"Note critiche di Alessio e Fina Di Giovanni su Giovanni Meli, Garibaldo Cepparelli e sul Felibrismo" a cura di Vittorio Riera

 Giuseppe Di Giovanni, Giovanni Meli (Coll. Vittorio Riera)
 
Riportiamo la trascrizione di alcuni materiali riguardanti la collaborazione di Alessio Di Giovanni e dell’ultima sua genita Fina a un'opera quale quella della Bompiani “Dizionario letterario delle opere e dei personaggi”, opera entrata a far parte, fin dalla sua apparizione, del patrimonio dell'UNESCO.  Peccato che Alessio non abbia potuto assaporare questo riconoscimento in quanto i volumi della Bompiani sono usciti dal 1947 in poi, a morte di Alessio avvenuta. Strano comunque come di questa collaborazione non se ne sappia nulla.
 Si tratta soprattutto di spunti critici sulle opere di Giovanni Meli, che si gustano per la concisione e la completezza con cui sono trattate, e su alcune figure del Felibrismo. Su un rappresentante del Felibrismo, Roumanille, si ha anche, a sorpresa, una scheda della figlia Fina, di cui non si conoscono altri spunti critici. Appare chiaro che le ricerche di Alessio sul Meli e sul Felibrismo avevano varcato lo Stretto e non erano sfuggite  ai direttori di sezione, F. Flora e  A. Momigliano, per la Letteratura italiana, e a A. Viscardi per quella provenzale.   
Vittorio Riera
 
 
 
I - ALESSIO DI GIOVANNI CRITICO DI GIOVANNI MELI
 
 
ANACREONTICHI E CANZUNETTI
 
Sotto questo titolo Giovanni Meli (1740-1815) adunò, nelle due edizioni da lui curate (1787 e 1814), quelle ammalianti e dolcissime odicine erotiche che sono il suo maggior capolavoro e alcune leggiadre liriche, le cui tenui, armoniose strofe di vennero di getto, impetuose e calde. Anacreontiche chiamò il poeta le prime, forse perché canta in esse “cose graziose”; i capelli, le ciglia, gli occhi, la voce, l’alito, il petto, i nei, le bellezze occulte o palesi, insomma, non di vani fantasmi femminili, creati a stento da una fantasia distratta e scioperata, ma di donne realmente vissute e vezzeggiate o amate con voluttuoso abbandono. La poesia del Meli, in queste odicine, si distacca risolutamente da quella del giocondo e spensierato vecchio di Coo, per raggiungere una particolare bellezza, ora tutta languida di delicate grazie settecentesche e di moinerie seducenti e civettuole, ora corrusca d’irresistibili, sensuali, siciliani ardori. (VOLUME I – 1947).
 
 
BUCCOLICA
 
Fra le varie opere di Giovanni Meli (1740-1815) questa è stata ed è la più variamente giudicata e la più discussa. Pubblicata nel 1787, è un assieme piuttosto slegato, di sonetti, di egloghe e di idilli in dialetto siciliano, scritti, alcuni (appena sei) in un grazioso paesello di campagna, Cinisi, dove il poeta stette cinque anni (1767-1772) come medico condotto; i rimanenti, n Palermo, in un periodo di tempo che va dal 1772 al 1787, quando il Meli poté leggere per la prima volta, attraverso una traduzione latina, gl’Idilli di Teocrito. Nei primi (quelli scritti in campagna) domina di più l’influsso arcadico dell’epoca, come il poeta stesso conferma in un’avvertenza preliminare, pregando i lettori di trasportarsi, con la fantasia, “o nei presunti tempi della favoleggiata età dell’Oro, o in quegli almeno degli antichi Greci” in modo da potersi immaginare “le Ninfe e i Pastori” da lui cantati così come sono nella dura realtà, ma “in grembo della Natura semplice, o in braccio del Piacere e della Voluttà”; negli altri (quelli scritti in città) c’è un senso più diretto della vita reale, derivato da Teocrito, sebbene questo non tolga ai vari componimenti quell’impronta smancerosa e leccata ch’è propria della poesia agreste del Settecento siciliano. Spicca fra tutti l’idillio ottavo: “era già la staciuni in cui lu suli” pieno di larghe e saporose pitture realistiche, in cui l’Arcadia affiora solo nelle invocazioni alle deità pagane e nelle viete reminiscenze classiche, rese più uggiose dall’uso di un dialetto non derivato dalle pure scaturigini paesane, ma deformato sulla falsariga d’un italiano accademico e muffito. (VOLUME I – 1947).
 
