Matteo Veronesi, “Tempus tacendi” (Ed. Alla chiara fonte)

di Ester Monachino

 

Inoltrarmi tra le pagine del volume “Tempus tacendi” di Matteo Veronesi, edito con i tipi di “Alla chiara fonte”, in Lugano, ha reso tangibile al mio sguardo la significanza  della dimora della fedeltà alla parola poetica, l’obbedienza ad essa, il suo essere evento aurorale contrapposto al tempo povero e inerte di tanti dei nostri giorni.

Un linguaggio fortemente lirico, fluido nella clarità lampante, di una mobilità disseminante e proliferante nell’espressione che congiunge l’Essere alla Parola e alla forza cosmica della natura. Parola poetica  non come possibilità, ma come fattività conoscitiva dello sguardo che sa sondare negli abissi i segreti del sé e del mondo facendo del poeta, se non un eroe, una sentinella della parola esatta, pronunciata nell’istante del suo esserci insostituibile, senza confronto alcuno: parola poetica in perfetta corrispondenza con l’evento esistenziale e con quello animico che è come dire divinamente universo.

Esigenza dello scavo intimo è dare un responso a quella dicotomia, legata alla temporalità esistentiva orizzontale, che indica  se aderire alla parola oppure se entrare nella stasi del versante del silenzio. Invero, per Matteo Veronesi, autentico nel fervore della torcia poetica, il verso non tace:  certamente la parola nel tempo inspirativo non è inattiva ma ascolta la totalità, ne  entra in risonanza, e nuovamente si dona: istantaneo periplo che conduce da sé a se stesso, non svelando il mistero dell’esistenza essendovi totalmente dentro come irriducibilmente originario. L’intimo sempre gestante del poeta ha necessità di espressione: non importa se “per noi soli, per pochi, per nessuno” (pag. 5).

La scrittura versificatoria, così, si dispone come un golfo aperto alle architetture delle maree intime che imparano le istantanee resurgenze dagli abissi nerofumo per una connotazione metamorfica conducente l’io poetico oltre se stesso in un movimento estatico dove l’intima vicinanza coincide con la massima lontananza: indistinto connubio del sé con il tutto.

La si legge, questa dimensione al contempo di innocenza e sopravvivenza, tra i profumi odorosi del pane-metafora del corpo essenziale; il respiro del vento che feconda luoghi e azioni in tutte le loro ambivalenze dispiegate; il monito dei gesti e la sapienza dei sorrisi e delle risate che declinano il contatto con la creatività, la germogliante sensibilità, la coscienza che non si esprime a monologhi ma con lucido sguardo.

Tre magnifici stralci, dal contesto: a pag. 16 leggiamo:

“…Scrivere, dire, frangere

sulla pagina le parole come pane-

far morire, nel dire, la vita

perché non muoia, perché spenta

riviva, disperdere

in buio grembo il seme del pensiero

perché doni al vento i suoi fragili petali…

e così in nuovo corpo rifiorire

assurdo e santo…”

Eccola, la germinazione della parola che si innesta sulla vita, che si fa Vita, che vince il vuoto e si fa pienezza, noncurante delle ombre insidiose; come un pane o come quel lievito di crescenza che è amore ininterrotto fino all’indicibile alterità. Qui il vento, nella sua dimensione positiva si fa medium di una forza infinitamente rigenerante, forza di metamorfosi della parola. La lingua intrinseca delle cose e delle creature e la lingua nominale del poeta rendono possibile questa trasmutazione che rimanda ad una conoscenza interiore e cosmica allo stesso tempo. Possiamo leggere, a proposito, a pag. 24:

“…il vento

che è venuto da lontano, ha corso

i sentieri dell’aria, fra le nubi, ha sfiorato

..le cime dei monti modellate

dai millenni e le distese

dell’oceano là dove l’azzurro

si sposa all’oro…

Chi schiude

le finestre…

sente il ricordo, come un polline o un canto”.

Oro, polline, canto e ancora  -più in là- danza, gioco, riflessi dell’acqua, sono tutti termini lontanissimi dalla dimensione luttuosa, termini che incorporano in una magica affinità la presenza di una essenza che la parola poetica riesce a comunicare.

L’excursus poetico si fa via via più impalpabile.  A pag. 28 evidenziamo:

“E non saremo allora altro che musica-

non più carne, non più peso e angoscia

non più malattia sorda, inafferrabile-

solo armonia impalpabile

canto alato…”

Tempus di Poesia, dunque, emersione del binomio scrivere-amare (vedi a pag.29), cifra di chiarità visionaria, di signoria intima, non più dominio della finzione della superficialità dell’apparenza di questi tempi, ma tempo privilegiato di consapevolezza novella.

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