. Thule) - di Giuseppe Bagnasco

A differenza del prefatore Valerio Magrelli che conosce il poeta da un trentennio, noi, non avendo questa opportunità, affideremo alla lettura del testo le nostre osservazioni per ciò che ne emerge.

   La silloge di Mario Inglese Dell’Assenza e della Meraviglia (Ed. Thule - Palermo 2021) si presenta abbastanza corposa ma non per le oltre cinquanta poesie, quanto per l’eclettico tessuto che le trama. E da subito c’è un particolare che emerge dalla struttura del volume e riguarda la copertina. Questa, appunto, risulta singolarmente omeopatica alle ultime due liriche del volume giacché ne anticipa emblematicamente il contenuto. Infatti, la foto, anche se riferita ad un anno prima, ostenta la visione di una strada deserta fiancheggiata da alberi spogli e tali da richiamare la lirica Novembre mentre la strada deserta riflette quella Al tempo della pandemia. Un titolo che richiama per assonanza L’amore ai tempi del colera di Gabriel Garcia Marquez se non fosse per le diverse conclusioni a cui pervengano. Una foto che certifica una vita sospesa per una morbosità straordinaria di portata planetaria e che per certi versi risulta drammatica.   

    Ma apriamo questa teca di poesie, altrove verosimilmente da noi chiamata “Poieteche”. Intanto constatiamo come nella Nota finale tutte le poesie risultino elencate, datate e completate con l’indicazione dei luoghi della loro creazione. Ne risulta come esse siano ancorate alle sensazioni provate in quel giorno e in quel determinato luogo. E poiché nella comune “prammatica” questi accorgimenti sono propri dei diari, possiamo interpretare questa silloge come un notes di appunti personali svolti in chiave poetica. Una sorta di momenti confessionali dove accanto alle meditazioni sul “corpo” (v. Perché abbiamo un corpo), ci sono le dissertazioni sui personali “precetti” dello spirito (v. Opere di misericordia). Le poesie, ad eccezione di una del 2002 scritta in Brasile, Shoeshines e altre in Palermo negli ultimi anni di questa produzione letteraria, ricadono in un decennio di “peregrinazioni” professionali di docenza svolti dal Poeta tra Australia, America ed Europa (2010-2021) ma il cui nucleo ha “soggiornato” più produttivamente nel Campus della West Point Grey Academy di Vancouver (Canada). Un soggiorno che a parte qualche sporadica “meraviglia” o alcune “rare aurorali esperienze di gioia fugace”, viene inteso come esilio in un “lento purgatoriale procedere” della vita. Un procedere che se viene offuscato di giorno dagli impegni lavorativi, esce allo scoperto nella notte.    