 
DITIRAMMU-SARUDDA      
 
Questo vivacissimo polimetro in dialetto siciliano, pubblicato nel,1787, nella prima intenzione di Giovanni Meli (1740-1815) non voleva essere un ditirambo a uso mdi Redi, ma la rappresentazione realistica d’una solenne cotta che Sarudda, un facchino assiduo frequentatore di cantine e di bettole, e parecchi suoi amici, come lui devoti di Bacco, prendono nel festeggiare le nozze d’un loro vicino, un certo zio Rocco, un altro beone numero uno, il cui lurido tugurio è invaso, quel giorno, da una turba di invitati petulanti litigiosi, pettegoli, volgarissimi, resi impazienti da una voglia matta di alzare il gomito e di fare una buona strippata.
Sarudda, con la sua inesauribile parlantina e inesauribile sete, e con le tante strane smorfie, la fa da maestro di cappella della sciamannata congrega. A un tratto però dimentica d’essere un popolano ignorante e, trasformandosi improvvisamente in portavoce del poeta, uomo di scienza e filosofo, comincia a rivaleggiare col Redi cantando le lodi dei vini di Sicilia (pezzo bellissimo, ma fuori posto me incongruente), per rientrare nei propri panni cenciosi quando si mette a improvvisare, fra gli urli, le risate e i battimani dell’allegra brigata, il suo testamento: un testamento bizzarro e burlesco, denso di continue trovate comiche e di argutissimi motti di spirito. Peccato che il poeta, per andare dietro le orme del Redi, abbia fatto passare in seconda linea questo testamento, che, dopo tutto, dovrebbe essere la parte centrale del componimento.
A lavoro compiuto, egli dovette accorgersi del difetto e cambiò il primieri titolo Lu tistamentu di Sarrudda in Ditirammu. Il quale, così com’è, rimane una delle cose più forti del poeta palermitano, che raggiunge il massimo della sua potenza espressiva, con mezzi e linguaggio schiettamente dialettali e popolari, nella descrizione incisiva e animatissima, di Sarudda, che, ebbro di vino, si abbandona tutto cascante in mezzo alla folla tumultuosa, balbetta, sta per fare un capitombolo, s rizza, barcolla, ha uno scossone, si sostiene, gira, volta, traballa e “tònfete” dà uno stramazzone in terra. (VOLUME II – 1947).
 
 
DON CHISCIOTTI E SANCIU PANZA
 
In Italia va ricordato il poema in dodici canti in dialetto siciliano di Giovanni Meli (1740-1815), composto, pare, i soli de anni (1785-1786). Il poema, non doveva essere nell’intenzione dell’autore, come in fondo non fu, una diretta imitazione del celebre romanzo spagnolo, sebbene qua e là si trovino parecchi episodi di pura derivazione cervantina, ma modificati e trasformati in modo che acquistano una relativa originalità. Nel suo Don Chisciotte il Meli intese ritrarre due suoi amici, uomini dotti, ma che vivevano di fantastici miraggi, fuori della realtà, e in Sancio Panza se stesso, con le sue comuni aspirazioni e con quel suo comunissimo buon senso che, secondo lui, dovrebbe essere la meta principale degli uomini, quando vogliono passarsela alla meno peggio in questo mondo. Essendo, quindi, il poema l’apologia larvata di codesto buonsenso, è naturale che, in esso, Sancio abbia una parte preponderante e ne sia quasi ilo vero protagonista. Ma egli (il Meli non fu mai un creatore di caratteri) finisce con l’essere un altro portavoce del poeta, non una figura realmente viva, come risulta chiaro non solo degli ideali ch’egli vagheggia e dal modo idilliaco con cui vede la vita e gli uomini, ma dal farsi, a un tratto, l’espositore e l’interprete del pensiero del poeta, tale ve quale quest’ultimo ebbe a esporlo, dopo, nelle incisive Riflessioni sullo stato presente del Regno di Sicilia intorno all’agricoltura e alla pastorizia (1801); in esse, il Meli, aprendo finalmente gli occhi nei suoi ultimi anni davanti alla dura realtà, ci da un quadro raccapricciante della misera vita dei contadini e dei pastori siciliani di quel tempo, quasi a contrapporre queste lugubri pagine, in un improvviso impeto di acerbo rimorso, alla beata rappresentazione arcadica che, in giovinezza, aveva dato nella Buccolica (v). Anche questo poema è ricco di interessanti episodi, ma manca d’un vigoroso assieme, senza dire che il dialetto siculo-toscano, adoperato in esso dal Meli, sa fin troppo di lucerna. (VOLUME II – 1947).
 
