Nicola Romano “Tra un niente e una menzogna” (Passigli Ed.)

di Rossella Cerniglia 

 

 

L'ultima fatica letteraria di Nicola Romano, già nel suo titolo, Tra un niente e una menzogna, stimola subito a chiederci: cosa potrà mai esserci “tra un niente e una menzogna”? La prima provvisoria risposta, che mi è venuta in mente, dopo aver letto qualche verso, è “la vita”. La vita che, appunto, trascorre “tra un niente e una menzogna” come elementi di essa significativi. Ma è appunto una provvisoria risposta, nata tuttavia dal fatto che tale titolo non può certo abbracciare un segmento di essa, qualcosa che sta tra due momenti del nostro vivere, bensì - trattandosi appunto di poesia - del senso della vita intera che in un continuum scorre e si dispiega tra questi elementi, trovando in essi la sua consistenza. Ma comunque la si voglia intendere, essa è pur sempre, una visione indicativa del particolare momento in cui noi la percepiamo e la viviamo.

In effetti, continuando la lettura, sento che sono molti gli indizi che con coerenza mi conducono in questa direzione: la parola Assenza vi è in vario modo declinata, anche quando il suo nome non compare. Potremmo dire, ossimoricamente, che la presenza di tale assenza è costante. Ed essa non è che quel niente,  che è sperimentabile, in termini umani, solo come assenza di qualcosa.

Pervade, infatti, l'intero testo la percezione di un vuoto, di una mancanza – a volte, quella di una  figura femminile rimasta impigliata in un passato o in un ricordo più o meno lontano, e di cui si vive la sola “assenza” nel sentimento doloroso e nostalgico che l'accompagna. Ho proprio, qui, davanti a me, i versi sintomatici e belli di Assenza che concludono: “...ed un lamento scorre sino ai piedi/ se tenera ferita è la tua assenza”.

Vediamo, ad ogni piè sospinto, l'Assenza - ovvero la mancanza, il vuoto - mostrarsi;  il niente far capolino da ogni accadimento, da ogni pensiero, da ogni desiderio che la realtà stritola e calpesta, oppure dissolve. “...Ma io devo pensare/ a cosa e a chi mi manca/ sfilare qualche spina...” (Chiedo scusa) e alla pagina successiva: “...e penso/ che sia giusto confessare/ che a mancarmi/ è sempre la parola...” e ancora: “Per scrivere poesie/ bisogna frequentare il vuoto...”(Le poesie), avere, cioè, la sofferta esperienza del suo senso.

Questa percezione di vuoto esistenziale ci viene incontro come nota straniante, a volte, dopo una versificazione lineare, non accidentata, a segnare una svolta di amaro che l'esistenza produce, e dunque un vuoto del desiderio, un non appagamento, e ancora una mancanza.

   Così, questo qualcosa che manca, è assai vicino al sentimento di una sconfitta. Assurgerebbe a un naufragio esistenziale - per la grande frequenza in cui si annuncia - se l'esistenza dell'autore non fosse declinata nei termini della medietà del quotidiano, vale a dire all'interno di un'esperienza assai concreta che raramente travalica la dimensione del vissuto nel suo tran tran giornaliero.   Ciò non significa affatto che l'autore sia restio ad ogni interrogazione e ad ogni analisi del mondo  che in lui e con lui vive, essendo il mondo – come Heidegger afferma nel suo Essere e tempo -  costituzionalmente, compreso nell'essenza di ogni uomo. Anzi, assistiamo assai spesso ad un arrovellamento perseguito, a un ingarbuglio di pensieri e sogni e ricordi dove il cuore è sempre presente. Già nei citati versi di Una parola, troviamo l'indice sia di una mancanza, che di questo rovello esistenziale, che si ripropone costantemente nei testi di Nicola Romano, ed ha il suo risvolto anche sul piano formale e letterario: quello di un'ardua ricerca per la scelta sapiente della parola, che non sia abusata, ma in se stessa celebrata, e quasi eletta al ruolo di vestale, nel tempio sacro che custodisce la visione di verità e bellezza che è la Poesia.  

Ed ecco un'altra testimonianza di “vuoto” e di “niente”, nei versi di Commiato: “Se solo avessi saputo/ il vuoto/ che poi genera un'assenza/ e che nudo diventa il gelsomino...” : ancora versi tutti intessuti di una “mancanza” e di un desiderio sconfitto, che è esso stesso “mancanza”.