    A parte le massime e i dettati dell’eptalogo sulle surrichiamate “Opere di Misericordia” che inseguono il dettato cristiano preceduto nella falsariga da quello socratico, un dettato che il Poeta considera come il breve viatico di tutti i giorni, ciò che emerge e che resta “dentro” alla fine della lettura sono i due epigoni su cui si concentrano le nostre attenzioni: Le Cose e la Solitudine. Due temi che oltre ad essere correlati tra loro, coesistono col Poeta nel suo habitat domiciliare e pertanto non c’è un distinguo netto tra i due. Iniziamo allora col considerare il suo rapporto con le Cose. Si tratta di un rapporto comune a quanti vivono da soli per cui le Cose (oggetti abituali compresi gli arredi) uscendo dal loro stato naturale, assumono una sorta di forma immateriale con cui i suddetti riescono perfino a colloquiare. Ѐ’ certo un rapporto fantastico, un parto della solitudine. Nella fattispecie il riferimento è rivolto al Nostro quando “il ronzìo del frigo / il respiro del freezer / il rumore sordo / di pneumatici sull’asfalto / iscrivono la tenue / epidermide del silenzio” e che diventa “extralarge” nell’ascoltare lo scroscio della pioggia o nel portarlo ad “amare persino l’ascensore”. Ѐ la stessa “scena” descritta da Tommaso Romano nel suo La casa dell’Ammiraglio dove statue e dipinti colloquiano con il loro “padrone”. Sono fenomeni paranormali della psiche per cui si arriva a definire le Cose come i cari compagni di vita e, giusto per parafrasare una nota dell’Autore sugli aggettivi, si potrebbe, dicendo di loro, passare dalla neutrale definizione di “cari compagni” a quella più coinvolgente di “compagni cari”, Si tratta di una affettuosità dovuta alla loro costante e giornaliera presenza come la kenzia nel salotto dell’abitazione del Poeta o le Cose in genere dentro e fuori casa che “aspettano pazienti / che qualcuno le guardi”. Si tratta in fondo di un antropomorfismo di cui si servono tanti scrittori e poeti quando le “Cose” diventano presenze come fa Cronin dando il titolo a E le stelle stanno a guardare, oppure nel soliloquio del Leopardi in Alla luna. E passiamo alla seconda nostra meditazione anche se, come detto, in simbiosi con la prima: La solitudine. Qui c’è un’altra “compagna”, già annunciata, che fedelmente aspetta il residente-poeta: La notte. Ѐ lì che in agguato stanno i pensieri, i ricordi, il richiamo dell’Assenza insieme a sporadiche sensazioni di Meraviglia. Ѐ il “luogo” privilegiato dove “prima che il sonno / obliteri la coscienza / si impongono incalzanti / onerose questioni… (e dove si resta)…a contemplare / la nuda natura dello spirito / nel silenzio che ci sovrasta”. Non sono soltanto incalzanti indagini sul territorio del pessimismo (“impensabile ritrovare le coordinate / per sempre mutate / resta il fantasma / della felicità che fu”), ma investono anche la sfera emotiva del Nostro quando ricorda la madre, immaginata “in un altrove / che non separa veramente” (v. Elegia per la madre), o come quando scrive che “richiamare alla mente / la tua immagine palpitante / è dolce conforto / nella solitudine dell’assenza”. Sì, perché la solitudine è Assenza, è ciò che ci manca, è ciò che non abbiamo, che non possediamo ed è quell’assenza che dal Poeta oltre che agli affetti è riferita anche alla propria terra.  