 
LA FATA GALANTI
 
Poemetto giocoso in dialetto siciliano DI Giovanni Meli (1740-1815) pubblicato nel 1762, quando il poeta aveva appena ventidue anni. È una fantasia ariostesca  in ottave (otto canti in tutto), o meglio una visione. Il poeta, solo e nella sua tranquilla e solitaria stanzetta, sta a fantasticare. Gli par d’essere in groppa a un cavallo alato e di avere accanto una fata bella, accostevole, manierosa, gentile, ché tali e altri infiniti significati del genere ebbe l’aggettivo ‘galanti’ in pieno Settecento siciliano. Volando per l’aria in compagnia di codesta fata, che si rivela infine per la sua Fantasia, immagina di vedere villaggi popolosi, mari deserti, fiumi favolosi luoghi romiti, spiagge tutte risonanti del carezzevole sciabordìo della maretta, castelli bruni e severi, abissi orridi e, in alto in alto, fra le nuvole fitte, una ridda vertiginosa di stelle, nel cielo infinito. E tutti questi luoghi li vede popolati ora di esseri fantastici(la Doppiezza, l’Amore platonico, la Politica, la Furfanteria), ora venerande, bizzarre o grottesche figure di poeti, di scienziati, di filosofi, ora da una turba tumultuosa di dei mitologici. Abbandonato dalla Fantasia,. Il corpo del poeta resta per un lungo tratto immobile e senza vita. Poi, appena essa ritorna ad animarlo, egli, ritrovandosi nella sua stanzetta, davanti al solito tavolino, si frega gli occhi e rimane per un pezzo con in cuore la triste nostalgia del sogno svanito.  Non ostante le molte derivazioni e imitazioni e le inevitabili inesperienze, questo poemetto rimane, nell’assieme, una delle cose più immediate e più fresche del Meli, che vi rivela una inesauribile vena umoristica e satirica, resa più arguta e più mossa da un fraseggiare schiettamente indigeno, non ancora contaminato da viete allumacature letterarie.  (VOLUME III – 1947).
 
 
FAVULI MURALI
 
Queste Favole Morali in dialetto siciliano furono scritte da Giovanni Meli negli ultimi tre anni della sua vita e pubblicate in parte postume  con altre poesie. In esse animali e uccelli d’ogni specie (e sta qui principalmente la spiccata originalità di queste piccole opere d’arte, anche quando esse derivano da fonti notissime) assumono tendenze, pensieri, carattere singolarmente settecenteschi. Cosicché a un certo punto, leggendo, si dimentica di avere da fare con delle bestie e si ha la perfetta illusione di trovarsi in pieno Settecento siciliano e di vedersi sfilare davanti agli occhi, come su uno schermo,  tutte le piaghe, le sordidezze, le storture, le ipocrisie di quella società corrotta, che il poeta analizza e fustiga con mano vellutata, ma che lascia intanto, a ogni colpo, lividure incancellabili. All’amabile arguzia, e alla fine satira di queste favole corrisponde la semplicità della forma, resa più immediata dall’uso di un dialetto genuino che sa di polla montana e di soavi freschezze primaverili. (VOLUME III 1947).
 