Così è la “presenza/assente” o invisibile dei morti in Echi; così gli amori, simbolicamente impagliati nei ricordi come trofei del cuore, mentre il resto è scarto “da buttare all'aria come loglio”. Così è il ricordo di bellezza e di presenze svanite, fatte di tutto il mondo che le costellava, riempiva, racchiudeva: “...Se Parigi mi torna/ dentro gli occhi/ come un'amante/ sacra ed infinita/ a ricordarmi quando/ sur le siége du bateau/ presi per mano te/ e la Senna intera” (Polittico ai frusti giorni). Grandiosa e commovente rievocazione di un ricordo, di una Assenza, materiata di nostos e rimpianto.

Sempre la realtà emerge nei suoi intimi contrasti: luci e ombre interiori si proiettano su cose e paesaggi e li impregnano di anima, di ricordo, di nostalgia e rimpianto, o del riflesso di una limpida gioia che appare come un vivido raggio tra nuvole spesse.  Non è mai quieta, tale rappresentazione, mai rasserenante. Si mostra, in questi intimi contrasti, una problematicità di fondo che non trova risoluzione, un corrosivo rimuginio dell'anima, sdegnosamente o talvolta uggiosamente, inappagata. Solo l'ironia smorza i toni, e salva dal dramma e dalla tragedia.     

Talora, i versi, inquisiscono il senso di un passato, per un inventario a cui spingono i giorni, e sempre - in specie quelli di chiusura di un testo - approdano a sponde di solitudine e dolore “...a rivedersi nudi e soli/ come l'acqua stagnante del biviere”.  Un senso di dissoluzione e smarrimento, di insensatezza o di disfacimento di tutte le cose emerge da questo bilancio: siamo ancora di fronte a quel niente che è uno dei poli nefasti della vita. Ma il disincanto della lunga teoria di giorni che non appagano ha questo scarto, questo passaggio in un'ironia, greve e amara, che si fa irridente nel quadro in cui la vita si mostra come parodia di se stessa.

Ma ecco alla pagina 63 della silloge, comparire il termine menzogna (che ho l'impressione di non aver ancora incontrato), ed esattamente in questi versi:”...Movenze che dibattono/ tra un niente/ e una menzogna”, versi tratti da Malattie, dove il niente verrebbe a significare “mancanza di senso”, e la menzogna, la maschera risibile e goffa di esso.

Tante sono, in realtà, le menzogne che hanno il nido nella vita, tanti i modi di essere menzogneri, anche quando non perseguiamo un nostro occulto tornaconto; tante le maschere che nascondono la nostra vera identità – tantissime se ne contano nel teatro pirandelliano. Tantissime dipendono dall'adeguarci a un “così si dice” e a un “così si fa” e ad ogni altra convenzione sociale, a schemi irriflessi e facili che nascondono e imbrigliano la vita. Dilaganti sono quelle imposte – senza che ce ne accorgiamo – dai media che ventiquattro ore su ventiquattro ci lavano il cervello a loro piacimento; Menzogna è mantenere quel che si dice “La facciata”; Menzogna è l'insincerità e l'assenza di spontaneità che ci rende indecifrabili e lontani...

Ma, al di là di tutto, la più grande, inaspettata, e triste Menzogna è quella che ci viene dai disinganni della vita: quando togliamo il velo di Maja ai sogni, quando ogni Chimera è sconfitta, e la Fenice smette di risorgere dalla sue ceneri, e muore - anche per un attimo - l'anelito per ogni ulteriore conquista. Tutto questo, questa oltraggiosa sconfitta che subiamo dalla vita, costantemente emerge dai versi di questa silloge, e si tratta di un sentimento bruciante e troppo umano che nessuno può dire di non aver mai provato.

E quando tutto sembra finito, perduto, allora, il canto leopardiano di ribellione e sconfitta di fronte alla Natura matrigna accompagna le nostre vicissitudini, il nostro scacco, le frustrazioni che scompaginano i nostri assetti interiori e deprimono il nostro credo e le promesse del domani. La menzogna che è nella vita, è il tradimento delle attese dei nostri cuori. È l'irrealizzazione del desiderio, e in ultimo, la nostra impotenza e insufficienza, ovvero il nostro limite umano.

Ma nella nostra incompletezza, fallibilità, caducità è un insanabile desiderio di assoluto che la dimensione terrena non appaga, e traduce in anelito allo sconfinamento verso orizzonti che travalicano l'umano.      

                                                                              

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