    Rimarchevole il confronto tra Palermo e la Vancouver opacizzata dalla pioggia dove “un velo di infinite / trasparenze / esclude il cielo / nelle lontananze dei monti…” (v. La pioggia di Vancouver). Una Assenza, come richiamata nel titolo, insieme alla Meraviglia che il Poeta scopre “…come in sogno fiammeggiante / di fluida luce / trabocca / il bene nella vastità / della mensa” per cui di fronte a                l’“assoluto splendore… questo dolore / almeno stasera / è un po’ più dolce”. Ѐ in questo contesto, soprattutto nelle notti, “nel silenzio della stanza” e prima dell’ “eterno ritorno del giorno / che non tradisce” anche accettando che questi “estorca pure i suoi pedaggi”, che il Poeta pone l’attenzione al problema-dramma interiore della solitudine. Ѐ questa il vero flagello di questa epoca che, iniziatasi culturalmente (ci si permetta la digressione) con L’eclisse di Michelangelo Antonioni sul tema dell’eclisse dei sentimenti, è continuato negli anni Novanta con Uomini soli, un testo di Valerio Magrini. Per non parlare degli anziani. Non si spiegherebbe altrimenti la nascita di tanti “Centri per gli anziani” sorti proprio oltre che per l’assistenza, soprattutto per combattere la solitudine. A conclusione di quanto esaminato, annotiamo le nostre considerazioni. La poesia di Inglese non è elegiaca né tantomeno epica ma ha qualcosa che in qualche parte richiama quella esistenziale di Baudelaire sulla incomunicabilità “domandare per non sapere / rispondere per non svelare”(v. Il più e il meno) o quella amorosa  di Prevert “se tu morissi / i tuoi occhi avrei come sassi del deserto / e un silenzio da riempire / e un enigma da scoprire” (v. Se io morissi) oppure come in Lascia che parlino dove si legge “pure il silenzio ha la sua magia / ma non capire è dolce tormento” senza tuttavia ignorare qualche richiamo dantesco come in Il tuo sguardo timido oppure in Tu che mi guardi. Adesso, a chiusura, ci si permetta un’ultima nota. La silloge Dell’Assenza e della Meraviglia tratta di un percorso dove l’Autore prende in esame, in fase sociologica i rapporti con l’ambiente e con suoi simili, in modo surrealistico con quello delle “Cose” e, infine, quello intimistico con se stesso. Si tratta di un intellettuale di spessore prestato alla poesia che alla liricità del verso preferisce la profondità del pensiero come dimostrato dall’eptalogo di cui sopra in cui “i sette infiniti iniziali” delimitano i campi dello spirito facendo attenzione a che le gramigne non ostacolino il corretto crescere della vita. E questo perché Mario Inglese, oltre che docente di letteratura italiana o di materie linguistiche degli Istituti universitari nei diversi Continenti, è un “maestro” per i disegni concettuali che esprime. Un intellettuale che non ha remore a confessare e confessarsi nelle veglie delle notti, nelle fitte conversazioni simili a quelle (in Sicilia) di Elio Vittorini entrambi accomunati dal desiderio del ritorno alla propria terra. Un ritorno di piena nostalgia in cui non è assente il ricordo da bambino dell’uso del dialetto, un tempo la sola comunicazione verbale del popolo minuto. Un dialetto, completiamo noi, che, composto da vocabolario, grammatica e sintassi assurse a vera lingua tale da essere riconosciuta, obtorto collo, perfino da Dante nel suo De vulgari eloquentia e che dall’allora volgare divenne l’unica lingua di un’Italia frammentata dalla Storia. Una lingua, come sottolineato dal Presidente emerito dell’Accademia della Crusca, Francesco Sabatini, oggi offesa dalle importazioni “barbare” a cui i giovani, a completamento, aggiungono un loro particolare slang opportunamente codificato. Una “devianza” stigmatizzata anche dal Nostro tanto da chiedersi “cosa parleranno i figli dei loro figli”. Una degradazione che dal linguaggio si protrae sul “rapporto” dei giovani d’ambo i sessi tanto da essere catalogato alla stregua di una “cosa”. Pertanto potremmo definire questa nostra società come “la Società delle cose” data l’assoluta carenza dei sentimenti ormai ridotti a “cosa”. E così, in questa ottica, anche l’innamoramento bene approfondito da Francesco Alberoni, è ridotto a “cosa”. Spesso, infatti, si tratta di rapporti a tempo perché il sentimento è vissuto nel precariato paranichilista e accettato come normalità. Ecco perché, per analogia per il suo rapporto con le “Cose”, potremmo definire Mario Inglese come il poeta delle “cose” oltre che della Solitudine. Solitamente un poeta scrive per esternare i propri “introdrammi” ai suoi ventitrè lettori di manzoniana memoria.

    Mario Inglese non fa parte di questi, Egli scrive per sé. La sua poesia, volta verso le pagine del suo “diario”, potremmo definirla colloquiale e contigua con questo, una poesia che sebbene “intra moenia” risulta certamente dottrinale, speculativa e di inchiesta introspettiva. Una dottrina che, relativamente al campo del trascendente, si pone alla stregua di un testamento spirituale sebbene abbandonato al Tempo. Quel Cronos, primo tra le divinità della mitologia greca, che l’Autore definisce come “Il grande artefice / scultore senza pari / e noi il suo docile materiale” proprio come anche noi fossimo “Cose” al cui mondo, in un probabile futuro, alla fine finiremmo per appartenere.

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