 
L’ORIGINI DI LU MUNNU
 
Poemetto satirico, a fondo caricaturale, in ottave che Giovanni Meli (1740-1815) scrisse in dialetto siciliano nel 1770) e che pubblicò nel 1787: compiuta opera d’arte  per proporzioni e omogeneità di parti, per freschezza di dialetto, per rappresentazione viva, efficace, festevolissima. L’argomento è assai semplice: Giove e tutti gli altri dei dell’Olimpo discutono a lungo sul miglior modo di creare il mondo. Infine il ‘pater deorum” comanda ai suoi figli che gli stirino le divine membra per cavare da esse le varie parti della terra. La Sicilia è formata dalla testa di Giove. Ma codesta capo venerando è popolato da innumerevoli, fastidiosi insetti, dei quali, ci assicura il poeta,  la povera isola è sempre ripiena e desolata. Cauta allusione, quest’ultima, alle infelici condizioni politiche del paese e anche all’indole spesso burbanzosa e megalomane, di molti isolani.ma lo scopo principale del poemetto è quello di mettere in ridicolo il sistema filosofico, originale e profondo del pensatore monrealese Vincenzo Miceli (1733-1781). E poiché, tra rigo e rigo, il Meli satireggia tutte le credenze cosmogoniche dell’umanità, questo suo felice componimento si riattacca direttamente a quelle liriche in cui domina un tetro senso pessimistico della vita, reso più cupo da un’occulta ondata di amara miscredenza. (VOLUME V – 1948).
 
 
II - FONOGRAFIE VALDELSANE
 
Prose sceneggiate nel vernacolo della Valdelsa di Garibaldo Cepparelli (1860-1931), pubblicate nel 1906. Il titolo suggerito al Cepparelli da Isidoro Del Lungo e da Orazio Bacci che tennero a battesimo la prima edizione del libro, non ne rende l’intimo significato, perché la ‘fonografia’ fa supporre un che di statico e di copiato, qualcosa che potrebbe diventare, ma non né ancora diventato arte compiuta. Queste deliziose istantanee sono, invece, “la nuda e apparentemente impersonale trascrizione di piccole commedie e piccoli drammi colti sul vivo”. Il Cepparelli ha una visione originale, ora commossa, ora finemente umoristica, della vita campagnola della Valdelsa, e con poche battute di un dialogo vivo, nervoso, efficace, sa delineare scene e caratteri, paesaggi pieni chiaroscuri, in pagine che odorano di sole e di campagna. Si vedano in proposito Miseria, lodatissima dal Pascoli, Giornataccia, Ritorno dalla fiera, Il Viatico, La morticina, L’Erede, quest’ultima specialmente: rappresentazione amara della vita così com’è, con le sue luci di bene e con le sue ombre gelide e scoranti, in cui brulica una folla varia e tumultuosa di figure vive, agitate da passioni oscure e contrastanti. Sono pagine che oltrepassano gli umili e angusti limiti di un’arte strettamente regionalistica, per elevarsi a una severa rappresentazione umana, densa di un significato più profondo e universale. (VOLUME. III – 1947).
 
 
III - ALESSIO DI GIOVANNI E IL FELIBRISMO
 
 
CANIGÒ (Canigou)
 
Poema del poeta catalano Mossen Jacinto Verdaguer Y Santaló (1845-1902) che, pubblicato nel 1880, faceva coronare il suo autore “poeta della Catalogna”. Il vero protagonista di questo racconto provenzale non il conte di Roussilon, di cui il poeta canta le epiche e romanzesche avventure, ma il Canigou, la montagna nazionale della Catalogna storica, e, con esso, gli altri monti dei Pirenei catalani. Conoscendo ‘de visu’ tutte le vedute pittoresche e tutte le montagne del suo fiero e meraviglioso paese, il Verdaguer ce ne dà, in questo singolare poema, frequenti e grandiose descrizioni. Quella della Maledetta, per esempio, fu valutata giustamente da un insigne critico spagnolo, un brano di poesia ciclopica, tagliato nella roccia e veramente colossale”. (Trad. di Maria Licer). (II VOLUME- 1947).
CANTI DELLA TERRA (Li Cant dòu Terraire)
 
Raccolta provenzale di Charloun Riéu (1846-1924), il poeta contadino del Paradou, che, tra i felibri, rappresenta il popolo vero, insieme con Apohonse Tavan, con Laforêt, il poeta-carrettiere, e col giardiniere Baptiste Bonnet.
Uomo dei campi, ma ammaestrato alla scuola del Felibrismo, il Riéu a un’istintiva padronanza del verso una sanità paesana, una delicatezza, un’ingenuità di linguaggio e di sentimento, che sono le sue doti più schiette. I suoi canti non hanno grandi pensieri, ma sono sempre armoniosi e incisivi. La ragazza di Mouriés (La chato de Mouriés), La Sementa (La Semenço), La mazurka all’ombra dei pini (La mazurka souto li pin), Le prime violette (Li promièri viòuleto), Il mio mulo Roubin (Moun Roubin), Il mio sequestro (Ma sesido) sono freschi fiori di campo, tutti semplicità, verità e grazia, senza ombra di arcadici vietumi. Perché Charloun canta con innocente sincerità tutte quelle cose che formano la sua vita e che egli particolarmente ama: le gioie, sobrie e dure, dei lavori agresti, la custodia amorosa delle greggi, il suo mulo Roubin “così docile e così affabile”, il suo aratro, i suoi olivi, l’ombra dei buoni alberi, le lunghe camminate per le strade ebbre di sole, accanto alla sua carretta cigolante e polverosa.
I Canti della Terra furono seguiti dai Nuovi Canti della Terra (Li nouvèu Cant dòu Terraire, 1900) e dagli Ultimi Canti della Terra (Li darrié Cant dòu Terraire).
Il primo volume contiene una briosa, saporosa e commossa prefazione di Frédéric Mistral che aveva per il suo Charloun affetto e amicizia grandi. (II VOLUME- 1947).
 
 
LE MARGHERITINE (Li margarideto)
 
È la prima raccolta di versi del poeta provenzale Joseph Roumanille (1818-1891), la quale, apparsa nel 1847, ha una particolare importanza nello svolgimento della moderna poesia provenzale. Il Roumanille in questa poesia umile e domestica, quasi parlata, rivela un’anima delicata e sensibile, anche quando si abbandona a un’ondata di buon umore, sereno e spontaneo. Alcune sue liriche, tutte soffuse di una soavità profonda, paiono sussurrate da una voce tenera e dolente e dànno un senso di freschezza primaverile e di commozione intensa. La loro gentilezza di pensiero e di forma è notevolissima, se si pensa che queste piccole miniature furono scritte quando il Felibrige (cioè il rinascimento dell’antica lingua dei trovatori) era ancora di là da venire, e “la duoço parladuro de Prouvènço” così viva sul labbro dei contadini e dei pastori, era creduta ormai un rozzo patois che si poteva impunemente imbastardire e inselvatichire sempre più, perché buono soltanto per le facezie grossolane e per gli argomenti licenziosi. Furono questi spontanei “messaggeri della primavera felibristica” che fecero esclamare a Frédéric Mistral quando, giovinetto, li udì per la prima volta dalla viva voce del Roumanille: “Ecco l’alba che la mia anima attendeva per destarsi alla luce”. (IV VOLUME).
 
 
RACCONTI PROVENZALI (CONTE PROVENÇAU)
 
Prose in provenzale di Joseph Roumanille (1818-1891), uno dei fondatori dell’associazione dei nuovi poeti provenzali, i Felibri, sorta nel 1854. Apparsi dal 1855 in poi nell’ “Almanacco provenzale” (“Armana Prouvençau”), i Racconti provenzali furono raccolti in volume nel 1883, rivelando alla Francia uno dei suoi più schietti e originali narratori, e dando agli scrittori provenzali un nuovo mezzo per rendere tutto quello che c’è di particolare e di profondo nell’anima ardente della razza e che solo può esprimersi con la lingua degli avi. Il Roumanille possiede naturalmente il genio di codesta lingua fresca, viva, incisiva, piena di scorci meravigliosi. Quasi sempre in un intreccio semplicissimo (una pésca andata a vuoto, una caparra rubata, una gioconda beffa, un tiro birbone a dei poveri diavoli) il Roumanille riesce a darci narrazioni nuove, vivacissime e spigliate, anche quando gli argomenti sono tratti dalla tradizione orale o da vecchi libri dimenticati. Bellissimi, fra tanti racconti, Il Romito di San Giacomo (L’Ermitan de San-Jaque)  la burla che un astuto romito fa a un suo malaccorto benefattore carpendogli un grosso e grasso tacchino, già ripieno e pronto per la rituale cena natalizia; L’Abate Turaccioletto (L’Abat Tabouissoun), la storia, tra mesta e giocosa, di un buon prete che ha sempre le labbra aride e che ha bisogno di inumidirle con un sorso di buon vino, specialmente quando predica sul pulpito, donde una sua umiliante avventura; Quando ero bambino (Quand ère enfant): un gustosissimo episodio di vita infantile, reso con incomparabile verità e grazia birichina; e La Salvia (La Sauvi): una pia leggenda popolare, tutta pervasa di devota e sincera ingenuità e di commozione profonda. Alcuni di questi piccoli capolavori furono tradotti in francese da Alphonse Daudet, dal Pontmartin, dal Blavet e da altri. Trad. di Alessio Di Giovanni (Milano 1914). (VI VOLUME - 1948).
 
 
 
PARTE SECONDA - FINA DI GIOVANNI
 
 
ROUMANILLE, JOSEPH
 

Nato il 6 giugno 1818 a Saint Rémi (Provenza), morto il 24 maggio 1891 ad Avignone. È il più immediato precursore del félibrige e uno tra i più importanti poeti provenzali moderni. Di umile famiglia, compì gli studi classici ed entrò nella carriera dell’insegnamento. Dal 1846 professore dell’istituto Dupuy di Avignone, vi ebbe alunno il Mistral quindicenne: e dall’incontro fra i due, il maestro che fin da giovinetto aveva incominciato a scrivere poesie provenzali (anche perché sua madre non poteva comprendere quello che egli componeva in francese), e lo scolaro che cominciava a scriverne nacque una profonda amicizia che durò tutta la vita senza la più piccola nube. Da questa amicizia doveva scaturire il félibrige, che, si può dire, già si era iniziato dal primo incontro dei due e dalle letture delle Margheritine (1847) del maestro allo scolaro ammirato. Il félibrige fu poi consacrato solennemente nel castello di Font-Ségugne il 21 maggio 1854 quando si riunirono i primi sette felibri , il padrone vedi casa, Paul Giéra, il Roumanille, l’Aubanel, il Mistral, il Mathieu, il Brunet e il Tavan. Il Roumanille fondò nel medesimo anno il famoso Armana prouvençau, organo ufficiale del movimento. Oltre alle poesie su ricordate, egli pubblicò Li Prouvançalo (1852), raccolte di poesie sue, di Mistral, di Aubanel e Mathieu; La campano mountado (1857), poema eroicomico; Li flour de Sauvi (1863) e numerosi scritti in versi e in prosa. Lis obreto en vers (1860) sono la principale raccolta delle sue poesie e Lis obreto en proso (1864) la principale raccolta delle sue prose; fra le quali ricordiamo specialmente i Racconti provenzali (1863). Né bisogna dimenticare i briosissimi aneddoti pubblicati nell’Armana, quei Cascareleto, che egli firmava con lo pseudonimo Lou Cascarelet (pazzarellone, giovialone). Roumanille non sempre insegnò. Per dieci anni fu correttore nella stamperia Sèguin di Avignone, ma  siccome il suoi duro lavoro gli nuoceva alla vista, si fece libraio-editore, incoraggiando la rinascita letteraria e il commercio librario provenzale. Tenne fede al suo ideale monarchico e cristiano, oltre che (s’intende) a quello della rinata poesia della sua terra.

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